martedì 31 marzo 2009

Immigrati, 500 dispersi nel Mediterraneo: "No all'indifferenza"

ROMA - Il Centro Astalli esprime dolore e sconcerto per quanto sta accadendo in queste ore a largo della Libia. "Oltre 500 dispersi in mare- si legge in una nota- e' l'ennesima tragedia che si consuma ai danni di chi, in cerca di una vita libera e dignitosa, e' costretto ad affidarsi a trafficanti senza scrupoli per raggiungere l'Europa. Non si puo' piu' rimanere indifferenti a cosa sta accadendo in molto paesi africani, dove migliaia di persone non riescono a sopravvivere a causa della mancanza dei piu' elementari diritti umani. C'e' un'umanita' che chiede all'Europa aiuto e protezione da guerre e sanguinose dittature alla quale non si puo' restare indifferenti. È indispensabile creare un canale umanitario, sicuro e fuori dai traffici clandestini che permetta di esercitare il diritto d'asilo". "Ancora una volta - prosegue il Centro Astalli- le politiche cosiddette di sicurezza messe in atto da molti governi europei tra cui quello italiano risultano inefficaci nel gestire un fenomeno inarrestabile come quello delle migrazioni forzate". "Anche negli accordi con la Libia- sostiene padre Giovanni La Manna, presidente del Centro Astalli- il governo italiano non dovrebbe negoziare in alcun modo il rispetto dei diritti umani e la garanzia della possibilita' di accesso all'Europa a chi si mette in viaggio in cerca di protezione". Sconcerto viene espresso anche dall'agenzia Habeshia, impegnata nella cooperazione allo sviluppo. "Perche' non e' stato possibile evitare simili tragedie? Cosa fa l'Agenzia Frontex se non puo' prevenire queste tragedie? Il suo compito e' solo quello di impedire che gli immigrati arrivino vivi nel continente europeo? Non potrebbe fare prevenzione salvando vite umane dalla morte per annegamento nel mediterraneo, che gia' da tempo e' diventato la tomba dei disperati? L'Europa non si vergogna di fronte a simili tragedie della sua politica difensiva a danno delle vite umane che muoiono ai suoi confini. Di fronte alla disperazione, persecuzioni, miserie che spingono migliaia di immigrati verso l'Europa, non c'e' nessun accordo che tenga. L'Europa deve avviare una seria politica di programmazione di reinsediamento dei richiedenti asilo politico e rifugiati, apolidi, profughi. Non serve alzare barricate di navi, militari o accordi bilaterali che non prevedono la salva guardia della dignita' e vita umana". 31 marzo 2009

Tragedia al largo della Libia centinaia di migranti dispersi

Di quattro barconi in difficoltà due, con quasi 600 persone a bordo sono affondate. Salvate solo 23 clandestini. Giallo sull'intervento di nave italiana. TRIPOLI - Nuova tragedia del mare tra l'Africa e l'Italia: due barconi carichi di migranti sono affondati. A bordo c'erano centinaia di disperati e quasi tutti sono al momento dati per dispersi dai guardacoste libici che stanno conducendo le operazioni di soccorso. Le informazioni sull'accaduto sono ancora confuse. Si parla - a quanto riferito alla Reuters da funzionari locali - di quattro imbarcazioni in difficoltà non lontano dalla costa della Libia. Di queste due sono sicuramente affondate. Delle altre due non si sa niente, anche se il ministero dell'Interno libico ha reso noto che una nave cisterna italiana ha salvato 350 clandestini che si trovavano a bordo di una imbarcazione alla deriva. Per il momento sono state tratte in salvo 23 persone mentre di altre 21 sono stati recuperati i corpi senza vita. I dispersi: considerando che su una imbarcazione affondata si trovavano 253 persone e sull'altra 365, sono pertanto più di 500. Secondo quanto ha reso noto l'agenzia egiziana Mena, tutti i clandestini - molti dei quali di nazionalità egiziana - erano diretti in Italia. Una delle imbarcazioni era partita da Sid Belal Janzur, un sobborgo di Tripoli e dopo tre ore di navigazione il battello è affondato 30 chilometri al largo della Libia. Delle altre i libici affermano di non avere certezza del luogo di partenza. Quanto al salvataggio effettuato da una nave italiana, resta qualche incertezza. Fino alla tarda serata - secondo quanto si è appreso - sia del naufragio sia del soccorso da parte di una nave cisterna non era giunta alcuna segnalazione alle autorità italiane competenti per la ricerca e il soccorso in mare. L'ennesima tragedia sulla rotta tra la Libia e la Sicilia non ha comunque fermato i viaggi della disperazione verso l'Italia: oltre 400 extracomunitari sono approdati infatti nelle ultime ore sulle coste della Sicilia orientale, dopo i 222 giunti ieri a Lampedusa. Sbarchi che, ha assicurato il ministro dell'Interno Roberto Maroni, "termineranno il 15 maggio prossimo, quando entrerà in vigore l'accordo siglato dal governo italiano con quello libico sul pattugliamento congiunto delle coste". Il primo barcone si è arenato nella serata di ieri sulla spiaggia di Scoglitti, una frazione di Vittoria, in provincia di Ragusa. A bordo c'erano 153 immigrati, tra cui 29 donne, che dopo le procedure di identificazione sono stati portati nella palestra comunale di Pozzallo. Una carretta di circa 20 metri con a bordo 249 persone, tra le quali 31 donne - tre incinte - e otto minori, è approdata invece all'alba a Portopalo di Capo Passero, nel siracusano. Gli extracomunitari, in gran parte somali ed eritrei, sono stati scortati in porto dall'unità navale delle Fiamme Gialle e da una motovedetta della Guardia Costiera. Un giovane somalo di 24 anni è stato arrestato dalla Guardia di Finanza, con l'accusa di essere lo scafista che ha condotto l'imbarcazione, partita dalle spiagge libiche. Intanto a Lampedusa si registra una nuova fuga dal Centro di identificazione ed espulsione: una ventina di migranti sono riusciti ad allontanarsi dal Centro, prima di essere bloccati qualche ora dopo dai carabinieri. Due di loro, sorpresi a rubare all'interno di alcune villette disabitate, sono stati arrestati; altri cinque sono stati denunciati per violazione di domicilio. Episodi che fanno salire nuovamente la tensione sull'isola, dove in questi momenti si trovano complessivamente 720 extracomunitari distribuiti tra il Cie di contrada Imbriacola e l'ex base Loran di Capo Ponente. Ieri il sindaco, Dino De Rubeis, aveva lamentato la mancanza di assistenza medica adeguata per i 222 migranti sbarcati nel pomeriggio. Affermazioni seccamente smentite dal responsabile del Dipartimento immigrazione del Viminale, Mario Morcone: "Il sindaco dice il falso. Sul molo, hanno operato quattro medici e un infermiere e l'ambulanza che il dipartimento libertà civili ha acquistato e che è costantemente a disposizione delle necessità sull'isola". (31 marzo 2009)

sabato 28 marzo 2009

Dossier Caritas, crescono gli immigrati imprenditori

Dedicato all'imprenditorialità degli immigrati l'annuale dossier Caritas Migrantes presentato questo pomeriggio ad Olbia. Cagliari e la Gallura sono i due poli di attrazione per l'immigrazione e ospitano il sessanta per cento dei 27mila stranieri residenti in Sardegna. Il 43 per cento proviene dall'Est europeo, il 30 per cento dall'Africa e il 19 per cento dall'Asia, in forte ascesa negli ultimi anni. Gli stranieri titolari di impresa sono passati dai 1380 del 2003 ai 2150 del 2008. In Gallura si inseriscono soprattutto nel settore turistico.

Il Potere Cresciente Cinese in Africa si Trasforma in Diktat Politico. La Cina Detta Legge in Africa!

Sud Africa impedisce ingresso a Dalai Lama JOHANNESBURG (Reuters) - Il Sud Africa ha negato al Dalai Lama, il leader spirituale tibetano, l'ingresso nel Paese per partecipare una conferenza di pace. Lo hanno riferito oggi alcuni media. Il Dalai Lama doveva partecipare alla conferenza, fissata per il 27 marzo, insieme ai premi Nobel per la pace Desmond Tutu, Martti Ahtisaari e FW de Klerk, e allo stesso Comitato norvegese per il Nobel per la pace, ha scritto il Sunday Independent. Il giornale dice che il visto è stato rifiutato in seguito alle pressioni esercitate dal governo cinese. Una decisione che avrebbe provocato la richiesta di spiegazioni da parte dell'Arcivescovo Tutu, che ha anche minacciato di non partecipare all'incontro. Oggi l'ufficio di Tutu ha detto di non aver al momento altre dichiarazioni, in attesa di una risposta dalla presidenza sudafricana. Il Dalai Lama è fuggito dal Tibet nel 1959 e ha istituito un governo tibetano in esilio in India, dopo il fallimento di un'insurrezione contro il dominio cinese. L'anno scorso a Lhasa, capoluogo regionale del Tibet, è scoppiata una rivolta che ha fatto seguite alle proteste pacifiche inscenate per giorni dai monaci contro Pechino, con la morte di 19 persone e un'ondata di manifestazioni in tutte le zone abitate da tibetani. Secondo i gruppi tibetani in esilio la repressione cinese avrebbe fatto oltre 200 morti. Il Sunday Independent dice che l'ambasciata della Cina in Sudafrica ha confermato che il governo di Pechino ha rivolto un appello ai sudafricani perché non consentano l'ingresso del Dalai Lama. Il gruppo di sostegno "Amici del Tibet" ha detto in una nota che la rappresentanza diplomatica sudafricana in India ha chiesto al Dalai Lama di "rinviare" la visita. Alla richiesta di un commento sulla notizia, il portavoce del ministero sudafricano degli Esteri Ronnie Mamoepa ha detto: "Il governo sudafricano non ha esteso al Dalai Lama alcun invito a venire in Sudafrica. Il Dalai Lama è stato invitato a partecipare alla conferenza da Tutu, De Klerk e dall'ex presidente Nelson Mandela.

Teza di Haile Gerima

Fra Europa e Africa, un viaggio per ritrovarsi A sei mesi dal quasi Leone d’Oro di Venezia (ha avuto invece il Premio Speciale della Giuria e l’Osella per la Migliore Sceneggiatura), e dopo aver sorpreso la critica mondiale a Toronto e fatto man bassa di premi ad Amiens, Salonicco, Tunisi e Ouagadougou, dal 27 marzo sbarca nelle sale italiane Teza (2008), capolavoro imperfetto dell’etiope-americano Haile Gerima. Distribuisce Ripley’s Film, per ora in trenta copie. Teza è un film-saga che attraverso il racconto della vita dell’intellettuale etiope Anberber ripercorre un significativo frammento di storia a cavallo tra Etiopia e Germania, Africa ed Europa, Occidente acculturato e Terzo Mondo vittima della feroce dittatura di stampo marxista di Mengitsu, che fino al 1991, anno della sua deposizione, ha seminato terrore e povertà in uno dei tantissimi paesi distrutti dall’autoritarismo in età postcoloniale. Fornito da Filmtrailer.com Teza si fa apprezzare grazie a un uso molto innovativo del linguaggio, a testimonianza di una rinnovata attenzione di tanti cineasti africani degli ultimi anni verso la ricerca di uno stile personale e fortemente ancorato a fondamenta teoriche, con il fine di restituire una valenza morale che fa del film un’opera dall’altissimo valore sociale, storico e antropologico. La durata stessa di Teza, ben superiore alle due ore, una durata assai maggiore della media dei film in concorso, testimonia di una forte motivazione e di una ricerca stilistica sofferta e personale. Teza è ambientato nel presente di un villaggio nel cuore dell’Etiopia dove Anberber, medico laureato in Germania, torna in età avanzata. Al racconto del suo presente, costruito con grande rigore estetico e attraverso soluzioni espressive molto suggestive, talora ispirate al teatro e accompagnate da una splendida colonna sonora, si alternano numerosi flashback della sua adolescenza, caratterizzate da un linguaggio meno ieratico e più immediato, un montaggio meno rarefatto e più incalzante. La capacità di adottare in maniera appropriata una pluralità di registri linguistici è un pregio che accomuna felicemente Teza e Gabbla, che dunque presentano una volontà esplicita di indagare nuove modalità d’uso del mezzo cinematografico. La sceneggiatura, giocata su due differenti piani temporali, è costruita in maniera molto accurata e coerente, e riesce a convogliare in maniera perfetta le velleità ideologiche del film. Nelle scene ambientate in un’Etiopia molto realistica, in sintonia con il carattere connotato dei social settings tipico del recente cinema africano postcoloniale, Anberber è sovente ripreso in primo piano, in inquadrature statiche che creano le matrici di una coerenza stilistica che dà ancor più valore a Teza, mentre le riprese del protagonista da giovane, spesso coinvolto in accaniti dibattiti politici con i suoi colleghi studenti, sono molto meno trascendenti, Anberber appare spesso in scene corali nelle quali attraverso dei dialoghi molto curati, si mostra la lenta e ponderata costruzione della sua identità politica. Il controllo della messa in scena sembra molto forte, a testimonianza dello sforzo di costruire uno stile individuale, che è indubbiamente la caratteristica che fa di Teza uno dei sei o sette migliori film del concorso di quest’anno. Di ritorno in Etiopia, egli sarà travolto dall’invasione ideologica di dottrine politiche di stampo marxista, che alcuni capi-partito etiopi hanno importato da altri paesi. È significativa la scena in cui, durante un’intervista con una giornalista americana, uno di questi “teorici” dichiara con orgoglio che il vero modello di comunismo, quello che l’Etiopia importerà, è quello adottato in Albania. A nulla serve notare che proprio grazie a quel regime l’Albania versa in condizioni disperate. Il viaggio di Anberber è in realtà la metonimia di un viaggio spirituale, un romanzo di formazione che lo porterà dalle braccia del suo maestro, un umile insegnante del suo villaggio, sino in Germania a venire a conoscenza di tutte quelle idee che di lì a poco distruggeranno le sue amicizie, i suoi affetti e il suo paese natale, e per concludere la parabola, lo riporterà, medico, laureato addolorato per la sua capacità di comprendere il dolore del suo paese, tra i banchi della scuola da cui era partito il suo cammino. Teza, per trarre le fila del discorso, trova il sistema per coniugare valenza morale e ricerca stilistica in un sistema perfettamente organico. Un ritmo vivo, un montaggio “rustico” ma efficace, un’istanza stilistica fortissima, gli servono per orchestrare la parabola di un uomo che attraverso la conoscenza del diverso e allo stesso tempo indipendentemente da esso, riesce a costruire quell’identità politica e culturale che unica permette un’integrazione felice, uno sviluppo politico e sociale coerente. Un messaggio chiaro dal Terzo Mondo, un grido di speranza da una terra che sembra non aver capito la grande importanza del messaggio che la parabola di Teza disegna con tanta forza e chiarezza. Simone Moraldi Cast & CreditsTeza Regia: Haile Gerima; sceneggiatura: Haile Gerima; fotografia: Mario Masini; montaggio: Halile Gerima, Loren Hankin; scenografia: Patrick Dechesne, Alain-Pascal Housiaux, Seyum Ayana; musiche: Vijay Iyer, Jorga Mesfin; interpreti: Aaron Arefe, Abeye Tedla, Takelech Beyene; origine: Etiopia/Germania/Francia, 2008; formato: 35 mm, 1:1,85; durata: 140’; produzione: Haile Gerima e Karl Baumgartner per Pandora Film Produktion, Negod-gwad Production, Unlimited, Westdeutscher Rundfunk; distribuzione: Ripley’s Film

Gerima presidente di giuria a Venezia

Il regista etiope Haile Gerima sarà il Presidente della Giuria internazionale del Premio Venezia Opera Prima nell’ambito della 66. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica che, organizzata dalla Biennale di Venezia e presieduta da Paolo Baratta, avrà luogo dal 2 al 12 settembre 2009, ancora sotto la direzione di Marco Müller. La giuria internazionale del Premio Venezia Opera Prima presieduta da Haile Gerima assegnerà senza possibilità di ex-aequo, fra tutte le opere prime di lungometraggio presenti nelle diverse sezioni della Mostra, il Leone del Futuro - Premio Venezia Opera Prima (Luigi De Laurentiis), nonché un premio di 100.000 USD, messi a disposizione da Filmauro, che saranno suddivisi in parti uguali tra il regista e il produttore. Haile Gerima, figura guida del cinema africano e padre fondatore di quello indipendente afroamericano, è l’autore del film africano più premiato nella storia, Teza (da oggi finalmente in sala per la Ripley’s Film): Premio Speciale della Giuria e Osella per la Migliore Sceneggiatura all’ultima Mostra di Venezia, vincitore alle Jcc di Tunisi e al Fespaco di Ouagadougou, oltre che ad Amiens e in selezione ufficiale a Toronto.

Il mondo in una goccia di rugiada

a cura di Leonardo De Franceschi, con la collaborazione di Laura Campanile Incontro con Haile Gerima Al termine della conferenza stampa romana di Teza, il 19 marzo, abbiamo incontrato un Gerima inesauribile, pieno di storie da raccontare e di rabbia per l’ostilità incontrata dal progetto di sequel di Adwa. Vorremmo partire da un elemento che è sempre molto presente nel tuo cinema, cioè la tradizione orale, come principio ispiratore della struttura narrativa e come patrimonio di miti e immagini che esaltano la natura (l’acqua, il fuoco, ecc.). Negli anni Settanta e Ottanta si faceva un gran parlare di ritorno alle fonti e dell’utilizzo della tradizione orale come strategia narrativa e simbolica. Teza ci sembra dimostri come questa direttrice sia ancora straordinariamente vitale e ricca di prospettive inesplorate… Per me viene anzitutto l’argomento, in questo caso la dislocazione intellettuale del protagonista. Se non posso portare nella storia il mio aspetto culturale, come posso trasmetterti il mio background, definire le piccole cose che mi mancano, come l’idea di teza? Io non sono mai stato interessato nell’idea di raccontare la mia storia così com’era. Erano altrettanto importanti il contesto e la forma del racconto. La mia battaglia è per l’identità. Chi sei, come parli, come guardi il mondo, e la logica del tuo processo di pensiero. Se sei nato in certe regioni, ti rimane un certo background. Ho sempre cercato di scoprire chi sono, perché vedo il mondo in un certo modo metaforico. Molti africani vogliono censurare il modo in cui guardano il mondo perché sentono che l’Europa non li capisce. A lungo termine io penso che l’Europa rispetterà il modo in cui essi guardano il mondo. Quando stavo facendo il film, fra il produttore e me le discussioni più grandi riguardavano il modo in cui gli europei avrebbero potuto entrare nella mia storia. Nessuno mi ha mai chiesto: gli etiopi capiranno? Gli etiopi pensano in termini storici, basandosi su una realtà materiale, culturale, sui rapporti umani, inventano di continuo metafore, indovinelli. Anche questo è importante preservare, e amplificare, senza vergognarsene. Uno dei guasti peggiori del colonialismo è stato spingere l’elite in Africa a vergognarsi del suo migliore passato, delle sue tradizioni, tutto è stato frainteso. Così automaticamente cerchiamo di autoesiliarci, dimenticare il modo in cui i nostri padri guardano il mondo. Quando il film è uscito in Etiopia, ho portato il mio zio più anziano a vederlo, insieme ai miei sei figli che ho portato dagli Stati Uniti. Alla fine del film li ho fatti incontrare e ho detto loro: ecco da dove vengo. Loro sono andati in Etiopia, l’hanno visitata, ma non capiscono mai, così ho invitato il patriarca della famiglia e lui si è messo a cercare nel film il figlio che ha perso durante la guerra. Lui che è fisicamente nel film, è uno degli anziani del villaggio, cercava nel film il figlio perduto! Pensa a quale prospettiva incredibile! Per lui l’illusione del cinema non finisce con i titoli di coda. Mi ha detto: la prossima volta voglio esserci perché il film non ho l’ho visto bene. Per me queste sono le esperienze che contano. Prendi la donna che recita il ruolo della madre: era un’orfana durante l’occupazione italiana insieme a mia madre, e durante le riprese era sempre nervosa per il ruolo. Io le ho detto: non ti preoccupare, tu conosci il ruolo, non ti devo dire niente. Noi l’abbiamo aiutata con un coach, perché non sa leggere. In Etiopia qualcuno le ha chiesto come avesse fatto a recitare, visto che era la prima volta, e lei ha risposto: la vergine Maria mi sussurrava di non rovinare il film di Haile. La madre di Gesù le sussurrava consigli su come recitare bene nel film! Non è proprio un metodo di recitazione alla Brando. Queste sono le realtà che interessano a me, il modo in cui pensano gli etiopi, sull’amore, l’odio, l’amicizia, ecc. Se vieni da un villaggio, hai già un’estetica, un modo di vedere il mondo. Vuoi esprimerlo o rinunciarci perché il produttore non la pensa allo stesso modo? Ho incontrato un produttore che mi ha detto: voglio fare un film in Etiopia. Non mi ha chiesto che film volessi fare io. Mi capita continuamente. Tutti hanno un progetto da fare in Etiopia, tranne me. Ho quattordici sceneggiature. In questi quattordici anni che mi ci sono voluti per fare Teza non ho fatto altro che scrivere sceneggiature, con cui potrei andare avanti per anni. Come altro avrei potuto gestire la mia dislocazione? Il cinema può ottenere molto dagli africani, dai latinoamericani perché c’è una ricchezza inesplorata sul piano estetico. Il cinema italiano è ricordato romanticamente per il neorealismo. Perché? Perché era italiano. Ora anche i film italiani sembrano film hip hop, come quelli americani, sembrano film americani doppiati in italiano. L’impero americano sta cambiando il linguaggio del cinema mondiale. I francesi stanno lottando per affermare il proprio diritto ad essere diversi da Hollywood. Per quanto tempo potranno andare avanti io non lo so. C’è un legame molto forte fra Teza e Harvest 3000 Years (1975). Mi riferisco in particolare al personaggio del ricco proprietario, ossessionato da Azanu che ha ucciso il suo figlio naturale. Il suo potere assoluto sulle cose e sulle persone, che continua anche sotto il regime di Menghistu, mi ha ricordato il potere feudale del padrone di Harvest. Volevi forse suggerire che nell’Etiopia di oggi ci sono ancora segni di questo potere feudale millenario? Sì, parlerei di segni di persistenza. Al di là di quelle che erano le parole d’ordine politiche, durante il regime marxista, la maggior parte dei marxisti erano feudali. Non c’è niente di peggio che essere feudali e marxisti. Questo tizio è come quello di Harvest, nel nuovo mondo marxista fa il giudice, ma è rimasto feudale e fa ancora più danni adesso perché i vecchi feudali avevano un sistema di regole spirituali, si ritenevano investiti da Dio del diritto di sfruttarti. Quando ti appoggi a un pensiero stalinista o maoista, il risultato è esplosivo e violento. Hai ragione, per me Teza è un sequel di Harvest. Ho imparato molto facendo Teza, però mi ricordo in effetti l’inizio di Harvest, con il primo piano di quell’uomo con la barba e quel suono, hmm, hmm, perché era un flashback: Harvest è la storia di questo ragazzo che è saltato sul camion e ritorna ai tempi del marxismo, dopo la nazionalizzazione del raccolto, e lo stesso accade ad Amberber. Io ho capito questo legame solo al termine del mixaggio. Alla fine di Harvest i poliziotti requisiscono e nazionalizzano il raccolto e il figlio dei contadini, Barrihun, salta sul camion e scompare verso la modernizzazione lungo la strada costruita dagli italiani. Ma all’inizio del film noi lo vediamo ormai adulto, con la barba, che si ricorda della madre, del villaggio, e poi ritorna dall’Europa. Come hanno reagito gli etiopi a Teza? Direi in modo anormale. Come a Sankofa. Per Sankofa, i neri americani sono stati molto possessivi, perché erano arrabbiati. Sankofa è l’unico film che è stato fatto per il pubblico nero in America, così lo sentono loro, in grado di esprimere la loro idea di schiavitù. Quando c’è la proiezione, viene la rabbia e con la rabbia, la prospettiva si rovescia. Con gli etiopi è stato lo stesso. Con Teza c’è stata molta emozione, pianti. Mi hanno detto che a Ouagadougou una donna africana di un altro paese ha reagito al film piangendo, e dicendo che quella era la sua storia. In Etiopia il film continua ad essere programmato. Una persona che conosco mi ha detto: Sai, l’ho visto tre volte perché questa è la storia di mio padre. Naturalmente, ci dovevo mettere dentro questa rabbia, altrimenti sarebbe venuto fuori un film ordinario. E invece è un film anormale, perche la gente esce dalla sala arrabbiata. Anche perché ci sarebbero potuti essere dieci film diversi sullo stesso argomento. Tanti l’hanno presentato come se avessi fatto un film sul periodo della giunta [in italiano, ndr]. E invece no, ero in esilio, non ne so nulla. Gli unici che sanno tutto sulla giunta sono morti o vivono da ubriachi in Etiopia, e conoscono la storia meglio di me. Non voglio nemmeno far finta di aver fatto un film su questo, ho usato il periodo della giunta come sfondo, il mio è un film sulla dislocazione intellettuale, non sulla giunta. Tutti i governi africani per me sono come la giunta, civili o militari che siano, mentre molti l’hanno presa come una risposta a un periodo di atrocità. Ci ha colpito anche la parte tedesca di Teza. Il film contiene una riflessione lucida su quelli che sono i problemi ma anche i semi positivi lasciati dall’incrocio di razze e culture, basti pensare al personaggio di questo ragazzino, Teodross, figlio di Tesfaye e Gabi, che esprime la propria rabbia attraverso la scrittura… Ma perché proprio la Germania? Si tratta di una scelta dettata esclusivamente da ragioni coproduttive, oppure hai voluto in questo modo evitare un ancoraggio troppo diretto alla tua esperienza personale? Sono intervenute ragioni di coproduzione con l’ingresso dei tedeschi. La prima sceneggiatura l’ho scritta per l’America. Non per essere autobiografico, è vero che in America è venuta larga parte dell’élite etiope di sinistra, oltre che in Russia e in Cina. Ma non sono riuscito a trovare partner per la coproduzione. Persino Sankofa è una coproduzione tedesca. Poi, tu sei italiano, ma non hai mai visto un film su un italiano di origini miste, con madre etiope… No, infatti… Non sai quanti ce ne sono, che hanno lasciato l’Etiopia durante la giunta. Il mio migliore amico ha la madre etiope e il padre inglese, venuto durante la guerra anticoloniale. Ce ne sono tanti in Europa, in Germania, in Italia. La loro storia non è mai stata raccontata. Ogni volta che vado all’estero in cerca di una coproduzione, queste persone mi assediano. La prima volta che sono andato a Berlino a mostrare Harvest, c’era una ragazzina nera che non faceva che piangere. Ho dedicato Teza a tutte queste persone che ho incontrato. Il personaggio di Cassandra è molto reale. È stata la logica della coproduzione a farmi trasferire la storia in Germania, ma ero pronto a girare negli Stati Uniti. Non c’è stata però possibilità in America, nessun canale, quindi mi sono appoggiato alla Germania e ad alcuni amici inglesi. Davvero tutte le porte ti sono state chiuse negli States? Anche nella rete del cinema indipendente, fra le emittenti via cavo come la HBO… Nessun film africano ha mai trovato una coproduzione negli Stati Uniti. In Europa se non altro puoi trovare degli intellettuali che sono disposti a discutere. In America non c’è neanche possibilità di discussione. Scorsese per esempio ha presentato Harvest a Cannes per Cannes Classic, ma gli americani non se ne sono accorti. Gli americani sono molto negativi davanti all’Africa, anche se c’è un grande mercato nell’America nera e fra i bianchi democratici nei confronti del cinema africano, ma per le compagnie americane l’Africa è solo un mercato dove lanciare i propri film. Persino Sankofa, che è sulla schiavitù, in America ha incontrato una completa ostilità. Mi dissero persino che stavo distruggendo la mia carriera. In conferenza stampa, hai detto cose molto severe sui cineasti africani giovani, accusandoli di fare film su misura degli europei. D’altra parte, in diverse interviste citi registi africani delle prime generazioni come Sembene Ousmane, Med Hondo, o magari Raoul Peck, che hai ringraziato nei titoli di coda. Ma ci sono registi dell’ultima generazione che ti sembrano interessanti o magari ai quali ti senti vicino? Raoul è uno di una generazione successiva, era ancora uno studente quando noi abbiamo cominciato a fare film... Per me, molti giovani registi africani non sono orientati alla battaglia, ma piuttosto alle luci della ribalta. E che cosa pensi di Abderrahmane Sissako e, in particolare, di Bamako? Non conosco i suoi film, per dirti la verità, ma lo rispetto perché non si atteggia a regista. In ogni parte del mondo, ad essere registi e basta si può essere fascisti, puoi amare il cinema ed essere fascista. Per me il pericolo principale del cinema è quello di far parte della struttura dell’impero. Non possiamo essere soddisfatti della storia del cinema. Se sei un nativo americano, ti ritrovi con centinaia di film di cowboy in cui i tuoi antenati sono descritti come selvaggi. Sono stato fortunato, quando ho cominciato a studiare cinema a Chicago, ad incontrare studenti messicani, asiatici, nativi americani che volevano fare film per capire chi erano, invece di giocare con i travestimenti hollywoodiani. Non posso rinunciare a questa passione originaria che fa di me quello che sono. Ogni regista africano che guarda al cinema come a una forma di divertimento non mi suscita nessun interesse. Quando cominci ad amare la luce dei riflettori e a cercarla, sei finito. Quando sono andato a Venezia e tutte le macchine fotografiche erano su di me, e tutti mi gridavano girati di qui, girati di là, è stato il momento più terribile della mia vita, ma mi sono detto che bisognava farlo per la distribuzione. Questo è quello che uccide il cinema, l’assenza di integrità. Quando la tua integrità è dislocata, lo è anche la tua storia. Così si prostituisce lo spirito del cantastorie. Per finire, siamo davvero arrabbiati per l’ennesimo rifiuto da parte della RAI e del Luce del progetto di The Children of Adwa... Lo so, tanti italiani mi hanno aiutato e testimoniato la propria solidarietà. Riprenderò le ricerche in Russia, ho trovato dei materiali d’archivio straordinari girati da operatori sovietici. Immagini documentaristiche relative alla vita di tutti i giorni, contadini, donne, e tutte di qualità eccezionale.

Tra i rottami italiani in Eritrea, dove l’unica speranza è la fuga 26 marzo 2009| Matteo Indice (fotografie di Astrid Fornetti)

ASMARA. Sull’armadio delle stoffe pesanti c’è la foto del suo unico viaggio in Italia: Roma 1960, Abebe Bikila vince l’oro nella maratona con i colori dell’Etiopia e il connazionale Giovanni Mazzola (Jovani Mazola quando i suoi amici lo scrivono distrattamente) è uno di quelli in primo piano che lo sta portando in trionfo. «Io facevo parte della selezione di ciclismo, ma non andammo a medaglia». Cinquant’anni dopo Mazzola cesella tessuti in Denkel street, cuore di Asmara che nel frattempo è diventata la capitale dell’Eritrea, indipendente dopo due guerre scriteriate. «Viviamo con fatica - dice calibrando ogni parola, perché il regime controlla tutto - diciamo con fatica...». Cominciamo da qui, allora, dal tracollo della prima colonia ridotta a un rottame d’Italia dove sopravvivono lasagne e amarcord e cappuccino, certo, e i tombini con la scritta “Municipio” e i bus riciclati; ma quattro milioni di abitanti sono in balìa d’un dittatore - l’ex eroe della resistenza Isaias Afewerki - e se non ci fosse qualche rimessa dall’estero sarebbero già morti di fame. Quattrocentomila uomini e donne fra i 18 e i 35 anni (un decimo della popolazione) sono “sequestrati” dalla leva obbligatoria, ammassati nelle tende senza luce dei campi al confine con l’Etiopia e incapaci di reinserirsi nel già malandato tessuto sociale. Spiegano all’ambasciata: «Finiscono la scuola (talvolta proprio la scuola italiana, che qui ha 1200 studenti e una rotazione annuale di cento insegnanti, ancora pagati dal nostro ministero degli Esteri) e li spediscono a vivere come animali. Quando tornano hanno disimparato tutto». L’unico rimedio è la fuga, in un perverso ciclo del destino che spinge centinaia di eritrei ad assediare Lampedusa dopo odissee inenarrabili, mentre un secolo fa era l’Africa orientale a sembrare la salvezza. Mazzola è il figlio di Salvatore, un palermitano del genio civile che arrivò ad Asmara nel 1935, e di Demechese Gheremeskel, la donna che si è vista abbandonare dopo aver fatto sette figli: «Le avevano lasciato il mestiere di sarta, ci è bastato per andare avanti». In Italia è stato solo una volta, Roma 1960 appunto: «Chiesi ai carabinieri di poter cercare mio padre, mi dissero che non era cosa». A 150 metri dal suo negozio c’è il cinema “Impero”, di fianco il caffè “Moderna” e poi la cattedrale cattolica «costruita grazie al generoso oblatore Benito Mussolini»; a tre chilometri in linea d’aria s’intravede invece lo stabilimento Fiat con le saracinesche sbarrate, perché in Eritrea non si produce più nulla. I fortunati che strappano un impiego in qualche meandro dell’opprimente burocrazia guadagnano sì e no 800 nakfa al mese, traducibili in 35-40 euro, ma il problema sono i prezzi ingovernabili. Fatti due conti è come se in Italia, con le nostre retribuzioni, un pieno si pagasse mille euro o un chilo di pasta 120. Perciò si vive di riciclo e gli oggetti di latta, pelle, ferro, legno finiscono tutti al mercato Medheber, il vecchio “caravanserraglio” dove spuntano motrici Iveco anni ‘60 e le cose rinascono una, due, dieci volte. È una città nella città dove s’affannano almeno cinquemila persone tra fonderie improvvisate, polvere di ferro, odore di berberé e i bambini che usano la fiamma ossidrica prima di andare a scuola. «Il Medheber - scherza Tecle Gerhi - è l’unica fabbrica che funziona in Eritrea». Gerhi è un ex camionista di 67 anni e per una vita ha fatto la spola fra Massaua e Addis Abeba: guidava Fiat da 40 tonnellate che non si sa come riuscisse a trascinare sulle strade che s’arrampicano verso l’Etiopia, sbocco naturale dei commerci in seguito azzerati dalla guerra. Oggi si ferma tutto al valico di Adi Keyh, dove i cartelli spiegano ai ragazzini che ci sono ancora mine anti-uomo seppellite nei campi, sospesi sulle rovine di civiltà millenarie e paesaggi che varrebbero miliardi se esistesse il turismo. Stessa cosa salendo verso il Sudan: superata Keren, dove gli italiani furono massacrati nel ‘44 dagli inglesi, il governo blocca l’accesso alle strade e nessuno osa avvicinarsi. Una delle poche cose indovinate dal ministero - che ha sede nell’ex Casa del Fascio - è lo slogan per descrivere la peculiarità del Paese: «Three seasons in two hours», tre stagioni in due ore. Ed è esattamente quello che accade scendendo verso la costa e la caldissima Massaua: dai 2400 metri della capitale al livello del mare nello spazio di 110 chilometri, tagliando Dongollo dove i bimbi s’arrabattano nelle rovine della “Fabbrica acqua termominerale Ali-Hasa”, Dogali e i sobborghi: grovigli di lamiera assediati dalla polvere, sotto un sole che le cuoce ad almeno 40 gradi deformando i volti. E però Massaua è la voglia di esserci con un nodo allo stomaco, patrimonio dell’umanità secondo l’Unesco ridotta a un deserto di speranze. Le dimore bianche retaggio della dominazione turca sono accartocciate su se stesse, la gente è imprigionata in casa dall’afa perché i turisti non esistono più e i ristoranti segnati sulle guide un anno dopo sono già chiusi. Bisogna aspettare il buio e un esercito di ombre si muove senza ordini ma perfetto, la rete sulle spalle dei mariti, i bambini a rimboccare le coperte, le donne che preparano il tè in attesa di dormire fuori poiché solo all’addiaccio si può respirare. Le vite all’ultimo stadio nella città fantasma restano appiccicate allo sguardo come il caldo sulla pelle, e non vanno mai via nemmeno nei sogni. Solo la luce livida di una micro-televisione calamita famiglie e zanzare e l’insegna del “Golden Navy”, la balera un po’ equivoca messa su per alleviare qualche marittimo, balza agli occhi in mezzo al ricordo proiettato dallo scheletro del vecchio Banco d’Italia, edificio art-decò semidistrutto a due passi dal porto senza navi, che ormai fa soltanto venire i brividi. E poi il neon dell’hotel “Torino” è spento e sulla terrazza non fanno più le feste da ballo che negli anni d’oro calamitavano l’imperatore etiope Haile Selassìè, nome vero Ras Tafari. Per i blitz da Addis Abeba (Etiopia ed Eritrea erano ancora una cosa sola) aveva scelto il palazzo d’un raìs ottomano, sebbene qualcuno fosse stato più furbo di lui. L’imprenditore Luigi Melotti, quello che in Africa orientale ha importato la birra, s’era fatto costruire una villa spettacolosa in fondo all’isola di Taulud, una delle due che costituiscono Massaua, l’orizzonte stretto fra il giardino e il mar Rosso. Il paradiso di Melotti - tramandato agli eredi che si vantavano d’aver ospitato, fra gli altri, Giulio Andreotti, Giancarlo Pajetta e Oriana Fallaci - non esiste più, gli sgherri del presidente Isaias l’hanno raso al suolo nella primavera 2006 per fare un dispetto al primo segretario dell’ambasciata Ludovico Serra, che l’aveva visitata senza chiedere mille permessi. Eppure il diplomatico non è stato l’unico, a finire nel mirino. Il vecchio Franco Parmesan, che gestiva l’appalto della nettezza urbana nella capitale ed era un ricco vero, s’è visto piombare in casa a settembre due soldati inviati direttamente dal capo dell’esercito: «S’informavano sulla proprietà, si vede che il generale è molto interessato». E gli è toccato fare la spola con l’Italia per difendere la villa dall’esproprio. L’Eritrea precipita nonostante il mare che la divide dallo Yemen ospiti un paradiso: isole Dahlak, arcipelago più bello forse delle Maldive ma irraggiungibile. Ci sono solo due barche a pagamento, ma non vanno quasi mai, non c’è nafta. Gli indigeni che popolano i villaggi sugli isolotti qualche volta muoiono di febbre, e supplicano chiunque attracchi di recuperare medicine: «Non basterebbero i commerci d’una vita - raccontano le donne che passano gli anni a intrecciare perline - a pagare un solo viaggio sulla terraferma». E l’imprenditore italo-eritreo Giovanni Primo si dispera, visto che i cantieri aperti per costruire un resort da depliant occidentale sono bloccati: il precipizio nel quale corre il paese, e l’isolamento totale voluto da Afewerki, trasformano gli affari in un bagno di sangue. Tecle Gerhi, quello che faceva l’autista e oggi si è reinventato guardiano per campare, guarda i ragazzi e stringe gli occhi, in una nazione che qualche volta nemmeno finisce sulle cartine ed è piena di contadini ghettizzati in esistenze pre-moderne. Lui parla sempre in italiano, anzi dice d’essere mezzo italiano com’era tutto il suo camion. «Non ci sono mai stato, però». E vista da lì, sembra persino un miraggio.

L’Eritrea a rischio di una catastrofe umanitaria

Crisi alimentare e persecuzioni religiose devastano la popolazione. KÖNIGSTEIN, giovedì, 26 marzo 2009 (ZENIT.org).- L’Eritrea è sull’orlo della carestia e migliaia di persone stanno attraversando i confini per sfuggire alla fame e alle persecuzioni. In questo contesto, che rischia di trasformarsi in una catastrofe umanitaria per il Paese e per tutto il Corno d’Africa, l’associazione caritativa cattolica Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS) ricorda in un comunicato inviato a ZENIT che sta offrendo aiuti d’emergenza mettendo a disposizione quasi 25.000 euro. L’Eritrea sta attraversando una grave crisi economica, resa ancor peggiore dai controlli sempre più serrati e dagli abusi dei diritti umani contro i cosiddetti dissidenti, soprattutto gruppi religiosi. Dopo un recente Rapporto del Dipartimento di Stato americano, fonti nella regione descrivono il Paese come stretto nella morsa della crisi alimentare, con il Governo che impedisce alla popolazione di accedere alle risorse fondamentali. I resoconti, i cui autori non possono essere rivelati per ragioni di sicurezza, affermano che le autorità hanno bloccato il trasferimento di cibo da una regione del Paese all’altra, hanno bandito i mercati all’aperto che vendono cereali e condotto ispezioni casa per casa alla ricerca di prodotti “ottenuti illegalmente”. “L’Eritrea è in ginocchio in termini di produzione alimentare”, afferma uno dei rapporti ricevuti da ACS sottolineando la gravità della scarsità dei raccolti a causa della siccità. “Si sta arrivando alla distruzione e al completo isolamento del Paese”, aggiunge il testo, che accusa il Governo di rifiutare gli aiuti esterni nonostante siano disperatamente necessari. Molti abitanti dell’Eritrea si rifugiano a sud, in Etiopia, dove ACS sta aiutando circa 20.000 rifugiati che hanno trovato alloggio in due campi nella zona settentrionale del Paese. A questo proposito, l’associazione sottolinea la necessità di avere dei mezzi di trasporto per portare derrate alimentari attraverso le zone montuose fino ai campi di rifugiati. “Possiamo solo iniziare a immaginare l’incubo che sta avvolgendo l’Eritrea – ha affermato un portavoce di Aiuto alla Chiesa che Soffre –. La popolazione ha urgente bisogno delle nostre preghiere e del nostro sostegno”. ACS si sta preoccupando sempre più per gli abusi dei diritti umani in Eritrea, soprattutto contro i cristiani. Come descrive il Rapporto del Dipartimento di Stato USA sui diritti umani del 2008 nel Paese, le forze di sicurezza hanno usato schiavitù, esposizione al calore e maltrattamenti per punire le persone arrestate per le loro convinzioni religiose, che sono state costrette a firmare dichiarazioni in cui rinnegano la propria fede. A volte sono state trattenute in container metallici sotterranei. Anche se la Chiesa cattolica è uno dei quattro gruppi religiosi approvati dal Governo, lo scorso anno circa una dozzina di sacerdoti e di suore è stata espulsa dall’Eritrea, in molti casi senza alcun avvertimento. Nel giugno 2008, il Governo si è impossessato delle proprietà della Chiesa cattolica. Le organizzazioni per i diritti umani e i gruppi religiosi si sono espresse in modo sempre più deciso contro i cosiddetti crimini contro l’umanità da parte del regime del Presidente eritreo Isaias Afewerki. Il Patriarca Antonios, leader della Chiesa ortodossa eritrea, il gruppo religioso principale del Paese, è stato posto agli arresti domiciliari e all’inizio del 2007 Dioskoros Mendefera è stato annunciato come suo successore in una nomina considerata da più parti una decisione governativa.

Eritrea/ Svezia, appello stampa per giornalista detenuto dal 2001

Si tratta di Dawit Isaak, cittadino svedese dal 1992 Stoccolma, 27 mar. (Apcom) - I principali quotidiani svedesi hanno lanciato oggi un appello per la liberazione del giornalista svedese-eritreo Dawit Isaak, detenuto in Eritrea senza processo dal 2001. "La nostra richiesta è molto semplice: liberate Dawit Isaak", titola in prima pagina Svenska Dagbladet (SvD), mentre Dagens Nyheter (DN) pubblica 2.742 bastoni, a indicare i giorni di detenzione, sopra al titolo "Liberate Dawit Isaak!". Cittadino svedese dal 1992, il giornalista, 44 anni, è stato arrestato in Eritrea nel settembre 2001 ed è detenuto, senza alcun capo di imputazione a suo carico, ad alcuni chilometri da Asmara, capitale eritrea. In un articolo comune, i capi-redattori di SvD e DN, come pure quelli dei tabloid Expressen e Aftonbladet, chiedono la liberazione del giornalista e criticano il metodo usato dalla diplomazia svedese. "I responsabili svedesi praticano la diplomazia del silenzio. Questo metodo ha dato pochi risultati nel corso degli anni scorsi - scrivono - per questa ragione, è ora che il governo svedese sia più attivo per la liberazione di Dawit Isaak. Il suo crimine? Dawit Isaak ha scritto e pubblicato articoli sul quotidiano Setit sulla necessità di garantire democrazia e libertà in Eritrea". Martedì scorso, l'Ambasciatore eritreo in Svezia ha annunciato la prossima liberazione del giornalista in un'intervista a un quotidiano svedese, precisando però che ci vorrà del tempo e che le pressioni non giovano alla causa.

Bashir in Eritrea, sfida all'Onu Fatwa contro il viaggio a Doha

Il presidente sudanese lascia il Paese nonostante il mandato di cattura internazionale. Ma le autorità islamiche "sconsigliano" la partecipazione al summit arabo in Qatar Per la prima volta il presidente del Sudan sfida la Corte penale internazionale e varca i confini del suo paese per una visita ufficiale in Eritrea. Invitato dal presidente Isaias Afeworki per una serie di colloqui che dovrebbero durare un giorno, Omar al-Bashir tasta il terreno internazionale in vista del viaggio di fine mese a Doha, in Qatar, in occasione del summit annuale dei paesi arabi. Viaggio che si annuncia carico di incognite e ora messo in discussione da un pronunciamento, dal sapore di una vera e propria fatwa, delle autorità religiose più importanti del Sudan. Colpito da un mandato di cattura emesso dalla Cpi de l'Aja il 4 marzo scorso, per crimini di guerra e contro l'umanità commessi in Darfur, Omar al-Bashir gioca la sua battaglia tra timori concreti di un arresto e una vasta campagna diplomatica di solidarietà che trova consensi soprattutto in Africa e in gran parte del mondo arabo. Poco pubblicizzata e fino a due giorni fa non prevista, la sua visita in Eritrea suona come il tentativo di forzare la mano e di mettere in discussione la legittimità di un provvedimento che, naturalmente, contesta e non riconosce. Ma tra il dire e il fare, c'è molta differenza. Dietro gli attestati di solidarietà e le dichiarazioni di condanna si muovono interessi diversi e rapporti internazionali da cui dipendono economie, scambi commerciali, equilibri geostrategici; al-Bashir sa che ne potrebbe essere vittima e si muove con grande cautela. Il portavoce governativo eritreo, Ali Abdu, ha precisato che la visita avviene "su invito del presidente Afeworki" e ha aggiunto che "la decisione della Cpi è irresponsabile e rappresenta un insulto all'intelligenza dei paesi africani. Tali accuse riguardano la sovranità del Sudan e la sua integrità territoriale". Ma mentre al- Bashir volava verso Asmara, il Comitato degli scolari islamici, una della massime autorità religiose del Sudan, emetteva un editto, in pratica una fatwa religiosa, che sconsigliava il presidente ad andare al vertice arabo di Doha previsto per la fine di questo mese. Difficile leggere il senso di questo editto. Dietro non ci sarebbe solo il timore che un viaggio internazionale di al-Bashir possa spingere anche solo uno dei paesi che sorvolerà ad applicare la misura restrittiva. Molti osservatori ritengono che ci sia un tentativo di dimezzare, da un punto di vista religioso, il ruolo del presidente. E che la presenza di un mandato di cattura nei suoi confronti apra le porte ad un altro emissario per il vertice di Doha.

mercoledì 25 marzo 2009

Deportazione occulta in Puglia!

Ai governanti Alla Chiesa Alla società civile Siamo preoccupati e indignati come cittadini italiani e come cristiani per quanto accaduto nella nostra regione: in PUGLIA!!! Nel Centro di Accoglienza (CdA) di Restinco (Brindisi) erano accolte persone per le quali è in corso la procedura di riconoscimento dello status di rifugiato, cioè gente costretta a fuggire dalle loro case perché perseguitata per motivi politici, religiosi, etnici, razziali, o perché appartenenti a uno specifico gruppo sociale. A queste è riconosciuta una particolare protezione dal diritto internazionale. La mattina del 17 marzo tutti gli ospiti presenti nel Centro, 194 persone, la maggior parte africani, alla presenza di un numero considerevole di poliziotti, sono state fatte salire su 4 pullman e trasferite presso il Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo (CARA) di Borgo Mezzanone (Foggia), in seguito alla imprevista e brusca decisione del governo di trasformare il Centro di Restinco in un Centro di Identificazione ed Espulsione (CIE). Vogliamo sottolineare alcuni aspetti di quanto accaduto: • Il trasferimento è avvenuto senza alcun tipo di informazione e senza alcun preavviso sia nei riguardi degli ospiti che nei confronti degli operatori. Agli ospiti a causa dell’improvvisa decisione, non è stato riconosciuto il diritto di scegliere dove poter continuare il proprio percorso di integrazione (per molti già avviato da diversi mesi grazie alla solidarietà di associazioni locali). • La decisione del trasferimento e della trasformazione del CdA in un CIE è stata presa senza nessuna consultazione sia dei governanti locali che dell’ente gestore. • Il Centro di Borgo Mezzanone era impreparato a gestire questo tipo di trasferimento in queste modalità. Scarse sono state infatti le risposte alle tante domande pratiche dei richiedenti asilo. • Queste persone si uniscono agli altri ospiti del Centro di Borgo Mezzanone carente di strutture e servizi adeguati per una vita dignitosa. Tutto questo ci vede veramente lontani da quell’accoglienza tipica della nostra terra che ha caratterizzato la nostra storia. Anche Benedetto XVI lo ha ricordato durante la sua visita nel Salento affermando che Brindisi, come in passato, "resta una porta aperta sul mare" e un tradizionale rifugio di immigrati. "Questa solidarietà - aveva detto il Papa ai brindisini - fa parte delle virtù che formano il vostro ricco patrimonio civile e religioso: continuate con slancio rinnovato a costruire insieme il vostro futuro". Dopo esattamente 9 mesi l’accoglienza si è trasformata in “deportazione”. Chiediamo con forza ai politici, alla Chiesa e alla società civile di non essere indifferente e di mobilitarsi affinchè • non venga mai meno l’attenzione alla dignità umana, il rispetto per i diritti fondamentali della persona indipendentemente dalla nazionalità e dalla religione. L’immigrato è una persona! Il suo essere persona non può dipendere da un pezzo di carta, questo è vergognoso. Su questo si prova la maturità di una società civile e democratica degna di questo nome. • Si interrompa il meccanismo perverso del capro espiatorio che vede vittime gli immigrati. • Il governo sia rispettoso delle comunità locali e dei suoi rappresentanti, degli enti locali e delle organizzazioni che operano nel settore. • non venga soffocata la cultura dell’accoglienza da politiche xenofobe, che lentamente distruggono il “ricco patrimonio di solidarietà civile e religioso”. • Non si apra il CIE a Brindisi. Brindisi, 24 marzo 2009 Fr. Francesco Zecca (Responsabile Commissione Giustizia e Pace della famiglia Francescana del Salento) Fr. Gianni Mastromarino (Responsabile Commissione Giustizia e Pace dei Frati Minori Puglia-Molise) P. Arcangelo Maira, missionario scalabriniano Informazioni di contatto E-mail: frazecca@tiscali.it

sabato 21 marzo 2009

Liberati tre cristiani detenuti in Eritrea

ASMARA (Eritrea) - Tre cristiani, detenuti nelle carceri eritree a causa della loro fede, sono stati rilasciati dopo diversi mesi di detenzione; Porte aperte riferisce le difficili condizioni di vita dei cristiani in Eritrea. Due membri della chiesa di Kale Hiwot, arrestati a Dekemhare lo scorso novembre e imprigionati nel famigerato campo di concentramento militare di Mitire, nel Nord-est del Paese,sono stati rilasciati su cauzione, mentre Solomon Mengese, componente della Full Gospel Church, è stato rilasciato due settimane fa: era imprigionato nella Stazione di Polizia di Asmara da sei mesi. La notizia positiva del rilascio di tre cristiani è però poca cosa rispetto alla situazione in cui versano i circa 2900 credenti detenuti in Eritrea per motivi legati alla loro fede; ben 360 sopravvivono in condizioni indicibili nel già citato campo di concentramento militare di Mitire, considerato un vero e proprio inferno in terra d'Africa. La campagna del governo contro i cristiani evangelici è continuata senza interruzioni durante i primi mesi del 2009; ai credenti viene negata la possibilità di avere un visto per viaggi internazionali, apparentemente perché membri di chiese non registrate: chi non fa parte della chiesa cattolica, copta, evangelica luterana, islam, chiese avventiste del settimo giorno, chiesa della fede in Cristo, chiesa presbiteriana e la fede Bahia, non riesce a ottenere il visto per i viaggi internazionali dagli Uffici dell'Immigrazione eritrea e la motivazione addotta è l'apparente affiliazione a chiese non registrate. Il Presidente eritreo, Isaias Afwerki, assieme allo staff del suo governo, negano che sia in atto in Eritrea una vera e propria persecuzione a danni dei cristiani evangelici, ma non sembrano dare risposte alle domande specifiche sui casi di quei quasi tremila credenti incarcerati senza capi d'imputazione attendibili. [sr]

Addio Eritrea

I saluti Il gruppo prima della partenza Bimbo nato con un parto cesareo Venerdi 20 Marzo 2009 16:07 Si è conclusa da qualche giorno l’esperienza di 23 missionari dell’AMI (Associazione Missionari Internazionale) di cui fa parte anche il medico chirurgo pattese Antonietta Zampino. Con lei, nel gruppo italiano Teresa Graceffa e Rosa Antonucci. Prima sono stati espulsi 20 volontari, adesso è toccato agli altri 3. Tutti sono dovuti rientrare in Italia per il mancato rinnovo del permesso di lavoro in Eritrea. Inutili sono stati gli interventi di diversi enti ed associazioni. Il governo eritreo, infatti, ha deciso di far andar via gli operatori. L’Associazione Missionaria Internazionale è stata chiamata in Eritrea nel 1992 da Abuna Zakarias, allora Eparca (Vescovo) di tutto il Paese. Il Vescovo conosceva già alcune missionarie che avevano servito in un progetto sanitario della Caritas Italiana durante la guerra con l’Etiopia e la grande carestia, nell’85-86. Era amico del Vescovo Bertozzi, allora incaricato dalla Caritas nazionale del monitoraggio di questi progetti. Le missionarie dell’AMI, sempre aiutate dagli altri membri dell’Associazione e da volontari, erano in Eritrea dal 13 agosto 1993. Vi hanno costruito un ospedale, centro di un progetto socio sanitario in un’area di 13 villaggi, meta di pazienti provenienti da tutto il Paese. Questa la toccante lettera inviata ad Am Notizie da Antonietta Zampino con la quale ringrazia amici e collaboratori e saluta il popolo eiritreo che l’ha ospitata in questi anni. Carissimi amici E’ una realtà : siamo state espulse dal paese che abbiamo servito per 15 anni. Fino all’ultimo giorno non potevo crederci. Ho lavorato fino a pochi minuti di partire facendo l’ultima ecografia e poi l’ultimo paziente cui cambiare terapia e poi…. Non riuscivo a staccarmi. Poi di corsa a casa a cambiarmi e prepararmi alla partenza con la Toyota che per quindici anni ci aveva visti andare su e giù per le infinite cose da fare, volontari da portare ..medicine da comprare ….Non riesco a guidare. Mara ci accompagna all’aeroporto che ci porterà lontane da questa gente così amata di cui ormai conosco quasi tutto. Prima però gli abbracci prolungati, i pianti condivisi con i malati soprattutto i malati di AIDS, quelli ricoverati che nell’abbraccio ci benedicevano e si raccomandavano: non dimenticatevi di noi….e la mia risposta: come potrei, vi porto dentro non posso dimenticare 15 anni di vita con voi, i volti dei bambini degli anziani del nostro staff con cui eravamo diventati amici…Mi infilo in macchina per non far notare le lacrime che ormai non posso più trattenere. Un addio faticoso pieno di ricordi: pietra su pietra una costruzione che vale per le fatiche nostre, ma anche di tutti i volontari e i benefattori che ci hanno dato una mano a far fiorire il deserto. A far spuntare un luogo di speranza per tante persone per tanti fratelli malati poveri stanchi di oppressioni secolari. Digsa Community Hospital una realtà per tutta l’Eritrea, un porto sicuro dove trovavi competenza medicine e se non altro il calore umano delle persone che accoglievano anche coloro per cui non c’era più niente da fare. Un addio con un grazie nel cuore per tutto quello che sono stati per me e per noi le persone con cui abbiamo vissuto: il loro esempio la loro fiducia la loro fede, il loro saper aspettare con pazienza infinita, la gioia l’allegria dei bambini, la saggezza e il silenzio degli anziani, l’amicizia dei collaboratori, la generosità nonostante la povertà, la sofferenza sempre dignitosa vissuta per anni…Un saluto con il pensiero di affidare tutti e tutto nelle mani di Dio che ha permesso chissà per quale disegno, che tutto ciò si avverasse.Un saluto con l’augurio e la speranza che tutte le sofferenze di questo momento per questo popolo possano finire presto, che un'altra realtà possa baciare queste persone per renderle serene in pace, con la possibilità di poter avere davvero quei diritti che in questo momento vengono negati. Non più fame, non più guerra, non più oppressione e mancanza di libertà di pensiero, non più fuga, ma la possibilità di vivere come ogni uomo libero deve vivere nel proprio paese. Dal finestrino vedo sfumare le immagine di questa terra arida senza acqua con gli aratri che arano contro ogni previsione sempre pronti ad accogliere il verde quando piove….dei cammelli semi addormentati che quando si svegliano non li fermi più…degli asini che non si muovono anche se gli vai addosso….dei bambini che quando passi ti salutano sorridendo…. Adesso sono qui a Faenza dove incalzano altri impegni, ma già Teresa è andata a Ferrara a portare delle medicine da mandare a Digsa. Come promesso non ci dimentichiamo di Digsa: ci siamo impegnati con la Chiesa locale a continuare a sostenere l’ospedale e le varie attività, facendo tutto quello che era abituale quando c’eravamo noi fisicamente. Abbiamo appena spedito la quota di farmaci per sei mesi e stiamo preparando l’invio di viveri, come prima. Anche dagli amici e dalla Diocesi di Patti contiamo sull’impegno solito per il sostegno dell’ospedale. Sarebbe ben triste se la nostra partenza penalizzasse i malati che già si sentono orfani anche dal punto di vista materiale.La Chiesa ha affidato alle Suore figlie di S Anna la direzione dell’ospedale e siamo contenti perché i malati potranno ancora farsi curare a Digsa. L’ospedale sarà come prima un punto di riferimento per tutta quella zona. Il Vescovo quando ci ha salutate ha detto: questo non è un addio ma un arrivederci perché desideriamo che torniate presto.Anche noi speriamo di poterlo fare. Per ora il gruppo mese di agosto si farà a Digsa e qualcuno di noi li accompagnerà. Poi vedremo. Intanto ci stringiamo in preghiera per implorare il Signore perché il popolo eritreo trovi al più presto la pace e possa godere dei diritti di ogni essere umano. ..poi il resto è nelle mani di Dio. Noi da parte nostra vogliamo darGli tutto il nostro contributo. Domani parto per la Romania con Alba e Isa per una missione di studio di un progetto di pastorale missionaria al servizio del Centro Missionario di Iasci. Rientro a Faenza il 7 aprile e vi starò fino al 7 maggio per seguire i lavori dell’assemblea. Avrò poi bisogno di un po’ di riposo per recuperare energie fisiche e spirituali, ma ancora non ho fatto un programma preciso. A proposito siete tutti invitati per domenica 19 aprile, giorno di incontro nell’assemblea con tutti gli amici e collaboratori. Adesso un grande abbraccio e Buona quaresima. Antonietta.

EGS Letter to President of the European Commission

His Excellency Jose Manuel Durao Barroso President of the European Commission European Commission B-1049 Brussels March 10, 2009 EGS/S031009 Dear President, We write this letter with the hope that our immediate and long range concerns with the overall relationship of the EU and the present Eritrean government and the pending $160 million US dollar Development Aid EU is planning to forward to the Eritrean government will create an opportunity for us to directly communicate with your office. In a modest way we also hope to convey the concerns of our silenced people to your office and add another dimension to the growing critical discussion on this matter. We will like you to know that our organization has no principle based objections to EU’s desire to participate and contribute to the development of Eritrea. We appreciate and admire the overall commitment of EU to find ways to extend a helping hand to the people of Eritrea in their dogged effort to make a meaningful economic progress in the face of overwhelming challenges and constraints imposed on them by the government. We hope this desire will not ebb in coming days and years. As it stands now EU’s involvement in Eritrea is focused strictly on reconstruction: short- term stabilization program dealing with four areas. 1. Post –conflict rehabilitation 2. Demobilization 3. Road maintenance 4. Food security. Without venturing into other fundamental issues even on these 4 areas the result has been at best look warm. With the exception of, maybe, road building, the overall trend has been an increase in internal and external conflict, massive militarization and mobilization of all potential work force into the army and the expanding food shortage that has now turned into a full blown famine- all of it due to the erroneous agro-economic policies of the Eritrean government both at the macro and micro level. We believe EU, with all its information sources, is well aware of the Eritrean government’s stark failure and how this failure has put the people of Eritrea between a rock and a hard place. Without any democratic space to register their objection, protest or opposition to the government’s policy the failure has been compounded and magnified. Eritrea’s economic meltdown is a direct result of the suffocating monopolization of all business and economic activities by the ruling party- PFDJ (the government). This underlining cause deserves serious consideration and evaluation in the design and delivery of any well-meaning foreign aid package. Without any transparent statement coming out of EU concerning its evaluation and justification for proposing $160 million US dollar worth of finical aid to one of Africa’s most unaccountable and secretive governments, our concern, we believe, is not only well-founded but legitimate enough to be raised publicly so that not only the leadership of EU Commission but the people of Europe and Eritrea will hear our concern and take part in the urgently needed conversation. Excellency, Based on the standards set by the EU’s Charter of Fundamental Rights adopted in December 2000 by the Presidents of the European Parliament, the Council and the Commission in Nice and then amended by the Lisbon Treaty in December 2007 elevating the 2000 Charter to a Treaty we expect better consideration towards the people of Eritrea. This historic document affirms Dignity (chapter 1), Freedom-all basic freedoms (chapter 2) Equality- equality before the law (chapter 3) Solidarity –workers right (chapter 4) Citizens’ rights –the right political rights to vote et (chapter 5) and Justice -the right to fair trial etc (chapter 6) – These lofty idea at the present stage of human history are not the exclusive properties of the people of Europe. The Charter only affirms the universality of these values. These are the same values highly treasured by the people of Eritrea. We expect EU to stand by its’ publicly proclaimed charters and treaties in its relation with “third countries”. On the basis of EU’s December 13, 2001 Guidelines on Human Rights Dialogues - this guideline is supposedly to permeate all aspects of its external relationship. Our need to reiterate this fundamental principle emanates from the fact based by all the human rights’ instruments, guidelines and charters periodically proclaimed by EU Commission and its various departments if there is one government in Africa that does not deserve a positive evaluation it is the present government in Eritrea. Excellency, We will not waste your time detailing the egregious abuse of basic human rights in Eritrea that has been going on for an extended period. Nor will we question EU’s motive in its honest desire to contribute to Eritrea’s economic development. But we are obligated by a sense of duty, national responsibility and basic human decency to question the wisdom of extending this amount of aid without publically uttering any meaningful protest about the wholesale failure of the Eritrean government to respect not even one of the basic human rights listed on EU’s Charter of Fundamental Rights and the EU’s Guideline on Human Rights Dialogue. If there has been an ongoing dialogue between the Eritrean government and EU’s Working Group on Human Rights the people of Eritrea as well as Eritrean Human Right activists, all over the world, are not aware of it. In the absence of transparency it is natural for Eritreans and those concerned about Eritrea to feel that EU’s ability to extend Economic Aid to a repressive government without any articulated benchmarks or requirements is tantamount to tacitly endorsing the government’s misguided economic, social and political policies. In our modest opinion the question previously raised by her Excellency Glenys Kinnock , the Welsh member of EU correctly summarizes and conveys the essence of our concern: “Nobody has ever argued that it isn’t necessary for us to provide humanitarian aid and support for education and healthcare but, clearly there are huge difficulties in monitoring and controlling what the Commission is doing .There are no NGO’s in Eritrea. So who is distributing the aid? Who is ensuring that it doesn’t go to the wrong hands?” In EU’s own words as stated in the document signed both by EU and Eritrean representative on November 12, 2002 known as the “Eritrea-European Community –Country Strategy Paper and National Indicative Programme for the period 2002-2007 “page 15 section 5.3 states: “The Cotonou Agreement makes explicitly reference to the principle to respect human rights and fundamental freedoms. Special attention has to be paid to Governance in order to ensure coherence in the analysis and the orientations of the response as well as complementarities and synergy with the other short-term interventions. The scope of EC interventions to strengthen good governance will very much depend on the outcome of the political dialogue as mentioned in point 5, where the partners will also agree on pace, measures and indicators for their cooperation. Interventions will aim at strengthening democratisation, for example by supporting a genuine electoral process and the subsequent setting-up of democratic institutions. Eritrea is also a focus country for the European Initiative for Democracy and Human Rights. Concerning the management of public affairs, the EC should be ready to assist capacity building initiatives launched by the Government in close co-operation with other donors which have a lengthy experience in this field (in particular, the BWI and the PNUD). Support to the enforcement of the decentralization process and to the establishment of a legal framework enabling the right environment for the use of rights (fundamental rights, justice, business and trade) is also important for a country that bases its development on the private sector initiative.” What good governance has mushroomed in Eritrea since the signing of the Country Strategy to justify this ongoing trust? None whatsoever from where we stand and observe. Section 9 of the 2002 European parliament Resolution on Eritrea states: “Calls on the Council and the Member States to take a coordinated stance with regard to relations with Eritrea, to monitor closely the political situation in the country and to make the continuation of EU achieved in the areas of human rights and democratization, in particular freedom of speech, press and assembly, and the holding of democratic elections;” What follow up has unearthed a promising movement towards democratization in Eritrea since this resolution? More jails and more refugees have become the identifying characteristics of the Eritrean government. EU’s Mid Term Review for 2004 does not even address any aspect of the Country Strategy Paper concerns raised in section 5.3 None of the issues dealing with Human Rights and Democratization raised by the EU parliaments resolution are even scratched? Why such a gross oversight? Yet EU is getting ready to supply the most irresponsible government in Africa with $160 million US dollar without demanding any positive move towards respecting the basic rights of its people. This move defies reason and common sense at the same time. We find this not only puzzling but have to categorize it as a sign of unintended disrespect for the people of Eritrea. This kind of activity amounts to extending unconditional support to the oppressive regime in Asmara without even adopting another Parliamentary resolution to modestly censor the government for failing to move one inch forward towards democratic governance or any sense of basic decency. It is unbalanced and it is unfair in its treatment of the Eritrean people. What safety net has the EU established at this time to monitor the correct deployment of the intended Aid? How long does the EU intend to follow this one - sided relationship at the cost of the people of Eritrea? At what point in time will the reassessment and repositioning start? We eagerly wait to engage the relevant EU department in conjunction with other Eritrean Human Rights organization to address these critical issues in a structured and sustained manner. If EU needs to reassure the people of Eritrea, mitigate their genuine concerns and in the process garner more evidence about the true nature of the Eritrean government it will be very productive if it were to undertake the following three actions: * Make a public statement about the benchmarks the Eritrean government must meet – with a clearly defined time framework- in order to access the fund and explicitly state what the consequence of failure to leave up to the bench mark will mean * Since Europe is teeming with thousands of Eritrean refuges who were forced to abandon their country due to the repressive government’s unending brutality EU will have an opportunity to hold an open hearing and gather detail information about the depth of the Eritrean national crisis and openly welcome Eritreans fleeing persecution by the Eritrean Government with positive resettlement policy. * Allow EU’s Working Group on Human Rights to meet with the mushrooming Eritrean civic society from Europe, USA, Australia and Africa etc lay the foundation for a constructive dialogue. Excellency, We appreciate EU’s positive intentions towards Eritrea. Our concern is based on the fact that the Eritrean government has no sense of accountability either to its people or to the treaties and contractual obligations it is signatory to. It is neither contained by rule of law, cultural restraints or basic morality. It is a lawless government. Trusting this kind of government is a difficult undertaking. Even though not publicly articulated we are convinced that most of EU’s member nation states share our conclusion based on their direct experience. We hope EU collectively will reach the same conclusion and find definitive ways to not only show its concern for Economic Development but also for the fundamental rights of the Eritrean people by clearly and unequivocally stating its support publically at this critical time in their struggle to be treated with respect, dignity and live under a government constrained and guided by a democratic constitution. Sincerly, Seyoum Tesfaye Chairman of Eritrean Global Solidarity for Justice- Human Rights -Democracy president@eritreanglobalsolidarity.org

venerdì 20 marzo 2009

Il Regista Etiope con la crisi di Identità

Il regista etiope in Italia per presentare il film "Teza" "Nessuno ci chiede le ragioni di questa epidemia" "Il Papa non capisce l'Africa doveva solo chiedere scusa" di MARIA PIA FUSCO ROMA - "Il Papa, con il suo intervento sui preservativi, è il simbolo della contraddizione umanitaria dell'Europa. Io sono cattolico come mia madre e mio padre era un prete ortodosso, ho problemi a criticare il Papa, ma ha dimostrato di non aver capito l'origine del male e del dolore degli africani. Avrebbe dovuto chiedere scusa per i crimini commessi dai missionari. Sei mesi fa Sarkozy disse che in fondo l'opera dei colonizzatori e dei missionari non stato un male. Non è vero, la Chiesa cattolica è stata la prima a distruggere le tradizioni e il nostro patrimonio spirituale, a bruciare i simboli e la memoria, creando generazioni, come la mia, di persone private del passato". È la reazione del regista Haile Gerima, nato in Etiopia ed emigrato negli Usa, docente onorario alla Howard University di Washington, a Roma per presentare Teza, il film sulle vicende del suo paese da Mussolini ad Hailé Selassiè fino a Menghistu. "Come Nancy Reagan che in Africa a predicò "No Sex", il Papa ha usato l'Aids per parlare di castità. L'Europa ci manda preservativi, medici, rimedi, noi riceviamo e basta, senza esprimere un parere, la nostra voce non interessa. Nessuno si chiede le ragioni dell'epidemia che colpisce l'Africa, la diseducazione dei giovani che assorbono culture occidentali senza possibilità di confronto con le tradizioni cancellate. Non è il sesso il responsabile dell'Aids . L'Aids, le malattie, la povertà dell'Africa sono un'industria che arricchisce l'élite e i governanti, che, come il Papa e i paesi europei non hanno interesse a cambiare l'immagine che loro hanno dell'Africa. Io faccio cinema. I paesi europei sono felici di finanziare i film sull'Aids, ma guai a proporre una storia sul disagio di vivere in Africa oggi o sulle conseguenze della schiavitù, non mi darebbero un euro. In Italia ad esempio per il film "Adua" di qualche anno fa e per "Teza" sia il Luce che la Rai mi hanno sempre detto no. Eppure Mussolini è morto da 64 anni".

Il Papa esorta alla pace tra cristiani e musulmani in Africa

di Philip Pullella YAOUNDE (Reuters) - Papa Benedetto XVI ha invitato cristiani e musulmani a rifiutare la violenza tra le religioni, ma le critiche che hanno scatenato le sue parole sull'Aids non acennano ad affievolirsi. Il Papa ha cominciato il suo terzo giorno in Camerun incontrando 22 leader di comunità musulmane del Paese, prima di celebrare una messa all'aperto allo stadio di Yaounde, dinanzi a una folla di decine di migliaia di persone. Nel suo discorso ai musulmani presso l'ambasciata del Vaticano a Yaoundé, il Papa ha ricordato che entrambe le religioni "rifiutano ogni forma di violenza e totalitarismo". Ha aggiunto il Pontefice: "Che l'entusiastica cooperazione tra musulmani, cattolici e altri cristiani in Camerun sia per le altre nazioni africane un faro luminoso sul potenziale enorme di un impegno interreligioso per la pace, la giustizia e il bene comune". Scontri tra gruppi di musulmani e cristiani, provocati da una controversia elettorale, hanno causato centinaia di morti nel novembre scorso nella città di Jos nella vicina Nigeria. A gennaio, le autorità sudanesi hanno espulso dal Darfur, nell'ovest del Sudan, una organizzazione umanitaria con sede negli Stati Uniti, perché nei locali dell'organizzazione erano state scoperte delle bibbie in arabo. Il Papa sta cercando di riallacciare i rapporti con i musulmani che si sono raffreddati dal 2006, quando Benedetto XVI pronunciò un discorso a Regensburg, in Germania. Un discorso che, secondo i musulmani, descriveva l'Islam come violento e irrazionale e che scatenò molte proteste in tutto il mondo arabo. Nell'incontro di oggi, il Pontefice ha ricordato anche come "religione e ragione si sostengono a vicenda". Ma le polemiche sulla frase del Papa secondo cui i preservativi "aumentano il problema" dell'Aids non accennano a placarsi. CONTINUANO LE CRITICHE Nonostante la parole del portavoce papale, secondo cui Benedetto XVI non ha fatto altro che riportare il pensiero storico della Chiesa, continuano le polemiche e molti stati, compresa la sua nativa Germania, hanno preso posizione contro le parole del Pontefice con particolare decisione. "Sono molto preoccupato. Questo è l'opposto del concetto di tolleranza", sono state le parole del ministro degli Esteri francese Bernard Kouchner ieri. Il Ministro francese per i diritti umani Rama Yade si è detta "basita" per le parole del Pontefice, sottolineando come così si rischi di minare la lotta all'Aids. Altri politici sono andati oltre, chiedendosi se Benedetto XVI sia in grado di guidare la Chiesa. Kevin Robert Frost, capo della Fondazione neworkese per la Ricerca contro l'Aids, ha detto che attraverso questi commenti il Papa "sta contraddicendo un gran numero di prove scientifiche". "I preservativi sono una parte essenziale della lotta all'Aids. Gli assistenti sanitari devono poterli distribuire e devono insegnare alle persone la giusta maniera di utilizzarli", ha concluso Frost.

Il Regista del film TEZA, Dimostra la sua ignoranza in materia della Chiesa Cattolica

di Francesco Gallo Oltre che regista di Teza, il film che forse passera' alla storia come la pellicola africana più premiata, Haile Gerima è anche un po' filosofo e politico. E così nel presentare a Roma il film, una sorta di Heimat etiope, che sarà nelle sale il 27 distribuito dalla Ripley's in circa trenta copie, si lascia andare a molte considerazioni su Africa, colonialismo, tradizioni cancellate e anche Papa e Aids. Protagonista del film - che ha vinto solo al Festival di Venezia due premi (quello Speciale della Giuria e l'Osella per la migliore sceneggiatura) - Anberber (Mengistu Zelalem), giovane etiope che dopo aver completato gli studi universitari in Germania, tra razzismo e integrazione, fa ritorno finalmente nella natia Etiopia. Qui spera di poter fare qualcosa per il suo paese grazie alle sue capacità e ai suoi studi, ma presto deve fare i conti con una realtà che non riconosce più bene come sua e soprattutto con il repressivo regime marxista di Haile Mariam Mengistu (1974-1991), che ha spento lo spirito della sua gente e dei valori sociali di un tempo. "Il Papa? E' solo il simbolo delle contraddizioni umanitarie dell'Europa". Così Gerima commenta le dichiarazioni di Ratzinger in Camerun sull'utilizzo dei preservativi per prevenire l'Aids. "Il Papa non ascolta abbastanza dove gli africani sentono davvero dolore, sa dare solo indicazioni", dice poi. Il regista, di madre cattolica e padre cristiano-copto, pur riconoscendo quanto sia difficile per lui, cristiano, commentare le parole del Papa, lo definisce a un certo punto una persona "fuori dal tempo come sono anche molti missionari". Per quanto riguarda la cultura africana, più volte Gerima ribadisce come colonialismo e missioni l'abbiano di fatto cancellata. "Noi africani - dice polemicamente - siamo ormai più che altro dei ricevitori di aiuti umanitari. I nostri giovani ormai guardano all'America, alla cultura hip hop, mentre potrebbero e dovrebbero trovare energia nella tradizione". Sul colonialismo contesta le dichiarazioni di Sarkozy sul fatto che il colonialismo non è stato solo una cosa cattiva:"l'Africa - dice replicando al presidente francese - è stata crocifissa nella sua spiritualità". Dal regista anche un attacco all'Istituto Luce e alla Rai che non hanno voluto finanziare il suo documentario del 1999, 'Adwa. An African Victory', che raccontava, tra l'altro, fatti inerenti al colonialismo italiano in Etiopia. "Il fatto- conclude- è che gli europei temono che questi film possano creare complessi di colpa. L'Europa vuole dall'Africa solo certe cose, non certo film sulla sua storia, ma casomai sull'Aids".

«Non aver paura apriti agli altri», la campagna contro la banalità del razzismo

di Ella baffoni «Io non sono razzista, ma...». È il biglietto da visita del razzismo, esplicito o strisciante, che negli ultimi anni sta prendendo forza. Laura Boldrini punta il dito sulla politica («che in questi anni ha coniugato sicurezza e immigrazione, scorrettamente trascurando i molti aspetti positivi dei lavoratori immigrati tra noi») e su giornali e tv «che non ci hanno aiutato a capire, che danno larghissimo spazio alla devianza, alla criminalità, al susseguirsi di sbarchi di migranti senza spiegare da cosa fuggono. Un’informazione che troppo spesso non ci aiuta a capire». Basta, bisogna dare un segnale. Di qui nasce la campagna «Non aver paura, apriti agli altri» lanciata da ventisei organizzazioni. Oltre al Commissariato Onu per i rifugiati, Amnesty international, Antigone, Arci, Asgi, Acli. Cgil, Caritas, Emmaus, Chiese evangeliche, Federazione Rom e Sinti, Libera, Save the children, Sei-Ugl e molte altre organizzeranno iniziative, raccoglieranno firme, porteranno un messaggio di integrazione e rispetto per l’altro, favoriranno la conoscenza e il dialogo. Perché, spiega Moni Ovadia, molti pensano di essere più uguali di altri, di avere più diritti degli altri, «e invece c’è un solo uomo sula terra, l’altro è l’altra faccia di noi stessi». Ecco dunque il fantasmino che sorride, simbolo della campagna. Nato, racconta l’undicenne Sami Cirpaciu, «perché quando dai campi siamo andati nelle tende e poi a casa, mi hanno chiesto le mie paure. Io ho fatto uno spauracchio che fa paura ai fantasmini...». Poche parole, un’esperienza durissima: il campo rom a Settimo Torinese va a fuoco, il ricovero di fortuna, poi l’esperimento di autocostruzione, e il fantasmino può finalmente sorridere. Anche negli adesivi, nelle spillette, nei manifesti, sul sito web. E nello spot: è il sorriso di Sami che apre la gabbia che rinchiude l’italiana (Francesca Reggiani) che «non è razzista ma...», il napoletano (Lello Arena) che punta il dito sugli arabi, l’araba (Cumba Sall) che se la prende con gli africani, l’africano (Salvatore Marino) che trova il capro espiatorio finale, lo zingaro, il piccolo Sami (GUARDA IL VIDEO). L’esclusione è un’esperienza viva per un calabrese immigrato a Torino, dice il regista dello spot, Mimmo Calopresti, «tutti possono trovare qualcuno con cui prendersela. Ma se ci apriamo, lavoriamo a migliorare noi stessi, migliora il mondo». «Il pregiudizio è una scorciatoia - dice Lello Arena - tutti dovrebbero fare l’esperienza di essere minoranza». «E allora non verrebbe a nessuno l’idea orripilante delle scuole differenziali per chi non sa l’italiano - s’indigna Salvatore Marino, padre siciliano e madre eritrea - come l’imparano l’italiano se nessuno lo sa?». A raccontare la banalità del razzismo è Ribca, franco-eritrea ma romana da vent’anni. Appena arrivata, racconta, davanti a un tentativo di discriminazione un intero autobus è insorto, facendo scendere la donna che l’insultava. Tre anni fa, racconta un giornalista del Tg2, che scortesemente le dava del tu, le ha chiesto: da dove vieni? «Da Roma, ho risposto, nun se sente? E lui: si sente, ma non si vede. Ecco, è grave che un giornalista, che una persona parli così». È gravissimo: una gabbia che bisogna rompere, tutti insieme.

IMMIGRAZIONE: BERLUSCONI FRENA LA LEGA, FINI APPREZZA

di Anna Laura Bussa ROMA - Il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi sposa in toto la battaglia dei 'suoi' 101 deputati contro la norma sui 'medici-spie' contenuta nel ddl Sicurezza e spara a zero contro le ronde: "Non ne sentivamo davvero l'esigenza". Quindi rincara la dose: "La Lega non può volere sempre tutto". Da Bruxelles, dove si trova per il vertice del Ppe, il premier prende le distanze dal Carroccio e impone una brusca frenata alla sua politica della sicurezza sempre più mal digerita dal Pdl. Qualche volta ai nostri alleati "possiamo dire di sì - spiega Berlusconi - qualche altra volta diciamo di sì con difficoltà, mentre alcune volte diciamo di no". Ecco, questa, fa capire il Cavaliere, è proprio una di quelle volte in cui il 'no' potrebbe arrivare. E già, perché anche in Europa la norma che impone ai medici l'obbligo di denunciare gli stranieri irregolari con il rischio di non avere più un controllo sulla situazione sanitaria del paese, piace poco. "La verità - commenta il vicepresidente del gruppo del Pd alla Camera Gianclaudio Bressa - è che in Europa Berlusconi si vergogna dei propri alleati e delle norme xenofobe che presentano". E per questo prende "le distanze da Maroni". Soddisfatto per la presa di posizione del premier è il presidente della Camera Gianfranco Fini che nei giorni scorsi aveva già espresso la sua contrarietà sui 'medici-spia' a 'Porta a Porta': "Certo che ho apprezzato" dice ai giornalisti dopo aver letto le dichiarazioni di Berlusconi da Bruxelles. E il suo volto sorridente conferma il giudizio appena dato. "Così nasce il Pdl, non si può inseguire la Lega", esulta un articolo sul sito della Fondazione Farefuturo, presieduta da Fini. Ma la più contenta di tutti per l'altolà del Cavaliere è Alessandra Mussolini: l'ideatrice della lettera al governo per chiedere di non mettere la fiducia al ddl sicurezza. Una lettera che era stata firmata da ben 101 deputati del Pdl, più di un terzo del gruppo: un numero troppo consistente di 'dissidenti' per non essere preso in considerazione dal Cavaliere alla vigilia del congresso costituente. Umberto Bossi, visibilmente amareggiato, prova a minimizzare anche se poi si lascia scappare un "Berlusconi? Non sono così ansioso di sentirlo...". "Tutti i segretari - tenta di giustificare - hanno dietro il partito che spinge e anche Berlusconi si deve difendere". "Poi - aggiunge - non ha mica detto cose strane, ha detto cose equilibrate". Anche la Lega, insomma, sembra pronta alla marcia indietro visto che interrogato dai cronisti sulla possibilità che la norma dei "medici-spia" venga cambiata, Bossi risponde: "Maroni non è mica scemo, ci ragionerà su...". E poco dopo Roberto Calderoli parla di un emendamento al quale sta lavorando, di cui parlerà con Maroni e poi lunedì alla segreteria politica della Lega. "Una soluzione c'é", dice dichiarandosi "tranquillissimo". Ma prima che Bossi intervenisse, il commento degli altri vertici del Carroccio non era stato così soft. I 101 deputati del Pdl, aveva osservato, invece, il capogruppo alla Camera Roberto Cota "sono stati strumentalizzati". Per non parlare del ministro dell'Interno Roberto Maroni che si era detto "stupito" per la lettera dei 'dissidenti' e aveva ricordato che il ddl al Senato era stato approvato "all'unanimità". "Ogni volta che si avvicina un congresso - aveva aggiunto - ci sono fermenti. E non vorrei che ci fosse dietro una cosa del genere". Il centrosinistra intanto saluta con favore la presa di posizione di Berlusconi e l'iniziativa dei 'dissidenti' del Pdl. "E' un sussulto, anche se tardivo, di voci libere", commenta il capogruppo alla Camera del Pd Antonello Soro. "Berlusconi ha capito finalmente che il prezzo pagato alla Lega è troppo alto", taglia corto il presidente dei senatori Anna Finocchiaro. E ora non gli resta altro che "fare marcia indietro su tutto".

Lavoro: Onu, Italia discrima immigrati. Frattini: rapporto falso, siamo indignati

ROMA - L'Onu, attraverso un rapporto dell'Ilo - la sua agenzia per il lavoro - accusa l'Italia di xenofobia e razzismo nei confronti degli immigrati, soprattutto i rom. Ed il governo scende in campo ''respingendo al mittente'' affermazioni che sono ''false'', spiega il ministro degli Esteri, Franco Frattini, annunciando di aver espresso gia' al quartie generale dell'Ilo a Ginevra l'''indignazione'' dell'esecutivo. Il ministro del welfare, Maurizio Sacconi, rimarca intanto la correttezza dell'Italia nell'applicare le convenzioni per i Diritti Umani e del lavoro e spiega che quello dell'Ilo non e' un ''atto ufficiale''. A scatenare la bagarre le tre pagine, contenute in un rapporto del Comitato di Esperti dell'Ilo - l'Organizzazione Internazionale per il Lavoro dell' Onu - che puntano il dito sulla penisola, accusandola di discriminare gli immigrati e chiedono al Governo di Roma interventi a stretto giro per contrastare il clima di intolleranza e garantire la tutela agli immigrati. Rapporto che non lesina accuse anche ai ''leader politici'' italiani rei - si legge nel testo - di usare una ''retorica aggressiva e discriminatoria nell'associare i rom alla criminalita', creando cosi' un sentimento di ostilita' e antagonismo nell'opinione pubblica''. Il documento del Comitato - pubblicato il sei marzo scorso - spiega che il clima di intolleranza ha un impatto sugli standard minimi di protezione ''dei diritti umani e del lavoro'' nonche' sui livelli di vita, ponendosi in contrasto con la convenzione 143, sulla 'Promozione della parita' di opportunita' e di trattamento dei lavoratori migranti', ratificata dall'Italia nel 1981. Tutte affermazioni ''false, non dimostrare con elementi concreti, da respingere al mittente'', replica la Farnesina spiegando che Frattini, giudica ''gravemente inaccettabili'' parole ''come 'intolleranza' o 'discriminazione' nei confronti degli immigrati'' riferite ''all'Italia e alle autorita' italiane''. Una posizione cui fa eco Sacconi: ''il documento non e' un atto ufficiale dell'Ilo ma molto piu' modestamente il recepimento da parte degli esperti di ipotesi tutte da dimostrare''. E avanza il dubbio che le ''sollecitazioni siano pervenute dall'interno del Paese''. ''Il quadro non e' quello rappresentato nel rapporto'', ribadisce la Farnesina sottolineando che l'Italia ''rispetta e rispettera' le regole europee ed internazionali come sempre e' stato riconosciuto e confermato dal governo e da tutte le autorita' responsabili''. ''Ci auguriamo che si tratti di una sfortunata pagina dell'attivita' di un'istituzione, l'Ilo, che l'Italia rispetta e con la quale intende continuare a collaborare'', aggiunge il ministero degli Esteri. Gli autori del documento ''non considerano, e cio' dimostra il carattere parziale ed inaccettabile del documento, che nell'anno 2008 e nei primi mesi del 2009 le autorita' italiane sono intervenute per salvare da morte probabile migliaia e migliaia di immigrati clandestini, soccorrendoli ed accogliendoli con rispetto ed umanita'''. ''Da anni esprimiamo preoccupazione per forme di intolleranza e discriminazione verso gli immigrati, e in modo particolare nel mondo del lavoro'', commenta invece da parte sua la Caritas per voce del responsabile immigrazione, Oliviero Forti.