domenica 30 agosto 2009

"Qualcuno deve spiegazioni"

di Daniele Biella La denuncia del rappresentante eritreo: "nessuno ha visto la barca alla deriva?" “Sono vite umane, non un carico di merce. Com’è possibile che con tutti i controlli in atto negli ultimi mesi, nessuno ha visto una barca con 80 persone per 23 giorni alla deriva?”. È sconvolto Mussie Zerai, 34 anni, presidente dell’associazione eritrea Agenzia Habeshia, che dal 2006, con sede a Roma, aiuta a integrarsi le persone dello Stato africano che riescono ad arrivare in Italia. Con Vita.it, che l’ha raggiunto al telefono, Hadeshi ha cercato di capire come sia potuta accadere l’ennesima tragedia del mare, che ha portato, secondo i racconti dei cinque superstiti recuperati giovedì 20 agosto e ora al vaglio della Magistratura, almeno 73 persone a perdere la vita in mare. Suscitando sconcertate reazioni sulla carta stampata (a questo link l’editoriale di oggi su Avvenire) e diverse prese di posizione nel mondo politico (leggi qui), in attesa che il Governo riferisca in Parlamento a proposito, come dovrebbe fare a breve. Com’è potuta accadere una strage di simile portata? Non me lo so spiegare. Nessuna notizia, nessun avvistamento in più di venti giorni, è incredibile e assurdo. Se il tratto è costantemente sorvegliato dalla polizia di Frontex (il coordinamento della Ue per gestire le frontiere esterne, ndr) e dai recenti accordi bilaterali Italia-Libia, com’è possibile che nessuno abbia visto niente? Qualcuno dei tre governi, italiano, libico o maltese, ci deve delle spiegazioni. Voi sapevate della presenza della barca nel Mediterraneo? Negli ultimi giorni circolavano voci sempre più consistenti nella comunità eritrea. In particolare, il 13 agosto mi ha contattato un prete gesuita che vive a Malta, e mi ha chiesto se sapevo qualcosa di una barca con 80 eritrei a bordo che, secondo le sue informazioni, era partita dalla costa libica lo scorso 29 luglio. Mi disse che alcune famiglie eritree l’avevano contattato dall’estero chiedendo notizie dei propri parenti. Io ho chiesto ai contatti che abbiamo in Libia, ma nessuno mi ha saputo dire alcunché su quella barca. Poi, la scorsa settimana, si è saputo di un respingimento italiano di un’imbarcazione con a bordo 84 persone, poi riaccompagnate in Libia. All’inizio sembrava poter essere quella barca, ma invece si trattava di un’altra. Uno dei sopravvissuti ha raccontato che l’unico a prestare soccorso ai migranti è stato un peschereccio che ha fornito loro acqua... Sì, e c’è una cosa che mi stupisce: come mai non ha dato l’allarme? Un altro mistero riguarda anche le persone sulla barca: di solito, in questi casi, in emergenza qualcuno manda un sos dal satellitare, oppure chiamano direttamente. Ad esempio è successo che mi contattassero dal mare, poi io chiamavo la Guardia costiera per segnalare la loro posizione. Ma stavolta, nulla. Perchè? Nel frattempo aspettiamo di sapere anche indicazioni più precise da chi si è salvato. Ma qualcuno risponda, soprattutto chi ha competenza. È lì che si trovano le colpe? Senza dubbio. I governi hanno una parte rilevante di responsabilità. È stato istituito un “muro triangolare” per non far passare più barche di disperati, sono stati spesi miliardi di Euro. Posso capire le politiche da attuare e le scelte dei singoli Governi sul fatto che sia impossibile far entrare tutti in modo indiscriminato, ma se di sorveglianza si tratta, bisogna anche sorvegliare per salvare vite umane. Da che cosa fugge la gente eritrea? Da un paese che da anni è nella morsa di una dittatura soffocante, che nega le libertà personali. Le persone cercano di fuggire in tutti i modi, spesso, chi può permetterselo, corrompendo le guardie alla frontiera. La via preferita è quella del Mediterraneo, passando da Sudan e Libia per arrivare poi in Europa con le barche. L’altra è quella via terra, dall’Egitto e da Israele, altrettanto proibitiva perchè lì le autorità di frontiera sparano, e i morti si contano a decine. Via mare il numero degli emigranti è calato di poco negli ultimi tempi, anche a conseguenza dell’entrata in vigore dei respingimenti, ma il flusso di disperati è ininterrotto. Ci sono alternative? Una soluzione ci sarebbe, lo denunciamo da tempo: bisognerebbe mettere un “filtro”, magari in Libia se in Eritrea oggi non è possibile, gestito ad esempio dall’Acnur (o Unhcr, Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati), che regola il numero degli ingressi vagliando le richieste di asilo delle persone. In questo modo, se ci fosse una possibilità simile, più istituzionale, molti di meno rischierebbero la vita cercando di superare il Mediterraneo.

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