giovedì 29 ottobre 2009

Io, nipote di italiani nella barca della morte

Perso in mare il biglietto con gli indirizzi dei parenti: «Ora non so più cosa fare» POZZALLO (Ragusa) — «Gli era rima­sto un filo di voce e continuava a chie­dere disperatamente «acqua, datemi un po’ d’acqua». Attorno c’era chi gli face­va coraggio: «resisti stanno arrivando i soccorsi. In realtà non sapevamo nulla ma lui è morto appena un’ora prima che arrivasse la motovedetta italiana». Fragilissima nelle sue treccine nere Marhaout G., 19 anni, eritrea, dopo due giorni in ospedale ha recuperato le for­ze per raccontare l’odissea di quel barco­ne con 300 immigrati e del­l’uomo agonizzante a pochi metri da lei. «Non mangia­va da giorni è morto di fa­me e sete - spiega- il viag­gio è durato dieci giorni e vedendo quel mare pensava­mo che non ce l’avremmo mai fatta. Ricordo onde al­tissime che allagavano con­tinuamente la barca e noi dovevamo buttar via l’acqua con i sec­chi. Cibo e acqua sono finiti dopo il ter­zo giorno di navigazione. Due giorni do­po è arrivata la petroliera che ci ha lan­ciato dei viveri. Per il resto non si è fer­mata nessun’altra imbarcazione». Dopo aver attraversato il Sudan Marhaout ha raccontato di essere rimasta tre mesi in Libia in attesa dell’imbarco. Ora è rico­verata nel reparto di ginecologia, al ter­zo piano dell’Ospedale di Modica. Con lei altre sette compagne di viaggio: tut­te incinte tra il quarto e l’ottavo mese. Un piano più su c’è Cristian , 18 mesi, un viso bellissimo ed un corpicino mar­toriato dalle piaghe e dalla febbre. Nelle polemiche di questi giorni le au­torità maltesi hanno spiegato che gli im­migrati avrebbero rifiutato il soccorso di una loro motovedetta. Marhaout e le sue compagne insistono: «Si è avvicina­ta solo la petroliera, nessun’altro». Il lo­ro racconto lascia inoltre ipotizzare che anche quell’unico morto si poteva evita­re se solo il braccio di ferro tra Italia e Malta fosse finito qualche ora prima. Se invece fosse andato avanti sarebbe sta­ta una strage. «Quando è arrivata la mo­tovedetta italiana il barcone si era già spezzato e imbarcava acqua da tutte le parti - spiega un’altra delle ragazze, Yai­byo T. - in quelle condizioni non avrem­mo resistito ancora un altro giorno». Marhaout è ricoverata nella stanza nu­mero 9 dove vita, morte, speranze for­mano un’unica miscela. Nel letto a fian­co c’è Saggaoui K. anche lei eritrea, an­che lei 19 anni, anche lei incinta. Ma purtroppo di una creatura morta per gli stenti di quei giorni in mare. Gli assi­stenti sociali gliel’hanno detto all’indo­mani del suo arrivo ma lei in cuor suo l’aveva già capito e, nonostante le lacri­me iniziali, ora riesce pure a sorridere. Marahaout invece assieme al suo bam­bino si porta dietro una storia che è au­tentico vaccino contro i fantasmi xeno­fobi. Il suo non è un viaggio della spe­ranza ma un viaggio di ritorno nella ter­ra dei suoi avi, che è proprio l’Italia. Ma­rahaout è infatti nipote di un italiano, Mario Golino, partito in Eritrea durante la stagione coloniale e che per tutta la vita ha trasmesso a figli e nipoti l’amore per l’Italia. «Mio nonno ci ha sempre raccontato dell’Italia che lui ritiene il pa­ese più bello al mondo — spiega — per questo sono tornata con mio marito e un mio fratello. Questo in realtà era il sogno di mia madre che però non può lasciare gli altri miei 5 fratelli». Partito da Roma per Asmara Mario Golino sposò un’eritrea da cui nacque la madre di Marahaout che lui volle chiamare Natalina. «Noi nipoti cono­sciamo l’Italia grazie ai racconti di mia madre e di mio nonno che oggi vive in Etiopia e che non può tornare in Eri­trea ». Mentre parla improvvisamente si rabbuia. «Che c'è?», chiede la giovane inter­prete che ascolta e trattiene le lacrime. Marahaout spiega che la madre le aveva consegnato un biglietto con i nomi di possibili parenti da cercare una volta ar­rivata in Italia. «Ma ho perso tutto in mare — si dispera — ed ora non sono più come trovarli». Quella mappa di no­mi per il viaggio nel suo passato e nel suo futuro l’aveva messa in una tasca del vestito ed è stata portata via dal ma­re. Non come la vicina di stanza Yousef A. 20 anni, che invece ha cucito il suo tesoro in una sacca interna agli slip. Quando è arrivata in ospedale, anco­ra febbricitante, si è opposta con forza alle infermiere che cercavano di svestir­la per lavarla. Poi ha svelato il suo picco­lo segreto: cinquanta euro e una catena d’oro. «E’ tutto quel che ho — si è giusti­ficata — con questo debbo ricomincia­re una nuova vita». Alfio Sciacca 29 ottobre 2009

mercoledì 28 ottobre 2009

ETIOPIA La gente fugge per sopravvivere: di Marina Corradi

27/10/2009 - In un'intervista ad Avvenire, l'arcivescovo Souraphiel richiama l'attenzione sulle condizioni dei cristiani nella sua terra. E rilancia le sue speranze, al termine del Sinodo: «L’Africa ha bisogno di uomini, ma per farli occorre educare» Dal Sinodo della Chiesa africana, in una conferenza stampa di pochi giorni fa, una voce si è levata, pacata, dolente: «Anche le vite degli africani hanno un valore, che spesso non si vede sui media occidentali, quando raccontano le tragedie del mare». Lo ha detto il cardinale Berhaneyesus Demerew Souraphiel, arcivescovo di Addis Abeba e presidente della Conferenza Episcopale etiopica, che comprende anche la Chiesa eritrea. Al Collegio Etiopico, in Vaticano, il cardinale ci viene incontro sulla soglia, con la semplicità cordiale della gente africana. Cosa voleva dire, eminenza - chiediamo - con quel suo richiamo? «Vede - risponde Souraphiel - in Etiopia come ovunque si vedono ormai le tv di tutto il mondo. E spesso ho visto le immagini di sbarchi, o di naufragi nel Mediterraneo, e mi è sembrato quasi di avvertire che la vita non ha lo stesso valore per tutti. So di nostra gente che ha sofferto molto per traversare il deserto, o che fugge, come gli Eritrei, da una dittatura e avrebbe diritto all’asilo; e il saperli respinti in mare dall’Italia mi sembra una cosa molto dura». «Dall’Etiopia - prosegue Souraphiel - si parte per fame: il 50% della popolazione vive sotto la soglia della povertà. Dall’Eritrea, si parte per sfuggire alle persecuzioni. L’Etiopia è in grande maggioranza cristiana ortodossa (cattolica invece l’Eritrea), e però fame e guerra spingono a emigrare anche in Medio Oriente. Dove ai migranti vengono imposti gli usi islamici, le donne sono costrette a indossare il velo, e spesso per la tranquillità del vivere ci si converte all’Islam. È la prima volta, nella nostra storia, che la povertà intacca le radici cristiane della popolazione». Cosa si sa in Etiopia dei viaggi nel Sahara che i migranti intraprendono per raggiungere il Mediterraneo? Si sa che questi viaggi sono gestiti da trafficanti che esigono continui pedaggi, che molte donne finiscono col prostituirsi per poter pagare, che qualcuno nel deserto lascia la vita. Si sa che il Sahara è una trappola: ma partono comunque, spinti dalla speranza di una nuova vita. È spesso gente che ha studiato, che potrebbe inserirsi in Occidente. Mi sgomenta pensare a che destino vanno incontro. A settembre mi trovavo a Verona, e ho celebrato il funerale di una nostra immigrata finita nella prostituzione e uccisa. Ha lasciato un bambino. Ma se penso che quella povera donna cercava solo un destino migliore, e a come è morta, credo che proprio questo non sia giusto. Su cosa sono fondate le speranze di un avvenire migliore in Etiopia? Qualcosa si sta facendo: infrastrutture, grandi dighe sui fiumi per creare bacini di irrigazione. L’Etiopia non è sempre stata così povera: quando io ero un bambino, si mangiava, e addirittura si esportava parte del raccolto in India. Siccità, guerra, instabilità politica ci hanno ridotto come oggi. Anni fa lessi che a un G8 era stato preso l’impegno di destinare ai paesi africani lo 0,7% del Pil dei Paesi della Ue. Però quei soldi siano mai arrivati. Di cosa è ricca, eminenza, la sua terra? Sorride Souraphiel: «Di vocazioni. Siamo ricchi di vocazioni di preti e suore. Ma l’Africa non è solo povera: è ricca di grandi risorse naturali, e del suo grande popolo. L’Africa è un paradosso. Ma io sono pieno di speranza, in questo Sinodo che annuncia riconciliazione e pace. Intanto, a Addis Abeba stiamo aprendo con l’aiuto della Cei una Università Cattolica che formi la nuova classe dirigente dell’Etiopia. Perché l’Africa ha bisogno di uomini, e per fare gli uomini occorre educare». (da Avvenire, 27 ottobre 2009)

lunedì 26 ottobre 2009

Immigrazione, in 250 sul barcone in balia del mare da 5 giorni

Motovedette della Capitaneria in navigazione per intercettare la carretta del mare già in acque italiane PALERMO – Si sblocca la situazione del barcone carico di migranti da giorni in balia del mare nel Canale di Sicilia per l’ennesimo braccio di ferro Italia-Malta sulla competenza a prestare soccorso. Com’era già avvenuto altre volte alla fine ad intervenire è l’Italia. Le motovedette della Capitaneria di Porto sono in navigazione per intercettare la carretta del mare che è già entrata in acque italiane. Ad assisterla c’è ancora la petroliera “Antignano” che fino a questa mattina era stata l’unica a farsi carico dell’assistenza lanciando acqua e vivere ma impossibilitata ad avvicinarsi troppo al barcone per paura di speronarlo. In zona si sta dirigendo anche il rimorchiatore Kerob Express che ha da poco lasciato la piattaforma Vega. Alle 13 il barcone era a 13 miglia da Capo Passero e non è ancora chiaro se i migranti verranno trasbordati sulle motovedette italiane oppure scortati fino al porto più vicino. “Tutto verrà deciso sul momento – dicono dal comando generale delle Capitaneria di Porto- in base alle condizioni del mare e allo stato di salute degli immigrati”. Si tratta di operazioni molto delicate e dunque le autorità italiane potrebbero anche decidere di trasbordare solo chi ha necessità di assistenza immediata, come donne e bambini che ormai sono al limite delle loro forze. In mattinata erano stati diversi gli appelli a porre fine a quest’odissea. Tra gli altri il portavoce per l’alto commissariato Onu per i rifugiati Laura Boldrini. “Siamo grati all’equipaggio dell’Antignano che ha prestato assistenza –ha detto- ma ora è necessario sbloccare la situazione e dare assistenza ai migranti tenendo conto che ci sono donne e bambini”. PRIMA RICHIESTA DI AIUTO IN ITALIA - Secondo alcune testimonianze di parenti che vivono già in Italia a bordo del barcone ci potrebbero essere più di 200 immigrati, forse 250, che sarebbero in navigazione non da 3 ma da 5 giorni. Fino all’alba di oggi erano in balia del mare in una zona in cui la competenza a prestare soccorso sarebbe di Malta. Ma La Valletta non è intervenuta perché la prima richiesta di aiuto è arrivata via telefono satellitare in Italia. E’ così cominciato il solito braccio di ferro già visto il passato. Fino a quel momento a farsi carico di un minimo di assistenza era stata solo la petroliera italiana “Antignano”. Ieri sera dalla Sicilia erano comunque partite due motovedette con a bordo dei medici per verificare le condizioni di salute dei migranti. Ma dopo alcune ore di navigazione hanno dovuto fare dietro front per le pessime condizioni del mare. Questa mattina alcune unità italiane hanno poi avuto l’ordine di muoversi verso il limite delle acque maltesi, pronte ad intervenire. Ed in tarda mattinata è arrivato il via libera a prestare soccorso al barcone dei disperati che dovrebbero arrivare in Italia entro oggi. Da notare che ieri sera addirittura si stava per prospettare una soluzione assolutamente inedita. Le autorità maltesi avevano infatti autorizzato la Libia ad entrare nelle loro acque per prelevare il barcone di immigrati. Qualcosa in più del “solito” respingimento trascurando il fatto che a bordo del barcone ci sono molti eritrei e somali che hanno diritto a chiedere asilo. Solo a tarda sera la Libia ha rinunciato all’operazione. Alfio Sciacca asciacca@corriere.it 26 ottobre 2009

venerdì 23 ottobre 2009

IMMIGRATI: MONTEZEMOLO, FIGLI NATI QUI ITALIANI A TUTTI GLI EFFETTI

Roma, 22 ott. (Adnkronos) - ''I figli degli immigrati che sono nati qui sono italiani a tutti gli effetti, diventeranno magari imprenditori. Ma attenzione, servono regole certe, uguali per tutti, perche' l'Italia non e' il paese del Bengodi''. Lo dice Luca di Montezemolo alla presentazione del libro di Maurizio Molinari 'Il paese di Obama, com'e' cambiata l'America'. Secondo il presidente della Fiat, ''una immigrazione sana, gestita, e' fondamentale per ogni paese''.

giovedì 22 ottobre 2009

Onu, Italia primo paese in Ue per "Stand Up" su povertà e clima

ROMA (Reuters) - In tre giorni, oltre 820mila italiani si sono mobilitati per chiedere al governo di rispettare le promesse per la lotta alla povertà e contro i cambiamenti climatici, partecipando alla campagna "Stand Up" organizzata in tutto il mondo dalla Campagna del Millennio delle Nazioni Unite. Lo dice un comunicato dell'organismo. "E' stata una mobilitazione straordinaria quella svolta dal 16 al 18 ottobre in Italia e nel resto del pianeta. Oltre 173 milioni di cittadini in tutto il mondo in più di 3mila eventi in 120 paesi. Oltre 820 mila persone nella sola Italia". La mobilitazione chiedeva a tutti i governi di rispettare gli impegni presi per "il raggiungimento degli Obiettivi del Millennio, la lotta contro la povertà e i cambiamenti climatici come priorità dell'agenda politica". "Questi numeri ci confermano non solo il grande interesse degli italiani per la lotta alla povertà, ma anche come questo interesse si concretizzi in precise richieste", ha detto Marta Guglielmetti, coordinatrice Italiana della Campagna del Millennio dell'Onu. "Chi si è registrato alla mobilitazione dello scorso weekend chiede infatti due azioni specifiche al nostro governo: di aumentare l'Aiuto Pubblico allo Sviluppo in modo da raggiungere lo 0,7% del Prodotto Interno Lordo entro il 2015, come si é impegnato a fare in sede ONU, e di mantenere gli impegni presi durante lo scorso G8 all'Aquila per fronteggiare i cambiamenti climatici". Gli Obiettivi, fissati nel settembre 2000, comprendono, tra gli altri, il dimezzamento della povertà, l'istruzione primaria per tutti i bambini, la parità tra i sessi e la riduzione della mortalità infantile.

Etiopia/ Governo ha bisogno aiuti alimentari per 6,2 mln persone

Ma Pam è già a corto di fondi Roma, 22 ott. (Apcom) - L'Etiopia dovrebbe presto confermare di aver bisogno di aiuti alimentari urgenti per oltre sei milioni di persone. Questo a causa - spiega il sito internet della Bbc - degli effetti della perdurante siccità e delle piogge intermittenti sui raccolti. Il Pam, il programma alimentare delle Nazioni Unite, dovrà già fronteggiare entro fine anno una carenza di scorte alimentari destinate all'Etiopia del valore di oltre 85 milioni di dollari. L'agenzia umanitaria Oxfam ha sollecitato un nuovo approccio per scongiurare il rischio di un disastro nella nazione.

Etiopia: uccisi oltre 100 soldati governo, ribelli Ogaden

(ANSA) - NAIROBI, 21 OTT - I ribelli del Fronte di Liberazione nazionale dell'Ogaden (Onlf) hanno annunciato un'importante vittoria contro le truppe etiopiche. Avrebbero perso oltre 100 soldati.Nessuna reazione da parte di Addis Abeba. Nell'Ogaden e' in corso da anni una violenta lotta di liberazione, sanguinosamente repressa dall'esercito di Addis Abeba, accusato di violare apertamente i diritti dell'uomo, coinvolgendo nelle repressioni anche la popolazione civile.

Vita da reporter in Africa e non solo

Il Corno d’Africa è stato ancora una volta la regione del continente con le maggiori violazioni della libertà di stampa. L’Eritrea – che non tollera i media indipendenti, tanto che ad oggi 30 giornalisti sono ancora in carcere – è un Paese dove la repressione della stampa è la più dura del mondo. La Somalia si sta pian piano svuotando di giornalisti, anche con omicidi mirati: sei reporter sono stati uccisi tra il 1 gennaio e il 4 luglio di quest’anno. Le crisi politiche, le pressioni di alcune nazioni occidentali, corruzioni e insanabilità infieriscono notevolmente sullo svolgimento della professione libera e indipendente. In Madagascar sono crollati addirittura 40 posti. La censura è un’arma potentissima per i despoti nella penisola del Corno in Africa, le ingiurie e gli attacchi contro i media locali servono a denigrare il loro lavoro e la disinformazione della popolazione si aggiunge a tutto il resto. In Guinea poco tempo fa è avvenuto un copioso spargimento di sangue nella capitale Conakry. Qui il terribile bilancio è salito a 157 morti e 1.200 feriti durante una manifestazione all’interno dello stadio. In Guinea-Bissau i recenti omicidi hanno causato la sospensione temporanea di alcuni mezzi di comunicazione e numerosi giornalisti sono stati costretti a scappare. In Nigeria e nella Repubblica Democratica del Congo (RDC) i reporter sono attaccati continuamente, vengono picchiati e arrestati arbitrariamente. Sono state denunciate violenze e soprusi anche nei confronti di alcuni di loro in occasione delle elezioni presidenziali. Ai tanti esempi di violenza sono da aggiungere anche gli assassini di due corrispondenti radiofonici a Bukavu, la capitale della provincia orientale della RDC. Il Rwanda ha sospeso temporaneamente il lavoro dei mezzi di informazione locali e internazionali, cosicché un cronista o un redattore che violano la legge possono essere puniti con una condanna ad anni di detenzione. In Zimbabwe la giornalista Jestina Mukoko è stata rinchiusa in cella per molte settimane. Sembrano essere le regole di un gioco assurdo. Se sei un giornalista, e intendi scoprire la verità, devi aver appreso sin dall’inizio che rischi seriamente la vita, la detenzione, le ingiurie o qualsiasi altro tipo di violenza (fisica, psicologica, economica). La paura della morte porta al silenzio e il silenzio porta alla regressione. Fortunatamente il giornale Periodico Italiano mi dà la possibilità di scrivere le mie verità senza nessun intralcio. Ma è fuori dalla redazione, nel mondo che ci circonda, che troviamo difficoltà, minacce e silenzi. Ma non per questo dobbiamo arrenderci. La libertà si paga a caro prezzo e non solo in Africa. Onori Andrea

Respingimenti in mare: la comunità eritrea di Tripoli scrive a papa Benedetto XVI per fermare i respingimenti.

In una lettera consegnata al cardinale Renato Raffaele Martino gli eritrei chiedono aiuto “per fermare le nuove politiche di respingimento”. La lettera è stata resa nota dall'osservatorio Fortress Europe. Gli eritrei in Libia chiedono l'intervento di papa Benedetto XVI per fermare la politica dei respingimenti. Attraverso una lettera, consegnata lo scorso primo settembre al cardinal Renato Raffaele Martino presidente del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace in una celebrazione alla Chiesa di San Francesco a Tripoli, la comunità ha chiesto aiuto al Pontefice. A darne notizia è il sito dell’osservatorio sulle vittime dell’emigrazione Fortress Europe che ha ricevuto il testo della missiva dalla comunità eritrea di Tripoli e l'ha resa pubblica dopo la conferma del vescovo di Tripoli, Giovanni Martinelli. Nella lettera si chiede alla Chiesa di "criticare le nuove politiche di respingimento” alla luce della situazione in Libia. Di seguito i passi salienti della lettera: “Caro Papa, il nuovo accordo tra Roma e Tripoli sta mettendo in pericolo rifugiati politici e emigranti economici. La nuova politica di Berlusconi di respingere i richiedenti asilo intercettati in acque internazionali sta chiaramente alterando il dovere dell’Italia di rispettare gli obblighi internazionali, inclusa la Convenzione di Ginevra del 1951 e i protocolli dell’ultimo decennio. Non viene fatta nessuna analisi delle richieste d’asilo e i rifugiati politici vengono respinti in un paese che mette in pericolo la loro vita e la loro libertà. Come risultato di ciò, centinaia di richiedenti asilo eritrei sono stati respinti in Libia e si trovano ancora in centri di detenzione. Ad agosto, circa 80 eritrei sono stati abbandonati in mare per 22 giorni, senza ricevere soccorsi, e solo 5 sono sopravvissuti fino a quando una motovedetta italiana li ha portati in Sicilia. Vorremmo esprimere la nostra rabbia alle autorità europee per aver chiuso i loro occhi di fronte alla vista di un gommone di 12 metri con a bordo 80 immigrati che volevano solo chiedere asilo politico in Italia. Parlando in modo chiaro, le nuove politiche di respingimento non fermano i richiedenti asilo nel loro intento di attraversare il mare, ma piuttosto mettono in pericolo le loro vite. Eppure ci sono sempre più fattori che spingono gli immigrati a affrontare il mare e a mettere a repentaglio le proprie vite. La situazione a Tripoli è oltre ogni limite, c’è un isolamento intollerabile, dovuto al colore della pelle, alla religione e alla nazionalità. L’incapacità dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur) di provvedere a una veloce e effettiva procedura di asilo fa sì che gli immigrati si disperino e non vedano futuro in questo paese. Inoltre la Libia si trova al di fuori del territorio sotto il mandato dell’Acnur, non avendo mai firmato la Convenzione sui rifugiati. Motivo per cui il possesso dell’attestato dell’Acnur non garantisce ai rifugiati il diritto di residenza in Libia, per cui preferiscono comunque lasciare la Libia attraverso la pericolosa via del mare, diretti in un paese dove possano ottenere asilo. La nuova politica di respingimenti non ferma il numero delle traversate, ma lascia i rifugiati in pericolo. Pertanto, credendo nel potere della Chiesa di criticare le nuove politiche di respingimento del governo Berlusconi, pieni di speranza trasmettiamo questo messaggio agli uffici papali”. (Red.)

Bruxelles vara nuove misure, procedura unica europea su asilo

Ue, stop a differenze nei 27 per rifugiati BRUXELLES - Tutti gli Stati Ue dovrebbero applicare la stessa procedura per coloro che chiedono asilo perché perseguitati nei loro paesi d'origine. Le grandi differenze ancora esistenti nei 27, secondo Bruxelles, dovrebbero terminare al massimo entro il 2012 grazie all'applicazione di un pacchetto di misure varato oggi dall'eurogoverno. Un somalo che sbarca sulle coste della Grecia attualmente non beneficia delle stesse opportunità del suo compagno che invece approda a Malta, così come per un ceceno non è indifferente se arriva in Austria o in Slovacchia. "I richiedenti asilo devono poter avere la stessa opportunità di essere accettati o rifiutati in tutti i paesi Ue", ha spiegato il commissario Ue alla giustizia, libertà e sicurezza Jacques Barrot. L'asilo resta un punto nero per l'Ue, ritenuta poco generosa nell'accoglienza. Su 121 mila domande di ospitalità avanzate dall'Alto commissario Onu per i rifugiati nel 2008, ad esempio, gli europei hanno preso in carico solo 4.378 persone contro 60 mila degli Usa. Grazie alle nuove norme Ue, sarà introdotto un periodo di sei mesi come limite di tempo entro il quale le procedure di asilo devono essere completate, con un periodo transitorio di tre anni per consentire agli Stati di adeguarsi. Saranno inoltre semplificate le procedure e migliorate quelle rivolte in particolare alle persone più vulnerabili, come le vittime di torture o i minori non accompagnati. Nell'armonizzazione delle regole, si punta anche a facilitare l'accesso dei rifugiati alla protezione sociale, alle cure per la salute e al mercato del lavoro. Secondo Eurostat, nel 2008 coloro che hanno chiesto asilo nell'Ue sono stati 240 mila, con al primo posto gli iracheni seguiti dai russi. Migliorare e chiarire le regole per accoglierli, secondo Barrot, serve "ad offrire loro protezione ma al tempo stesso a combattere gli abusi", sbarrando la strada agli scafisti perché "non è accettabile che ci siano persone che rischiano la vita su imbarcazioni di fortuna sperando di ottenere poi lo status di rifugiato". Migliorare le regole potrà condurre anche ad una più equa ripartizione dei rifugiati nei diversi Stati Ue per venire incontro a quei paesi che per la loro situazione geografica - Italia, Spagna, Grecia e Malta - hanno un numero di domande nettamente superiore agli altri.

Un nuovo binario per l'immigrazione

Un gruppo trasversale di parlamentari (PdL, Pd, Udc, IdV) appare decisamente intenzionato a rimettere in moto il treno dell’integrazione. La linea su cui il treno è avviato è chiara: ai doveri, ai comportamenti virtuosi che esigiamo dagli immigrati, devono corrispondere anche meritati diritti. Riparte quindi la proposta di fare uno sconto sui tempi di attesa per ottenere la cittadinanza italiana: uno sconto riservato a quegli immigrati regolari che dimostrino di conoscere sufficientemente la nostra lingua, la vita civile e i valori costituzionali del nostro Paese. Torna sul tappeto l’idea di favorire i bambini nati in Italia o che, arrivati da piccoli, vi abbiano studiato e quindi siano qui presumibilmente bene inseriti. Di nuovo, si profila la possibilità di concedere, a certe condizioni, il voto locale anche agli immigrati non comunitari. I comunitari, romeni in primis - come si sa - godono già di questo diritto. Il vice-ministro Urso vorrebbe anche mettere un mattone nella costruzione di un Islam italiano; propone, infatti, di sottrarre l’insegnamento religioso dei bambini musulmani dall’influenza di possibili cattivi maestri per consegnarlo ad insegnanti affidabili, nelle rassicuranti mura della nostra scuola pubblica. Questo è un vagone più isolato, sia per motivi tecnici che per ragioni culturali. È difficile trovare un interlocutore unitario in un ambiente complesso e conflittuale come quello dei musulmani in Italia ed è un problema trovare oggi insegnanti adeguati. C’è poi un arroccamento difensivo da parte di una sezione del mondo cattolico. E però va detto che a simili ostacoli in alcuni Laender tedeschi una soluzione si è trovata, e che la costruzione di un Islam europeo è da tempo un’ispirazione di fondo in diversi Paesi dell’Unione. Comunque, nell’insieme, tira proprio un’aria nuova nelle politiche migratorie italiane. E non solo e non tanto per i contenuti delle proposte: si tratta, infatti, di misure ampiamente sperimentate in Europa e che, seppure con diverse sfumature, sono già state presentate in passato nel Parlamento italiano. La grossa novità sta nel modo, nell’evidente unione trasversale dei proponenti. Sta nel timing, nel momento, nel clima politico in cui cadono queste proposte. La recente politica italiana si è infatti caratterizzata per un severo contrasto dell’immigrazione irregolare. È un contrasto che prevede la classica mistura di «slittamento» e «sovrapposizione» delle frontiere. Da una parte, si fa «slittare» la nostra frontiera al di fuori dei confini, in particolare attraverso il rafforzamento degli accordi con la Libia che dovrebbero bloccare la principale rotta via mare, e lo si fa anche a rischio di ledere diritti umani. Dall’altra, si «sovrappongono» alle barriere agli ingressi le barriere ai diritti: il reato di immigrazione clandestina e di permanenza irregolare, l’attestazione di regolarità per la fruizione di servizi e diritti servono a sbarrare l’accesso a prestazioni sociali e al compimento di atti civili. E anche quando - come nel caso della sanità - la nuova legge sulla sicurezza non ha annullato il divieto per medici e operatori sanitari di denunciare i pazienti non in regola con il permesso di soggiorno, la paura diffusa opera come potente dissuasore. Insomma, mentre gli ultimi provvedimenti legislativi avevano aumentato la repressione sugli irregolari, non si profilava nessun bilanciamento a favore dei regolari. Anzi, troppe volte abbiamo ascoltato leader di maggioranza dichiarare di non volere che l’Italia diventasse un Paese multietnico, detto altrimenti, un Paese di immigrazione, quale peraltro l’Italia è già ed è destinata ad essere in futuro. Né sono mancate offese gratuite alle comunità immigrate, in particolare a quella musulmana. Ora il bilanciamento finalmente si profila, e il treno guidato dal gruppo politicamente trasversale appare instradato su un binario decisamente nuovo. C’è il rischio che si riveli un binario morto? In modo più o meno brusco, qualcuno sta già manovrando sugli scambi ferroviari, ma sarebbe un peccato per il Paese. In ogni caso, dovunque vada a finire, il nuovo treno costituisce un evento positivo. Dimostra sia che c’è una parte del centro-destra italiano che vuole essere europeo, alla Merkel e alla Sarkozy, sia che c’è una parte del centro-sinistra che non si limita a contrastare, ma che è disposto a collaborare per costruire.

Italia, il popolo dei piccoli immigrati Sono il 10% della popolazione infantile

Studio dell'Unicef sui minori nelle famiglie di stranieri in 8 Paesi ricchi Qui erano 350mila nel 2003, sono arrivati a oltre 660mila nel 2007 Affrontano sfide educative maggiori e tassi di povertà più alti dei coetanei italiani I curatori dello studio: "Le risposte politiche sono ancora inadeguate" ROMA - Il numero dei bambini stranieri in Italia è raddoppiato negli ultimi anni. Oggi rappresentano il 10% del totale complessivo della popolazione infantile. Lo rivela il rapporto "Innocenti Insight" dell'Unicef, che presenta lo studio sulla situazione dei bambini in famiglie di immigrati in otto Paesi ricchi. Rispetto agli altri, il nostro Paese rimane ancora il fanalino di coda: nel Regno Unito i bimbi stranieri rappresentano il 16%, in Francia il 17%, nei Paesi Bassi e negli Stati Uniti d'America il 22%, in Germania il 26%, in Australia il 33% e in Svizzera il 39%. I mutamenti demografici. Secondo i dati del censimento 2001, i bambini tra 0 e 17 anni presenti sul territorio italiano, ma nati all'estero o con almeno uno dei genitori nati all'estero, erano oltre 900mila. Di questi, oltre 500mila avevano almeno un genitore proveniente da un paese a medio o basso reddito. Complessivamente, i bambini rappresentavano il 23 per cento della popolazione immigrata. Nel 2006, circa 57mila nuovi nati in Italia avevano entrambi i genitori stranieri, oltre il 10 per cento delle nascite avvenute nel Paese quell'anno. ll numero di bambini che vivono in famiglie di immigrati è cresciuto rapidamente, raddoppiando negli ultimi 5 anni e quadruplicando nell'ultimo decennio. I bambini di nazionalità straniera erano poco più di 350mila nel 2003, ma oltre 660mila nel 2007. Una delle caratteristiche salienti è il vasto ventaglio dei paesi di origine delle famiglie, uno dei più ampi d'Europa. Le condizioni di vita. La situazione socioeconomica e le condizioni di vita dei bambini di famiglie immigrate in Italia sono tutt'altro che omogenee. La provenienza da un paese ad alto reddito o da un paese a medio e basso reddito è un importante fattore di differenziazione, così come la regione del mondo di origine. In media, il 92 per cento dei bambini in famiglie migranti vive con entrambi i genitori. La stessa percentuale vale per i bambini in famiglie native. Tuttavia, per alcuni gruppi (ad esempio per i figli di genitori provenienti dall'Eritrea, la Somalia, la Moldavia, l'Ecuador o il Perù) la percentuale di bambini che vive in famiglie in cui il padre è assente è di oltre il 15 per cento. Scolarizzazione e lavoro. Soltanto un quarto dei giovani tra 18 e 24 anni che vive in famiglie immigrate in Italia è impegnato in un corso di insegnamento (scuola o università), contro il 40 % dei loro coetanei italiani. I giovani che vivono nelle famiglie straniere sono più presenti nelle scuole professionali e tendono generalmente a trovarsi in una situazione di svantaggio sul mercato del lavoro. Anche i genitori provenienti da paesi di origine con flussi storici di immigrazione verso l'Italia tendono ad avere posti di lavoro meno qualificati. "Risposte politiche inadeguate". Nelle conclusioni dello specifico studio sull'Italia, curato da Letizia Mencarini dell'università di Torino, Emiliana Baldoni dell'università di Firenze e Gianpiero Dalla Zuanna dell'università di Padova, si sottolinea che "in Italia, il numero dei bambini figli di migranti è in crescita ed è destinato ad aumentare ancora negli anni a venire in termini assoluti e come proporzione della popolazione di età 0-17. I bambini in famiglie migranti rappresentano una realtà importante, variegata, con molte potenzialità e allo stesso tempo poco conosciuta". La "diagnosi" finale è poco rassicurante. "Le risposte politiche non sono ben coordinate e non riflettono una visione o un coordinamento d'insieme".

mercoledì 21 ottobre 2009

Invito al ministro Maroni a leggere questo articolo

Libia, l'avvocato Atigha: ''Migranti torturati e vittime di una cospirazione'' TRIPOLI - “I migranti sono vittime di una cospirazione tra le due rive del Mediterraneo. L’Europa vede soltanto un problema di sicurezza, nessuno vuole parlare dei loro diritti”. Anche Jumaa Atigha è un avvocato di Tripoli. Nella parete del suo ufficio è appesa una Laurea in Diritto penale dell’Università La Sapienza, di Roma, conferita nel 1983. Dal 1999 ha presieduto l’Organizzazione per i diritti umani della Fondazione guidata dal primogenito di Gheddafi, Saif al Islam. Lo scorso anno si è dimesso. Dal 2003 ha condotto una campagna che ha portato alla liberazione di mille prigionieri politici. Ci descrive un paese in rapido cambiamento, ma ancora lontano da una situazione ideale sul fronte delle libertà individuali e politiche. In Libia non c’è nessuna legge sull’asilo, ci conferma, ma in compenso una commissione si sta occupando di scrivere un nuova legge sull’immigrazione. Atigha conosce personalmente le condizioni di detenzione in Libia. Dal 1991 al 1998 è stato incarcerato, senza processo, come prigioniero politico. Ci dice che la tortura è comunemente praticata dalla polizia libica. “Dal 2003 abbiamo fatto una campagna contro la tortura nelle carceri. Abbiamo organizzato conferenze, visitato le prigioni, fatto dei corsi agli ufficiali di polizia. La mancanza di consapevolezza fa sì che la polizia pratichi la tortura pensando così di servire la giustizia”. Mustafa O. Attir la pensa allo stesso modo. Insegna sociologia all’Università El Fatah di Tripoli. “Non è un problema di razzismo. I libici sono gentili con gli stranieri. È un problema di polizia”. Attir sa quello che dice. È entrato nelle carceri libiche come ricercatore nel 1972, nel 1984 e nel 1986. Gli agenti di polizia non hanno istruzione - sostiene -, e sono educati al concetto di punizione. Le sue parole mi fanno ripensare ai parrucchieri ghanesi nella medina, ai sarti chadiani, ai negozianti sudanesi, ai camerieri egiziani, alle donne delle pulizie marocchine e agli spazzini africani che armati di scope di bambù ogni notte ripuliscono le vie dei mercati della capitale. Mentre gli eritrei si nascondono nei sobborghi di Gurji e Krimia, migliaia di immigrati africani vivono e lavorano, in condizioni di sfruttamento, ma con relativa tranquillità. Sicuramente per sudanesi e chadiani è tutto più facile. Parlano arabo e sono musulmani. La loro presenza in Libia è decennale e quindi tollerata. Lo stesso per egiziani e marocchini. Al contrario eritrei ed etiopi sono qui esclusivamente per il passaggio in Europa. Spesso non parlano arabo. Spesso sono cristiani. E i loro nonni combattevano contro i libici a fianco delle truppe coloniali italiane. E poi si sa che hanno spesso in tasca i soldi per la traversata. Per cui diventano facile mira di piccoli delinquenti e poliziotti corrotti. Per i nigeriani, e più in generale i sub-sahariani anglofoni, è ancora diverso. Che siano diretti in Europa oppure no, il loro destino in Libia si scontra sistematicamente contro il pregiudizio che si è venuto a creare contro i nigeriani, sulla scia di qualche fatto di cronaca nera. Sono accusati di portare droga, alcol e prostituzione, di essere autori di rapine e omicidi, e di diffondere il virus dell’Hiv. (gdg)

Italia scivola al 49mo posto nella classifica sulla libertà di stampa

PARIGI - L'Italia continua a perdere posti nella classifica di Reporter senza frontiere per la libertà di stampa: quest'anno l'organizzazione la piazza al 49/mo posto, era al 44/mo nel 2008 e al 35/mo nel 2007. Secondo RSF - si legge sul rapporto- a "giustificare" questo continuo regresso sono "lepressioni esercitate dal Cavaliere ed il suo asprointerventismo, le violenze della mafia nei confronti deigiornalisti, oltre che un progetto di legge che limitadrasticamente le intercettazioni da parte della stampa". "Siamo molto preoccupati per la situazione della libertà distampa in Italia", ha commentato Jean-Francois Julliard,segretario dell'organizzazione, intervistato dall'ANSA. "E' incorso una vera deriva - ha aggiunto - legata innanzitutto alconflitto di interessi del capo del governo. In particolarel'elemento nuovo registrato quest'anno è l'atteggiamentoaggressivo di Silvio Berlusconi nei confronti dei media". In testa alla classifica figurano Danimarca, Finlandia eIrlanda. In fondo alla lista, per il terzo anno consecutivo, al173/o, 174/o e 175/o posto, si piazzano Turkmenistan, Corea delNord e Eritrea. Gli Stati Uniti di Barack Obama entrano fra iprimi 20 (erano al 40/o posto l'anno scorso). In tre anni l'Italia perde quattordici posizioni e dal 35/o posto del 2007 scivola quest'anno al 49/o. E mentre gli Stati Uniti, nell'anno di Barack Obama alla Casa Bianca, guadagnano 20 posizioni rispetto all'anno scorso (dal 40/o al 20/o posto), Israele è in caduta libera (perde 47 posizioni e precipita al 93/o posto) e l'Iran si ritrova addirittura al quart'ultimo posto (172/o), avanti solamente al "trio infernale" Eritrea, Corea del Nord e Turkmenistan. I dati di Rsf sono accompagnati da un rapporto pubblicato oggi a Parigi. Il Paese che gode di maggiore libertà di stampa - secondo i dati raccolti - è la Danimarca, seguita da Finlandia e Irlanda. Ma anche se le prime tredici caselle della classifica sono occupate da paesi europei, alcuni - come Francia (43/esima), Slovacchia (44/esima) e Italia - "proseguono la loro caduta". "E' inquietante vedere come democrazie europee come Francia, Italia e Slovacchia perdano progressivamente posizioni in classifica anno dopo anno", ha commentato il segretario generale di Reporter senza Frontiere Jean-Francois Julliard. Per quanto riguarda l'Italia, si legge nel rapporto, "le vessazioni di Berlusconi nei confronti dei media, le ingerenze crescenti, le violenze della mafia contro i giornalisti che si occupano di criminalità organizzata, e una proposta di legge che ridurrebbe drasticamente la possibilità dei media di pubblicare intercettazioni telefoniche spiegano il perché l'Italia perda posizioni per il secondo anno consecutivo". Ad ogni modo, si fa notare, né la Francia, né la Spagna (44/o posto) "hanno fatto molto meglio".

martedì 20 ottobre 2009

Parole che non corispondono alla Verità.

Il ministro Maroni che afferma che in Libia ce il rispetto dei diritti umani, per giustificare il comportamento dell'italia che stringe accordi con un dittatore che sta al potere da 40 anni. Il ministro offende tutte quelle persone che sono state maltrattate in Libia. Le parole del ministro sono smentite dalle tante tesstimoninze documentate da diversi enti morali, giornalisti, associazioni. Il fatto che in Libia vìge un regime dittatoriale e un chiare segnale della totale assenza di libertà e diritti di un popolo. L'Italia di oggi però non riesce a distinguere una democrazia da una dittatura. L'unico capo di governo Europeo presnte a festegiare i 40 anni di dittatura in Liabia, segno che i diritti vangono molto meno degli affari. "Maroni: in Libia diritti umani garantiti 'La Libia garantisce i diritti umani' agli immigrati clandestini. Lo ha sostenuto il ministro dell'interno, Roberto Maroni, intervenendo ad un convegno sulla sicurezza urbana a Sacile, in provincia di Pordenone. Maroni, dopo aver ricordato che in base agli accordi con la Libia ci sono stati solo 1800 tentativi d'ingresso nel nostro Paese, dal 1' maggio al 30 settembre, contro i 18.800 dello stesso periodo dell'anno scorso, ha aggiunto che e' giusto occuparsi dei diritti umani dei circa 16 mila immigrati oggi parcheggiati sulle coste libiche (compresi gli 850 quelli respinti dall'Italia, in acque internazionali), ma che lo deve fare la comunita' internazionale, dall'Ue all'Onu, e non solo il nostro paese. 'Non possiamo farlo, si obietta, perche' la Libia non garantisce i diritti umani'. Ma questo non e' vero, secondo il titolare del Viminale. 'Io sono stato alcune volte in Libia - ha raccontato Maroni - e una volta ho temuto per la mia incolumita', quando un giorno entrando nel ministero dell'Interno, sono rimasto bloccato per 45 minuti nell'ascensore e ho pensato che qualcuno volesse... Quando sono uscito, il ministro libico mi ha addirittura preso in giro dicendomi che l'ascensore era di fabbricazione italiana. In Libia ho visitato i campi dove vengono trattenuti i clandestini e li ho visti anche in altri paesi europei e se devo essere sincero, non mi e' sembrato che i campi libici siano meno attrezzati di quelli di alcuni paesi europei'. Maroni ha fatto presente che 'questa obbiezione cade quando si scopre non solo che la Libia fa parte delle Nazioni Unite ma addirittura che l'attuale Presidente dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite e' un ambasciatore libico. Come si fa, quindi, ad affermare che la Libia non rispetta i diritti umani e nello stesso tempo accettare un rappresentante di questo Paese come presidente dell'assemblea che deve garantire questi diritti?'. L'accordo con la Libia, ha concluso Maroni, ha consentito una riduzione del 90% dell'immigrazione clandestina."

lunedì 19 ottobre 2009

Azeb, in Etiopia bambina soldato A Bologna imprenditrice

Nata ad Adua 41 anni fa, è fuggita dalla guerra civile e ha fondato una piccola azienda. A lei il premio Impresa ed etica Da bambina-soldato nei campi di battaglia dell'Etiopia a imprenditrice in terra bolognese. È la storia di Azeb Gebrewahid, una traiettoria di determinazione e successo su cui il 27 settembre scorso, al Ravello Festival 2009, si è messo una sorta di sigillo, assegnando alla sua protagonista il premio Etica e impresa, dal tema «Necessità del coraggio individuale». Azeb Gebrewahid ha 41 anni, ma gli ultimi ventuno li ha trascorsi in Italia, lasciando alle spalle un passato di guerra civile e di pericoli scampati. Nata ad Adua il 3 gennaio 1968, viene strappata alla famiglia e arrestata con l'accusa di collaborazionismo con i fratelli, arruolati nel movimento di liberazione. A dodici anni si arruola anche lei nel Tigrayan people Liberation Front, per combattere contro la dittatura di Mengustu. Sette anni come guerrigliera, ma senza perdere la fiducia verso un futuro diverso da quel presente fatto di bombe e morte: mentre combatte, trova anche il tempo per studiare sotto gli alberi. Nell'84, proprio durante un bombardamento, per Azeb le cose cominciano a cambiare. Ferita alla testa da una scheggia, subisce gravi danni all'udito. Viene operata solo tre anni dopo, in Sudan, dagli uomini e le donne di Medici Senza Frontiere. LA FUGA DALLA GUERRA - Poi l'immigrazione in Svizzera, fino all'arrivo in Italia. E' il 1988. «Quando sono arrivata non avevo niente, sono stata aiutata in tutto da gente comune», ha spiegato Azeb, che ha trovato nel nostro paese una solidarietà inaspettata. E che le fa dire che «gli italiani sono accoglienti, non sono razzisti, ma alcune persone e le istituzioni spesso non si rendono conto del cambiamento che implica la multiculturalità e la globalizzazione». Lo status di rifugiata le viene concesso soltanto nel '90. In Italia trova aiuto nella Chiesa, nei gruppi di volontariato, nella stessa Cna e in una vecchia amica della madre a cui deve il trasferimento da Roma a Bologna. Sotto le Due Torri, Azeb lavora come badande e come babysitter. Poi diventa dipendente in un'impresa di pulizie, fino a che non decide di mettersi proprio. L'IMPRESA - Ed ecco che la bambina-soldato si trasforma, con il passare degli anni, in un'imprenditrice capace. Azeb è a capo di una piccola impresa multietnica (ci lavorano un'italiana, un'etiope e una peruviana), e adesso fa parte del direttivo di Cna. «Lei vede come arricchimento - sottolinea l'associazione - l'apporto delle diverse idee e capacità culturali». Un percorso che arriva fino a questo premio Etica e impresa. Un riconoscimento destinato a donne e uomini autori di scelte importanti e coraggiose. Persone come Azeb, un esempio da seguire per arrivare, un giorno, all'affermazione di un'etica diffusa. 08 ottobre 2009

La problematica dei rifugiati e dei diritti loro spettanti sul piano internazionale

Sanremo - Ha preso avvio stamane presso l’Istituto Internazionale di Diritto Umanitario nella sua sede di Villa Ormond a Sanremo La problematica dei rifugiati e dei diritti loro spettanti sul piano internazionale è al centro di un corso di alto livello che ha preso avvio stamane presso l’Istituto Internazionale di Diritto Umanitario nella sua sede di Villa Ormond. Coordinatore del Corso è il Prof. Marco Odello. Originario di Sanremo, dopo alcuni anni dedicati all’insegnamento in varie Università in Europa ed in Sud America è attualmente Professore di Diritto Internazionale presso l’Università di Aberystwith in Galles. Al corso partecipano circa 50 esperti, funzionari governativi, consiglieri giuridici, avvocati, provenienti da oltre 40 differenti paesi, la cui attività primaria è quella di fornire consulenza ed avvisi ai governi ed ai richiedenti asilo. Nell’indirizzo di apertura il Presidente dell’Istituto, Ambasciatore Maurizio Moreno, ha sottolineato la crescente preoccupazione della comunità internazionale per un fenomeno – quello dei rifugiati – reso quanto mai attuale da una società globalizzata. Si calcola che l’attuale numero di rifugiati nel mondo supera gli 11 milioni. di Manuela Consonni 19/10/2009

Immigrati, ecco la legge bipartisan "Voto a chi vive in Italia da 5 anni"

Elettorato attivo alle amministrative ai cittadini stranieri lungo-residenti La proposta firmata da deputati di Pd, Pdl, Udc e Idv. La Lega: "Non se ne parla" I radicali: "Estendere la sanatoria a chi lavora al di fuori del settore domestico" ROMA - E' stato depositato oggi alla Camera un progetto di legge che ha come primi firmatari deputati di maggioranza e di opposizione per riconosce il diritto di voto per le elezioni amministrative ai cittadini extracomunitari regolarmente residenti in Italia da almeno cinque anni. Il voto agli immigrati più stabili - Primi firmatari della proposta di legge bipartisan sono Walter Veltroni (Pd), Flavia Perina (Pdl), Roberto Rao (Udc), Leoluca Orlando (IdV), Salvatore Vassallo (Pd). Nei prossimi giorni saranno raccolte nuove adesioni e il progetto sarà presentato pubblicamente in attesa di sollecitarne la calendarizzazione nei lavori della Camera: "L'approvazione del testo - si legge intanto in una nota dei promotori - costituirebbe un primo passo concreto per promuovere l'integrazione di persone che in molti casi già partecipano pienamente alla vita civile delle comunità locali in cui risiedono, sono rispettose delle relative consuetudini, lavorano con dedizione, pagano le tasse, hanno figli che vanno a scuola con i bambini italiani, condividono con i cittadini italiani le stesse esigenze e gli stessi problemi connessi alla fruizione dei servizi pubblici". Il no immediato della Lega - La presentazione congiunta del progetto da parte di esponenti di diversi gruppi dimostra, secondo i promotori, che "su questi temi è possibile, oltre che necessario, un confronto tra tutte le forze politiche nazionali". La proposta di legge rischia di diventare un problema per la maggioranza parlamentare. Da parte della Lega, infatti, è arrivato un immediato stop: "La Lega Nord - dice Luciano Dussin, vicepresidedente vicario del gruppo leghista alla Camera - non si presterà a giocare partite truccate come queste, perchè rispettosa da sempre dei programmi elettorali che ha sottoscritto con il proprio elettorato". Secondo Dussin, i firmatari della proposta di legge "un effetto lo hanno già ottenuto": "E' quello - dice Dussin - di dimostrarsi sempre più lontani dalle esigenze reali del Paese". Diritti per i figli dei migranti - Sempre oggi, è stata depositata alla Camera la proposta di legge, a firma della deputata pd Luisa Bossa, per estendere i diritti degli stranieri regolarmente soggiornanti in Italia con carta di soggiorno anche ai loro figli maggiorenni. "La mia proposta di legge - dice Bossa - ha come obiettivo quello di sanare una odiosa discriminazione della nostra legislazione. I figli degli stranieri in possesso della Carta di soggiorno, al compimento del diciottesimo anno d'età, vedono ristretti i loro diritti e potrebbero scivolare nella clandestinità. Questi ragazzi - sottolinea Bossa - hanno passato gran parte della loro vita in Italia, hanno studiato qui, ma al compimento dei diciotto anni perdono alcuni diritti collegati allo status dei genitori" e se non studiano o non trovano un lavoro rischiano di diventare clandestini. Sanatoria non solo per badanti - Un'altra proposta in tema di immigrazione è stata presentata dal Partito radicale nel corso di un presidio con oltre tremila immigrati organizzato a Roma per chiedere una sanatoria per tutti gli immigrati che hanno un lavoro e che sono rimasti esclusi dalla regolarizzazione per il lavoro domestico: "Abbiamo proposto una legge - ha detto Emma Bonino, vicepresidente del Senato -, firmata sia dalla destra che dalla sinistra, per regolarizzare chiunque abbia un lavoro. Non è lo Stato che deve decidere se legalizzare chi fa un mestiere o no. L'impegno è che la legge venga calendarizzata. Non sarà facile, perchè questo è un periodo in cui non prevale la ragione ma altro, come i calcoli elettorali". Per favorire l'approdo in aula della proposta, i radicali chiedono un incontro con il presidente della Camera, Gianfranco Fini.

sabato 17 ottobre 2009

IMMIGRATI: FAREFUTURO, CITTADINANZA E PIU' RISPETTO PER RIFUGIATI

(ASCA) - Asolo, 16 ott - Diritto di cittadinanza piu' veloce, piu' rispetto per i richiedenti asilo anche nel momento dei respingimenti. A tornare a parlare di immigrazione ed a chiedere al Governo nuove politiche migratorie e' la fondazione ''Farefuturo'' che ha aperto questa mattina ad Asolo il workshop ''Le nuove politiche per l'immigrazione. Sfide e opportunita''', secondo appuntamento dei ''Dialoghi Asolani'', incontro annuale di ''dialogo bipartisan'' tra le fondazioni 'Farefuturo' e 'Italianieuropei' su grandi temi di interesse nazionale. A definire l'immigrazione ''una grande sfida'' per tutta l'Italia e' stato Andrea Peruzy, segretario generale di 'Italianieuropei', anche perche' ''l'immigrazione, come dice monsignor Angelo Scola, - ha citato Peruzy - e' uno di quegli accadimenti che non chiedono il permesso per accadere e' che quindi e' un evento assolutamente contemporaneo, della nostra civilta', della nostra societa', non arginabile e quindi va trattato nella sua complessita'''. Adolfo Urso, segretario generale di 'Farefuturo', ha suggerito, invece, di ''dare cittadinanza a chi nasce in Italia alla fine delle scuole elementari, oppure dopo cinque anni di residenza regolare a chi dimostra di conoscere la lingua italiana e di condividere i valori e i diritti costituzionalmente garantiti''. ''Il governo - ha poi affermato - ha operato bene nel contrasto all'immigrazione clandestina ma nei respingimenti occorre garantire il rispetto dei diritti dei rifugiati, di quello comunitario e di quello internazionale. Occorre - ha detto - distinguere l'illegalita' di accesso dall'illegalita' di permanenza: un conto e' infatti definire illegale chi entra nei confini di uno Stato in aperta violazione delle norme nazionali. Altro e' la condivisione di chi, venuto in possesso dei requisiti legali, abbia perso lo status di legalita' per motivazioni spesso a lui non imputabili''.

Corteo a Roma contro il razzismo Gli organizzatori: «Siamo in 200mila»

Da tutta Italia per protestare contro la xenofobia e le politiche del governo sulla sicurezza e sul lavoro ROMA (17 ottobre) - Erano 200mila secondo gli organizzatori i partecipanti alla manifestazione di Roma contro il razzismo, l'omofobia, la xenofobia e tutte le forme di discriminazione, nonché contro le politiche del governo in materia di sicurezza e immigrazione. Il corteo è partito alle 14,30 da piazza della Repubblica per arrivare a Bocca della Verità, dove è stato allestito un palco. Tra gli interventi, quello del presidente dell'Arcigay, Aurelio Mancuso, della direttrice de L'Unità Concita De Gregorio e di Moni Ovadia («A Roma molti gruppi di estrema destra - dice il regista e attore - per il fatto che la destra governi, si sentono legittimati in comportamenti che altri governi della città non avrebbero consentito. Con questo non dico che l'amministrazione solleciti la violenza. Da Alemanno è arrivata solidarietà per i recenti episodi di violenza, ma lui è in una formazione politica che ha componenti intolleranti e xenofobe. Uno dei pochi a prendere autentiche distanze è Fini»). Presenti diversi esponenti delle forze politiche di sinistra, tra cui il segretario del Pd Dario Franceschini, il segretario di Rifondazione Comunista Paolo Ferrero e quello di Sinistra e Libertà Nichi Vendola, oltre al segretario della Cgil Gugliemo Epifani e al leader radicale Marco Pannella che ha chiesto «modifiche sostanziali alle nuove disposizioni in materia di immigrazione». La manifestazione, cui hanno aderito oltre 500 organizzazioni tra cui Arci, Emergency e Amnesty International, è stata organizzata da un comitato che comprende sindacati, comunità di stranieri in Italia, Ong, artisti e intellettuali, ed è giunta alla ventesima edizione dopo il primo corteo antirazzista del 1989, organizzato per l'uccisione dell'immigrato senegalese Gerry Masslo. Molti gli striscioni contro le politiche del governo in materia di sicurezza e di immigrazione: tra questi un cartello attaccato a un piccolo gommone con scritto "Maroni sui gommoni", e ancora "Tutti sulla stessa barca", "I rifiuti tossici non hanno confine, gli esseri umani sono clandestini" e "Cristo è qui, quando ci sarà tutta la Chiesa?". Più della metà dei partecipanti erano immigrati con il problema anche del lavoro: «Sono in mobilità da un anno - ha spiegato Zie della Costa d'Avorio con una bandiera della Fiom Cgil di Como - sono un metalmeccanico. Ho paura che quando finirà la mobilità sarò licenziato e quindi non avrò più il permesso di soggiorno. Ho moglie e 4 figli e non so veramente che fare». C'è anche chi il lavoro lo ha cercato ma non lo ha trovato. «Sono un saldatore ma non riesco a trovare un impiego - ha detto Abdullah del Senegal abitante a Venezia - non ho neppure il permesso di soggiorno ed anche per questo vengo discriminato». Aisi Fidel del Ghana vive a Napoli da 2 anni e non ha né famiglia né lavoro. «In compenso ho ricevuto diverse minacce razziste» - dice. Lo spezzone del corteo degli africani di Caserta è uno dei più grandi. «Siamo più tranquilli rispetto all'anno scorso quando ci fu la strage dei nostri fratelli - ha detto Wassan, della Liberia - a Caserta con più polizia che controlla la camorra si è calmata. Ma il lavoro è sempre difficile. Ci alziamo alle 4 di mattino per fare i muratori, abitiamo in casa dove paghiamo 350 euro per letto, siamo 4 per ogni stanza». Harid è un marocchino e vive a Modena. «Sono un metalmeccanico, ho 2 bambini e una moglie - dice - vivo in Italia dal 1992, mi sento quasi italiano perciò quando sento certi discorsi nell'ufficio della mia fabbrica dove parlano di maggiori diritti per gli italiani e minori per gli stranieri mi si stringe il cuore». Ai lati del corteo molti i passanti e curiosi. «Sono troppi questi immigrati - dice un gruppo di anziani a piazza Vittorio - chi non ha lavoro se ne deve tornare a casa». «Ormai negri siamo diventati noi» - aggiunge un altro. A via Merulana un gruppo di persone osserva la sfilata. «Fanno bene a manifestare però tutti non possiamo accoglierli - dice un uomo. Con lui una donna di Santo Domingo. »è vero, in Italia c'è un certo razzismo - dice - ma io condivido il pacchetto sicurezza perché la sera quando torno a casa ho paura anch'io». «Rubano, stuprano, la maggior parte di loro sono delinquenti», taglia corto un'anziana all'angolo di via Labicana. Diverso il parere di una turista bolognese al Colosseo: «L'intolleranza che stiamo vivendo sembra la stessa degli anni 50 tra nord e sud - dice - penso che tra 20 anni questa generazione di immigrati si sarà integrata. Anche se ogni tanto scoppiano tensioni la storia alla fine prende sempre il suo corso».

venerdì 16 ottobre 2009

EMILIA ROMAGNA: DA PD RISOLUZIONE DI CONDANNA REGIME ERITREO

Bologna, 13 ott. - (Adnkronos) - E' firmata dal consigliere regionale del Pd Matteo Richetti la risoluzione presentata all'assemblea legislativa dell'Emilia Romagna nella quale si invita la giunta a verificare la situazione dell'Eritrea affinche' siano garantiti i principi fondamentali di democrazia e liberta'. Nel documento, il consigliere invita anche a verificare quale sia attualmente l'area e le modalita' di intervento umanitario nel Paese da parte della Regione Emilia Romagna e delle organizzazioni di volontariato del territorio. Non solo. Richetti chiede anche alla giunta di adoperarsi per invitare gli enti locali, la comunita' internazionale e, in particolare, l'Unione Europea e l'Italia ad una condanna congiunta del regime dittatoriale Eritreo e a fornire l'adeguata assistenza umanitaria e di emergenza, al fine di aiutare concretamente la popolazione a uscire dalle terribili condizioni di sopravvivenza in cui versano i rifugiati.

martedì 13 ottobre 2009

A piedi dalla Sicilia a Roma:

COMUNICATO A piedi dalla Sicilia a Roma: la Marcia della Speranza per i Diritti dei Migranti La marcia ha la speranza di cambiare la situazione dell'immigrazione nel nostro paese, e in particolare chiede la fine immediata dei respingimenti, la messa in discussione degli accordi con la Libia, la regolarizzazione di tutti i lavoratori. Partiti da Siracusa, i marciatori sono arrivati a Napoli, venerdì 8 ottobre 2009 ed hanno iniziato il digiuno. Arriveranno a Latina mercoledì 14 ottobre, al sesto giorno di digiuno, per poi continuare la marcia che terminerà a Roma il 17 ottobre 2009. A Roma si uniranno alla grande Manifestazione Nazionale Antirazzista, continuando il digiuno ad oltranza in piazza SS. Apostoli. Il prossimo appuntamento per incontrarli, abbracciarli e sostenerli in un momento di solidarietà e condivisione è Latina - Piazza del Popolo - ore 17.30 Per informazioni contattare: Nicola 3384571556 (lazarus-om@libero.it) Dania 3343843669 (asper@tim.it) --------------------------------------------------------------------------------------------- ASPER Associazione per la tutela dei Diritti Umani del Popolo Eritreo www.asper-eritrea.com e-mail: asper@tim.it tel. (Italia): 0039-3343843669 (Germania): 0049-1761600287

mercoledì 7 ottobre 2009

Africa, Papa: il colonialismo mai concluso del tutto

CITTA' DEL VATICANO (Reuters) - Il colonialismo in Africa non si è mai concluso del tutto. Lo ha detto oggi Papa Benedetto XVI, all'apertura del Secondo sinodo speciale dei vescovi dell'Africa. "Il colonialismo, finito sul piano politico, non è mai del tutto terminato", ha detto il Pontefice nella sua omelia. Benedetto XVI ha segnalato "almeno due pericolose patologie" che starebbero "intaccando" il continente africano: "Anzitutto, una malattia già diffusa nel mondo occidentale, il materialismo pratico, combinato con il pensiero relativista e nichilista... il cosiddetto 'primo' mondo ha talora esportato e sta esportando tossici rifiuti spirituali, che contagiano le popolazioni di altri continenti, tra cui in particolare quelle africane". Il secondo "virus" è il "fondamentalismo religioso, mischiato con interessi politici ed economici", ha aggiunto il Papa durante la celebrazione eucaristica.

Opinioni del giorno: Litizzetto è Comunione o Liberazione Pubblicato da Paolo De Gregorio

-Luciana Litizzetto, nota per fare i soldi con l’anticlericalismo da strapazzo, alternato alle ossessive battute e allusioni sulla lunghezza del pene, dimostra la sua femminile coerenza iscrivendo il figlio dodicenne al prestigioso istituto privato salesiano Valselice sulla collina torinese, dopo averlo ritirato dalla scuola pubblica Foscolo. Frequentando il “pretino” Fazio, maestro nel fare miliardi con l’equilibrismo e dando ragione a tutti, si è convinta che è meglio predicare bene e razzolare male. Mi ricorda il signor Veltroni, che fino a ieri aveva l’impudenza di rappresentare la “sinistra sparita” (pur avendo dichiarato di non essere mai stato comunista), che volava a New York per acquistare una casa per la figlia a Manhattan, dopo essersela comprata lui a Roma ai Parioli. E poi gli operai votano Lega, chissà perché? -Un altro episodio di cristallina coerenza emerge da quel misterioso sottobosco dell’intreccio fra affari e politica, dove è protagonista “comunione e liberazione”, che utilizza la sua facciata di organizzazione cattolica per inserirsi in affari a dir poco loschi. La questione riguarda l’Eritrea, paese sotto dittatura militare, presidente dal 1993 Isaias Afewerki, specialista in atrocità verso gli oppositori, oggi in ottimi rapporti con il governo Berlusconi, che sta preparando il terreno allo sbarco in Eritrea di industriali del Nord, attirati dal costo della manodopera quasi a zero, visto che in questo paese si utilizzano i lavori forzati, e dal fatto che vi sono molti chilometri di spiagge incantevoli sul Mar Rosso dove si pensa di fare villaggi turistici. Strana la politica: in Afghanistan l’Italia ci sta per rafforzare la democrazia. In Eritrea fa programmi per rafforzare la dittatura. Ma veniamo a “comunione e liberazione”, che la gente normale pensa sia una organizzazione di carattere religioso e sensibile ai diritti umani. A Milano, il 9 luglio, avviene un incontro tra un responsabile politico eritreo inviato dal dittatore, e Robi Ronza, fondatore di “comunione e liberazione”, praticamente il ministro degli esteri del governatore della Lombardia, Formigoni (anche esso di “comunione e liberazione”), con il mandato di trattare sulla prospettiva di investimenti delle imprese lombarde nel paese, dove peraltro già operano diversi industriali italiani. Qualcuno mi dovrebbe spiegare a che serve una identità religiosa se poi, di fronte agli affari, i valori di riferimento si sciolgono all’istante, come neve al sole, e prevale il nuovo colonialismo che ha bisogno proprio di questi dittatori, apertissimi alla corruzione di noi occidentali che gli riempiamo i conti segreti in Svizzera, per ottenere concessioni, licenze, insediamenti turistici e industriali. Ricordiamo che Formigoni milita nel partito di Berlusconi e “comunione e liberazione” è una organizzazione che fiancheggia sempre la destra, ed egli come capo della regione Lombardia rappresenta il potere reale più forte che vi sia in Italia.

Cap Anamur, la sentenza dopo 5 anni tutti assolti gli ufficiali della nave

Protagonisti di un estenuante braccio di ferro diplomatico nel giugno 2004 Salvarono 37 sudanesi alla deriva, furono accusati di favorire l'immigrazione clandestina AGRIGENTO - Tutti assolti i tre imputati per la vicenda della Cap Anamur, la nave dell'omonima associazione umanitaria tedesca che nell'estate del 2004 fu al centro di roventi polemiche dopo aver salvato 37 immigrati nel Canale di Sicilia. Il presidente dell'associazione umanitaria Elias Bierdel, il comandante della nave Stefan Schimdt e il primo ufficiale Vladimir Dachkevitce erano accusati di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. La Cap Anamur fu al centro di un estenuante braccio di ferro diplomatico tra l'Italia, Malta e la Germania che andò avanti per tre settimane. Una vicenda che ebbe una larga eco nell'opinione pubblica e con uno strascico giudiziario sfociato oggi, davanti al tribunale di Agrigento, nell'assoluzione in primo grado dei tre imputati. La vicenda risale al luglio del 2004, quando la nave dell'organizzazione umanitaria prese a bordo 37 naufraghi sudanesi originari del Darfur che erano a bordo di un gommone alla deriva tra la Libia e Lampedusa. La nave non fu autorizzata all'attracco né a Lampedusa né a Porto Empedocle perché il governo italiano contestava alla Cap Anamur di essere entrata in acque maltesi e sollecitava il trasferimento degli immigrati a Malta. Inoltre delegava alla Germania la responsabilità dei profughi, essendo la nave di nazionalità tedesca. Dopo estenuanti trattative, la nave decise di forzare il blocco, dichiarando lo stato di emergenza sanitaria, e finalmente venne concessa l'autorizzazione a entrare nel porto empedoclino. Ma, al momento dello sbarco, il comandante, il primo ufficiale e il presidente dell'associazione furono arrestati con l'accusa di favoreggiamento aggravato dell'immigrazione clandestina e rilasciati pochi giorni dopo. I tre imputati hanno sempre detto che i naufraghi furono soccorsi in acque internazionali. Secondo le autorità italiane la Cap Anamur rifiutò di permettere il trasbordo dei naufraghi sulle motovedette italiane. Il Pm aveva chiesto la condanna a quattro anni di reclusione e 400 mila euro di multa per Bierdel e Schimdt, mentre aveva chiesto l'assoluzione per Dachkevitce. Oggi i tre sono stati prosciolti da ogni accusa perché il fatto non costituisce reato. "Questa sentenza è importante per tutti quelli che fanno del bene" ha commentato il comandante Stefan Schimdt. "L'unico rammarico è che col denaro speso per seguire il processo per cinque anni si poteva fare del bene alla gente e risolvere tante emergenze legate al fenomeno dell'immigrazione clandestina".

Premio Sacharov 2009, i tre finalisti

Diritti umani - 07-10-2009 - 13:06 Il ginecologo palestinese Izzeldin Abuelaish, lo scrittore eritreo Dawit Isaak, in carcere dal 2001, e Lyudmila Alexeyeva, Oleg Orlov e Sergei Kovalev a nome dell'ONG MEMORIAL e tutti gli altri difensori dei diritti umani in Russia. Sono i tre finalisti del Premio Sacharov 2009, il riconoscimento europeo per chi lotta a difesa dei diritti umani e della democrazia nel mondo. Il vincitore sarà scelto a fine ottobre. I tre finalisti sono stati scelti in una riunione congiunta delle Commissioni Affari esteri e Sviluppo del Parlamento ieri pomeriggio fra una rosa di dieci nomi, fra cui c'era anche quello di Roberto Saviano, che è stato escluso. Ecco i profili dei tre candidati: Il Dottor Izzeldin Abuelaish – Ginecologo e ostetrico di Gaza, lavorava dai due lati della frontiera, curando sia pazienti israeliane che palestinesi e credendo sempre nella pace fra i due popoli. Durante la guerra di Gaza, nel gennaio 2009 in un raid israeliano un missile ha colpito la sua abitazione, uccidendo le sue tre figlie. L'immagine del medico disperato dopo la morte delle tre ragazzine ha fatto il giro del mondo. In loro memoria il Dottor Abuelaish vuole costituire una fondazione con lo scopo di migliorare l'educazione femminile a Gaza e in tutto il mondo. Nonostante la sua tragedia familiare, il Dottor Izzeldin Abuelaish continua a lottare per la pace fra Israele e la Palestina, costruendo ponti fra le due comunità logorate dalla guerra e dalla violenza. Dawit Isaak – Giornalista, scrittore e sceneggiatore svedese di origine eritrea, Isaac è in prigione dal 2001. E' stato arrestato insieme ad altri nove giornalisti e quindici politici dell'opposizione, accusati di tradimento per aver chiesto riforme democratiche e un'indagine indipendente sulla guerra fra Eritrea e Etiopia. I giornalisti sono anche accusati di aver ricevuto finanziamenti dall'estero, un crimine secondo la legge eritrea. In una risoluzione di gennaio, il Parlamento europeo ha espresso "grave preoccupazione per la perdurante detenzione del giornalista svedese-eritreo Dawit Isaak che dal suo arresto, avvenuto nel settembre 2001, si trova in carcere senza essere stato sottoposto a un processo, e ne chiede l'immediato rilascio, insieme agli altri giornalisti incarcerati". Lyudmila Alexeyeva, Oleg Orlov and Sergei Kovalev a nome di MEMORIAL e di tutti i difensori dei diritti umani in Russia- L'organizzazione Memorial, il cui fondatore fu Andrei Sacharov, promuove i diritti fondamentali nei Paesi dell'ex-Unione sovietica, come l'Azerbaigian, l'Armenia, la Georgia, il Tagikistan, la Moldavia e l'Ucraina. Originariamente Memorial è stata creata per costruire un memoriale alle vittime dello stalinismo alla fine degli anni '80, ma è poi diventata un'organizzazione di spicco nella difesa dei diritti umani. Apparteneva a Memorial anche Natalia Estemirova, l'attivista uccisa in Cecenia in luglio. Nella giustificazione della candidatura i parlamentari spiegano che "Memorial promuove la verità sulle repressioni politiche e lotta contro le violazioni dei diritti umani nell'ex-Unione sovietica, per garantire a quei Paesi un futuro democratico." Il vincitore scelto a fine ottobre I leader dei sette gruppi politici del Parlamento si riuniranno il 22 ottobre per scegliere il vincitore finale. Il premio sarà consegnato il 16 dicembre a Strasburgo: oltre al titolo, una somma di 50.000 €. Il premio Sacharov Dal 1988 il Parlamento europeo attribuisce a una persona o un'organizzazione che lotta per i diritti umani un riconoscimento intitolato al celebre scienziato russo, dissidente politico e Premio Nobel per la pace Andrei Sacharov. Quest'edizione del premio cade a 20 anni dalla sua morte.

In fuga dall’Eritrea, lo Stato prigione

Libertà oppresse, Chiese sottomesse o perseguitate, obblighi di leva senza fine. Ecco perché tutti cercano di scappare dall’Urss africana Fra i temi dell’assemblea speciale del Sinodo per l’Africa che si è aperto domenica scorsa c’è anche il servizio che la Chiesa cattolica può rendere alla giustizia nel continente. Su questo punto ai padri sinodali il lavoro non mancherà certo: dalle violenze nella regione dei Grandi Laghi agli orrori della Somalia, del Darfur e della Guinea, dalla voracità delle élite predatorie di tanti paesi alla condizione ovunque subordinata della donna, in Africa le ingiustizie politiche e sociali abbondano. C’è però un caso che meriterebbe di essere considerato con speciale attenzione ma rischia di passare in secondo piano perché riguarda un piccolo stato: è quello dell’Eritrea. Paese che in materia di ingiustizia politica e diritti violati colleziona una serie di record. È l’ultimo nella classifica mondiale della libertà di stampa e comunicazione, dietro a Corea del Nord, Turkmenistan, Birmania e Cuba. Dal giorno della sua nascita (nel 1993) è governato da un partito unico che non ha permesso che entrasse mai in vigore la Costituzione, piuttosto garantista, redatta poco dopo, né che mai si tenessero elezioni politiche dopo il referendum per l’indipendenza. In rapporto al numero degli abitanti (4 milioni scarsi di persone), l’Eritrea è il paese col maggior numero di coscritti nell’esercito (400 mila circa, cioè il 10 per cento dei cittadini, in parte destinati ai lavori forzati e a varie forme di lavoro non pagato) e col maggior numero di prigionieri di coscienza: calcolando anche i numerosi disertori dell’esercito che cercano di sfuggire l’attuale ferma illimitata, il totale sarebbe di 40 mila circa secondo Christian Solidarity Worldwide e Human Rights Watch, cioè l’1 per cento della popolazione. Ma oltre a tutto questo, l’Eritrea è anche il paese africano col maggior numero di cristiani incarcerati esclusivamente a causa della pratica della loro fede (fra i 2 e i 3 mila a seconda delle fonti), e dove il governo controlla pienamente le due principali confessioni (il cristianesimo copto ortodosso e l’islam) essendosi pesantemente ingerito nella nomina delle gerarchie religiose. Ora, il Sinodo di Roma è Sinodo della Chiesa cattolica, alla quale in Eritrea aderisce il 4 per cento appena degli abitanti, mentre i cristiani incarcerati e torturati per la loro fede sono nella quasi totalità protestanti evangelici (tranne i luterani storici, anch’essi normalizzati) e pentecostali, e la Chiesa i cui vertici sono stati manipolati dal potere è quella copto ortodossa; però bisogna anche dire che la piccola Chiesa cattolica eritrea ha coraggiosamente preso le distanze dai provvedimenti del governo che sono sfociati nella persecuzione dei protestanti e nell’irregimentazione dei copti ortodossi e dei musulmani, e che per questa e altre ragioni oggi essa stessa è l’oggetto di pressioni e di tentativi di annientamento. E inoltre nessun buon cattolico potrebbe mai assistere inerte allo spettacolo attualmente in corso in Eritrea: cristiani imprigionati e torturati per costringerli ad abiurare la propria fede e aderire a un’altra, in questo caso quella della Chiesa copta ortodossa irregimentata. Perché questo è ciò che sta succedendo in questi giorni nell’ex prima colonia italiana in Africa: cristiani evangelici e pentecostali vengono detenuti in prigioni sotterranee o in container esposti al sole, legati o ammanettati braccia e gambe dietro la schiena e faccia a terra, picchiati a sangue, privati di cibo e cure mediche, il tutto per far loro abiurare la fede cristiana. Toccante è il racconto che ne ha fatto la cantautrice Helen Berhane, fedele della Rhema Church, esule in Danimarca dopo due anni e mezzo di prigionia dentro a un container rovente e di torture che l’hanno lasciata semiparalizzata alle gambe nonostante la giovane età (35 anni). Nei primi sette mesi del 2009 già tre cristiani eritrei imprigionati sono deceduti per maltrattamenti e mancate cure. Traditore chi crede nei miracoli Tutto questo è cominciato nel 1995, quando il governo del Fronte popolare per la democrazia e la giustizia, erede del Fronte popolare di liberazione dell’Eritrea (Fple) che aveva guidato la trentennale lotta per l’indipendenza dall’Etiopia, emise un decreto che stabiliva che nel paese sarebbero stati ammessi solo quattro culti: il copto ortodosso, l’islamico, il cattolico romano e il protestante luterano. L’Fple, di estrazione marxista-leninista benché l’Unione Sovietica durante la guerra appoggiasse l’Etiopia, negli anni della guerriglia aveva cercato di imporre il socialismo scientifico ateo come sola visione del mondo, ma il realismo lo spinse a riconoscere l’esistenza della religione nell’Eritrea indipendente. In base a un numero limitato di culti, però: per non favorire nuove divisioni all’interno del popolo in aggiunta a quelle già esistenti e consolidate, e per potere nel tempo più facilmente prendere il controllo di queste istituzioni. Dopo la guerra del 1998-2000 con l’Etiopia, che tanti danni ha causato all’uno e all’altro paese, la difesa dell’unità della nazione e del popolo è diventata un’ossessione paranoica. Gruppi politicamente innocui come i testimoni di Geova sono diventati improvvisamente, a causa della loro ostilità al servizio militare, traditori della nazione, mentre il pullulare di congregazioni pentecostali di origine americana è stato visto come un attentato all’unità del popolo eterodiretto dagli imperialisti americani, anche se le loro principali attività parevano essere il canto sacro, la lettura della Bibbia e l’invocazione di miracoli. Nel 2002 il governo emise un decreto con cui imponeva ai gruppi non coincidenti con i quattro culti ammessi di registrarsi presso l’ufficio per gli affari religiosi. Era una trappola: le informazioni richieste per la registrazione (indicazione delle sedi, dei nomi degli aderenti, delle modalità di finanziamento, eccetera) sono servite per la persecuzione capillare degli incauti richiedenti. I protestanti si cerca di costringerli ad aderire alla Chiesa copta ortodossa. Questa il governo se l’è infeudata prima creando e nominando una figura di amministratore laico che presto è entrato in conflitto col patriarca Antonios; poi mettendo agli arresti domiciliari quest’ultimo e destituendolo con l’ausilio di un sinodo segreto manovrato dalle autorità che lo ha rimosso con l’accusa di eresia. A lui è succeduto un nuovo patriarca, lealissimo al governo, considerato un rinnegato dalla maggior parte dei credenti copti ortodossi. L’obiettivo ideale e non tanto segreto del governo eritreo è di assorbire nella Chiesa copta ortodossa normalizzata tutte le chiese cristiane, compresa la Chiesa cattolica, l’unica che ancora può dichiarare un’orgogliosa autonomia dal potere. Per questo da tempo il governo ha avviato una politica volta a indebolirla quanto più possibile. Niente visto ai missionari Già nel 1995 il governo ha emesso un decreto nel quale si statuiva che le Chiese dovevano limitarsi alla pratica del culto religioso e rinunciare sia alle attività di servizio sociale, che spettavano allo Stato, sia a finanziamenti dall’estero, da sostituirsi con fondi statali. Due anni dopo le autorità sono passate dalle parole ai fatti, ma mentre la Chiesa luterana ha consegnato immediatamente le sue opere sociali, la gerarchia cattolica ha opposto resistenza con successo. Dieci anni dopo (2007) il governo è tornato all’offensiva con un nuovo decreto che avrebbe dovuto nazionalizzare, nel giro di due settimane, 50 scuole, 25 ambulatori e centri di salute, 60 asili infantili e alcune attività economiche appartenenti alla Chiesa cattolica. Anche stavolta l’operazione non è andata in porto, tranne che per un’azienda agricola, una scuola e un asilo della città di Assab che sono stati espropriati. Altro fronte di battaglia è il servizio militare: dopo la guerra del 1998-2000 la ferma è diventata illimitata, ed è questa la prima causa delle ondate di profughi eritrei che arrivano sulle coste della Sicilia. Ora il governo vorrebbe cancellare l’esenzione per il personale religioso. A mo’ di compromesso la Chiesa cattolica ha offerto i suoi seminaristi per un anno di servizio civile: con la solità slealtà, il governo prima ha accettato la proposta, poi scaduto l’anno ha trattenuto i giovani cattolici nel servizio anziché congedarli. Per finire, il governo di Asmara ha deciso di isolare la Chiesa cattolica eritrea da quella universale: due anni fa non ha rinnovato il visto a 14 missionari stranieri, che pertanto hanno dovuto abbandonare il paese, e da tre anni non permette ai religiosi eritrei di andare a perfezionarsi presso le università pontificie di Roma o di partire come missionari all’estero. Forse anche loro dovranno salire sui barconi che salpano dalla Libia, come gli altri poveri diavoli eritrei.

SINODO AFRICANO: VITA IMMIGRATI E’ SACRA E NON PRIVA DI VALORE

(AGI) - CdV, 7 ott. - “In Libia viviamo tutta la tragedia di questo fenomeno: venire in Libia per essere respinti dall’Europa”, ha aggiunto da parte sua il vicario apostolico di Tripoli, mons. Giovanni Innocenzo Martinelli. “L’immigrazione - ha affermato - e’ per molti una tragedia, soprattutto perche’ fatti oggetto di traffico, sfruttamento (le donne in particolare) e del disprezzo dei diritti umani. Sappiamo che nel continente africano vi sono piu’ di dieci milioni di sfollati, di migranti che cercano una patria, una terra di pace: il fenomeno di questo esodo rivela un volto d’ingiustizia e di crisi sociopolitica in Africa. Vi sono migliaia di immigrati che entrano in Libia ogni anno, provenienti dai paesi dell’Africa sub-sahariana”. Secondo il vescovo francescano, “la maggior parte di questi immigrati fugge dalla guerra e dalla poverta’ del proprio paese e arriva in Libia, dove cerca un lavoro per aiutare la famiglia oppure un modo per andare in Europa nella speranza di trovarvi una vita migliore e piu’ sicura. Molti di loro si sono lasciati ingannare dalle promesse di un lavoro ben retribuito e si trovano costretti a svolgere lavori mal pagati e pericolosi oppure non ne trovano affatto”. In Libia, “molte donne, fatte venire nel paese, sono costrette alla prostituzione e alla schiavitu’. Tutti gli immigrati illegali rischiano il carcere, la deportazione o, peggio ancora, non hanno accesso ne’ all’assistenza legale ne’ ai servizi sanitari: vi sono diversi centri di raccolta di tutti i clandestini, ma tutti coloro che si rivolgono al Centro di Servizio Sociale della Chiesa sono originari dell’Eritrea e della Nigeria, etiopi, sudanesi e congolesi: chiedo ai loro Pastori di non dimenticarli in questo esodo forzato”. Molti tra questi immigrati sono cattolici: ringraziamo il Signore - ha concluso mons. Martnelli - per la loro testimonianza cristiana. E’ una comunita’ che soffre, che cerca, precaria ma piena di gioia nell’espressione della fede. E che in un contesto sociale e religioso musulmano rende la Chiesa credibile e vive il dialogo della vita con molti musulmani. Sono la nostra Chiesa in Libia, pellegrina e straniera, luce di Gesu’ e sale per la gente che ci circonda”. (AGI)

"Il reato sull'immigrazione come le teorie dell'Ottocento"

Accolte le tesi della procura sul processo di un egiziano denunciato. Deciderà la Corte Meo Ponte Il giudice: se ne deve occupare la Consulta Non ha dubbi il giudice di pace Alberto Polotti di Zumaglia nel giudicare incompatibile con le norme costituzionali la nuova legge che introduce il reato di immigrazione clandestina. Il magistrato ha quindi accolto l´eccezione presentata dal pm Paola Bellone (d´intesa con la Procura della Repubblica di Torino) il 22 settembre nell´udienza di apertura del processo a carico di Eid Abdellatif Eid Aser, un giardiniere egiziano di 36 anni, da due residente a Coassolo dove aveva regolarmente sposato una signora marocchina: era stato denunciato quando si era presentato in questura per chiedere il permesso di soggiorno. Il giudice Alberto Polotti di Zumaglia ha quindi fatto sue le tesi della procura della Repubblica di Torino che aveva sollevato l´eccezione spiegando che l´articolo 10 bis della nuova legge era in netta contraddizione con la Costituzione. E ieri in aula ha letto l´ordinanza con cui addirittura spiega che l´articolo in questione che punisce il soggiorno illegale nel territorio italiano delinea una situazione simile a quella presa in considerazione dalla dottrina giuridica tedesca quando, elaborando la cosiddetta teoria della «colpa d´autore» (tanto cara al nazismo), individuò una colpa «per il modo di essere dell´agente, colpa che differisce da quella comune e tradizionale perché non ha per oggetto il singolo fatto che è stato commesso ma le caratteristiche psichiche del reo e il suo stato soggettivo». Teorie che, secondo il giudice di pace di Torino, oltre ad essere state criticate sono state superate dai giuristi «perché le condanne si giustificano solo quando l´individuo non rispetta la legge». Secondo Alberto Polotti di Zumaglia quindi il 10 bis stride con cinque articoli della Costituzione: il 2, il 3, il 24 e il 25 per quello che riguarda i principi fondamentali della Repubblica italiana e i diritti dei cittadini e anche con l´articolo 97 riguardante «il buon andamento e l´imparzialità» della pubblica amministrazione visto che la norma della nuova legge origina un inutile raddoppio delle procedure di espulsione già previste. L´ordinanza di sedici pagine si conclude quindi con la decisione del giudice che dichiara: «Visti gli articoli 137 della Costituzione, l´articolo 1 delle legge costituzionale del 9 febbraio 1984, gli articoli 1 e 23 della legge 11 marzo 1953 n.87, ritenuta la rilevanza e la non manifesta infondatezza, solleva la questione di legittimità costituzionale dell´articolo 10 bis del decreto legislativo del 25 luglio 1998 n.286, introdotto dall´articolo 1 comma 16 della legge 15 luglio 2009 n.94...e ordina l´immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale e sospende il giudizio in corso». Prima conseguenza della decisione del giudice di pace potrebbe essere la sospensione di tutti i procedimenti per i quali la procura della Repubblica ha sollevato l´eccezione di illegittimità costituzionale.

IMMIGRATI: REGIONE LAZIO INAUGURA 'SPORTELLO' PER RIFUGIATI

(ASCA) - Roma, 7 ott - ''Assicurare ai rifugiati il diritto alla casa non e' solo un impegno morale ma un preciso dovere delle Istituzioni''. Da questa premessa prende il via lo ''Sportello di intermediazione'' e il fondo di garanzia per i rifugiati finanziato dalla Regione Lazio. L'iniziativa, che sara' presentata domani a Roma, presso la sede della Regione Lazio alla presenza di Mario Di Carlo, Assessore alle Politiche della Casa della Regione Lazio, Christopher Hein, Direttore del Consiglio Italiano per i Rifugiati Massimo Pasquini, Segretario Provinciale dell'Unione Inquilini e Angelo De Nicola, Vice Presidente Nazionale dell'Unione Piccoli Proprietari Italiani, e' promosso dal Consiglio Italiano per i Rifugiati Cir, grazie alla collaborazione tra Regione, Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia e Centro Astalli, Unione Piccoli Proprietari Immobiliari e Unione Inquilini. Lo sportello sara' aperto al pubblico 5 giorni a settimana, per fornire un servizio di orientamento, assistenza e consulenza legale. Mentre il ''Fondo di Garanzia'', istituito con i fondi del Consiglio Italiano per i Rifugiati e della Regione Lazio presso la Banca Popolare Etica, mettera' a disposizione dei proprietari immobiliari disposti ad affittare ai rifugiati garanzie finanziarie contro il rischio morosita'. L'iniziativa assume un ruolo fondamentale nel cercare di favorire l'integrazione dei circa 10.000 rifugiati residenti nel territorio di Roma e del Lazio, nella convinzione che una casa e un ambiente sereno siano imprescindibili per superare quel vissuto doloroso che caratterizza il rifugiato.

Roma- Asmara SpA

Politici e imprenditori corteggiano il dittatore eritreo che secondo l’ONU ha il record di atrocità sulla popolazione. E mentre rafforza le relazioni con l’ex colonia l’Italia scaccia gli esuli in fuga. Di Fabrizio Gatti e Claudio Pappaianni, foto di Shawn Baldwin L’annuncio di Silvio Berlu­sconi scivola senza clamo­re. «Abbiamo chiuso la questione coloniale, non solo con la Libia» so­stiene il premici- dal palco: «E abbiamo l'apprezzamento di tutti í governi africani.. Mancano pochi minuti alle sette dì seta, domenica 27 settembre, festa del Pdl a Milano. La platea osannante è esaltata dagli insulti contro l'opposizione: «Sono adoratori di dittatori sanguinati come Stalin, Mao, Poi Pot, »dice il presidente del Consiglio. Nessuno in sala im­magina che nel 2009 siano proprio lui, Berlusconi Silvio, e il suo governo i prin­cipali sostenitori dell'ultimo dittatore co­munista sopravvissuto in Africa: Isaias Afewerki, 64 anni, presidente dell'Eritrea dal 1993. Un record di atrocità che secon­do le Nazioni Unire batte la Corea del Nord. E che da solo ha incrementato di quasi il 10 per cento il numero di immi­grati irregolari sbarcati a Lampedusa lo scorso anno: 2739 richiedenti asilo eritrei nel 2008. Ma agli affari non si guarda in faccia. E dopo i contratti con il colonnel­lo Gheddafi, la politica estera italiana ora punta all'ex colonia, meno di cinque mi­lioni di abitanti, costo della manodopera quasi a zero grazie ai lavori forzati e chilometri di spiagge sul Mar Rosso. L'elenco delle aziende presenti ad Asmara o pronte a partecipare alla riconquista è già corposo. Dai progetti di Italcantieri gestita da uomini in af­fari con Paolo Berlusconi, il fratello, agli imprenditori casertani in contatto con prestanome dei casalesi. Dagli aerei da ricognizione della Orna Sud di Capita, Campania, alla produzione di stoffe e camicie del gruppo Zambaiti di Bergamo. Dalle trattative di Comunione e liberazione ai villaggi turistici costruiti dai militari ai lavori forzati. Dall'assessore di centrodestra alla Sicurezza e al Turismo della Regione Lombardia, Pier Gianni Prosperini eletto per Alleanza nazionale («Sono stato nominato colonnello dell'esercito eritreo e ne vado molto orgo­glioso») agli aiuti di centrosinistra della Regione Toscana. Dai venti pescherecci "multiuso" partiti dai cantieri di Ancona alla Cmc di Ravenna, grande azienda di costruzioni legata alle coop. Fino al fi­nanziamento di 122 milioni di euro in quattro anni concesso il 7 settembre dalla Commissione europea grazie alla me­diazione italiana. Un contributo che, se­condo alcuni europarlamentari, rischia di non avere controlli capillari per l'assenza in Eritrea di organismi di vigilanza. E non è poco per un Paese che brucia in spese militari il 6,3 percento del misero prodot­to interno lordo (media mondiale 2 per cento): 200.000 soldati armati, 39.770 ogni milione di abitanti, oltre ai militari del servizio civile. Un rapporto superato soltanto dalla Corea del Nord, secondo i dati dell'international institute for strate­gie studies dí Londra. Il riferimento di Berlusconi alla chiusura della questione coloniale «non solo con la Libia è il primo accenno ufficiale al nuo­vo corso. Nonostante le frequentazioni scomode degli uomini di Afewerki alla ri­cerca di dollari attraverso triangolazioni commerciali di ogni tipo. Tanto che il se­gretario di Stato, Hillary Clinton, ha ac­cusato il regime per gli aiuti agli estremi­sti islamici filo Al Qaeda in Somalia. Ma i contatti con l'Italia sono ormai mensili. Venerdi 18 settembre il ministro degli Esteri, Franco Frattini, riceve il collega Osman Saleh e il consigliere politico del dittatore. Yemane Ghebreab, l'artefice del terrore. Durante gli incontri a margi­ne, la delegazione eritrea confessa il suo apprezzamento per i respingimenti degli esuli verso la Libia decisi dal ministro dell'Interno, Roberto Maroni. Operazioni accompagnate dalla riduzione del raggio di azione dei soccorsi da Italia e Malta: un ordine che in agosto ha contribuito alla morte per fame e sete di 73 profughi eri­trei su 78 alla deriva su un barcone. IL dittatore di Asmara preferisce che i suoi esuli rimangano imprigionati nelle carce­ri libiche. Da lì il controlla meglio. Come mesi fa quando, secondo notizie portate in Italia da altri profughi, gli 007 di Ghed­dafi fanno un favore ad Afewerki. In quei giorni i libici informano il servizio segre­to eritreo che a Misurata sono arrivati dal deserto cinque migranti diversi dagli altri. Sono medici, infermieri e guardie in servizio nel lager di Eiraeiro. E’ il campo di massimo isolamento dove il dittatore dal 2001 tiene rinchiusi gli oppositori (articolo a pag.50). I cinque vogliono denun­ciare in Italia quello che sanno sui detenu­ti politici torturati o uccisi. Gli 007 libici li prelevano e con un volo li riportano in Eritrea. Di loro non si sa più nulla. Eppure il ministro Maroni ha più volte dato la sua parola sul rispetto dei diritti umani a Tripoli. E così come sia Berlusco­ni sia il ministro leghista Umberto Bossi hanno più volte detto: «Gli immigrati hanno dei diritti, però a casa loro Ma dei diritti degli eritrei a casa loro il gover­no non ne parla. Né durante l'incontro alla Farnesina il 18 settembre, ne il 31 lu­glio quando Frattini invia in Eritrea il direttore generale per i Paesi del}-,urica sub sahariana, Giuseppe Morabito. Cosa sì dicono Mrabito e il presidente Afewerki è sintetizzato nel comunicato uffi­ciale di Asmara: «Giuseppe Morabito ha affermato che l'Italia considera l'Eritrea come partner fondamentale. .. Egli ha inoltre espresso d desiderio dell'Italia di rafforzare le relazioni economiche e commerciali». Altro incontro il 9 luglio tra Yemane Ghebreab, il consigliere po­litico inviato a Milano dal dittatore, e Robi Ronza, tra i fondatori del meeting di Rimini di Comunione e liberazione e ministro degli Esteri del governatore della Lombar­dia, Roberto Formigoni. Cielle difende i diritti umani in Eritrea? «Dal colloquio è emerso il forte interesse dell'Eritrea a rinnovare i rap­porti... a partire dallo svilup­po delle relazioni economiche e culturali», annuncia l'agenzia Lombardia notizie: «Seguirà una presentazione a Milano delle prospettive di investimento in Eritrea, dove già operano con buoni risultati diverse imprese lombarde. Una di queste è ì! gruppo tessile di Gian­carlo Zambaiti di Leffe (Bergamo). Un gruppo che rifornisce i grandi marchi della moda e ha. puntato sull'ex colonia. Il cotonificio Barattolo vicino ad Asma­ra comprato per un dollaro dal governo e trasformato nella Za.Er. Sessanta mi‑ noni investiti con il contributo pubblico della Siniest, la finanziaria del ministero dello Sviluppo economico. Fabbrica con Standard europei. Cinquemila camicie prodotte al giorno a costi di manodopera locale. E una trattativa su più tavoli per far accogliere la dittatura comunista tra í 154 Paesi del Bureau International d'Expositions a Parigi, il salotto del com­mercio internazionale che sceglie la sede dell'Expo. 1131 marzo 2008 il rappresen­raitte del regime ricambia il favore e vo­ta per Milano 2015. In Eritrea la Cft food technology di Parma, attraverso la Rossi&Catelli, gestisce due fabbriche per la produzione di passata dì pomodoro e di purea di banana. ltalcantieri, fondata dalla famiglia Berlusconi, e invece ferma alla progettazione dì un migliaio di appartamenti ad Asmara. finché questo incarico viene finanziato con soldi pubblici della Sirnesr (vedi box pag. 48). Per la costruzione però il regi-me sceglie imprese più convenienti in Co-rea del Sud. Le società in Eritrea appar­tengono tutte al governo. Così altri soldi pubblici per un milione di dollari della Simesr finiscono nel capitale con cui la Ridri Trust Fund, cassaforte della dittatura, crea la Technobrake, una joint-venture nella meccanica con le torinesi Emmerre srl, Valmichele & Bernardo e la Domino Consulting di Vicenza. Altri curo della fi­nanziaria pubblica italiana sono impiegati per avviare i progetti tra la Piccini spa, che a Perugia produce gru e macchine per l'edilizia, e il Wefri Warsay lkaalo Co- spese struction, una sigla governativa che pren­de il nome dalla campagna di rastrella-mento fotzato di migliaia di giovani per il servizio militare a tempo indeterminato e per i lavori forzati del servizio civile. La Cmc di.Ravenna firma la costruzione dell'Asmara Palace Hotel. Costo: 34,2 milioni.. Un progetto ora concluso. nato ítt joint-venture tra la Chic, il governo e la Red Sea generai import-export, fon-data a Busto Arsizio (Varese) da Tuolde Tesfamariarn, 61 anni, sostenitore del regime in Eritrea e della nuova Demo­crazia cristiana in Lombardia. Questa la missione della Cmc, secondo il suo sito: «Sviluppare la democrazia.. .». Perfino la Cisl spende 508 mila e 991 mila curo per rafforzare i diritti umani e il ruolo del sindacato in Eritrea: in realtà i due progetti rafforzano solo il Ncew, l'unico sin­dacato di regime. La dittatura controlla gli esuli in Italia attraverso una spietata rete di informa-tori. L'ambasciata di Roma e il consola­to di Milano hanno l'abitudine di sche­dare perfino i,cittadini italiani: risultano nell'elenco giornalisti de `"L'espresso" , del "Corriere della sera", politici e im prenditori. Ne sa qualcosa Dania Avallone, 52 anni, biologa subacquea, due settimane di arresti e interrogatori in Eritrea nel 2003 come dipendente del ministero delle Risorse marine, e ora attivista dell'associa­ zione Asper per i diritti umani degli eri­trei (www.asper-eritrea. com). Il 26 otto­bre 2008 durante una manifestazione pacifica a Roma viene picchiata da personale diplomatico e da sostenitori del-la dittatura. Quando atterrano in Italia, Afewerki, i suoi ministri e l'ambasciatore sono liberi di muoversi ovunque. Da tre anni vanno su e giù tra Roma e la provincia di Caser­ta alla ricerca di affari. Il riferimento è il Consorzio riviera domizia di Sessa Au­runca. Sono gli imprenditori che nel 2008 accompagnano il dittatore a caccia di aerei a buon mercato nella visita allo stabi­limento della Orna Sud a Capua. «Un co­struttore italo-eritreo, Giovanni Primo, ha completato due alberghi a Massawa e sulle isole Dhalak a, spiega il presidente del consorzio, Luigi Mascolo, 45 anni: «Ci sono piccoli imprenditori del casertano e del Basso Lazio che vorrebbero investire nel turismo in Eritrea. Noi facciamo da mediatori n Due dei nove imprenditori che costituiscono il consorzio, secondo indagini della Procura antimafia dì Napoli, hanno avuto contatti con emissari dei casalesi. «La questione è stata archi­viata noi siamo contro la camorra», dice il presidente. Tra i nuovi progetti sul Mar Rosso, a Sud di Massawa a. l'hotel di Ghelalo è per ora una cattedrale nei deserto. L'hanno tirata su i profughi eritrei rimpatriati dalla Libia nel 2004 con voli pagati dall'Italia: «Ghelalo è stato costruito da 450 prigionieri sotto il sole dall'alba al tramonto. Venivamo bastonati come asini»,racconta un sopravvissuto ora in Europa: Mancavano perfino pane e acqua. Ci sentivamo sepolti vivi». Ma la concorrenza a Sharm el Sheik di Afewerki e i suoi amici italiani sta per cominciare. Afronine, un'agenzia di viaggi di Porta Venezia a Milano, vende per Capodanno una vacanza proprio a Ghelalo: 1.425 curo, il prezzo di 14 notti nell'hotel dell'orrore.

Il paese naufragato.

L'Eritrea è un paese di fuggiaschi: da qui arrivavano i naufraghi della tragedia dello scorso agosto.Si scappa dalla guerra permanente, dalla fame, dal regime. La mia storia con l’Eritrea è finita in un giorno di una primavera africana di nove anni fa. Nel pomeriggio, arrivammo, giornalisti nelle retrovie della nuova e oscena guerra fra Eritrea ed Etiopia, ad Adi Qwala. Terra di trincee, questo villaggio di frontiera fra i due paesi. Sapevamo che poche ore prima, qui, vi era stata battaglia. Era l’ultima offensiva etiopica. Quella guerra si combatteva a ondate umane. Come un secolo prima, ma con le armi del 2000. Ha lasciato dietro a sé oltre centomila morti (ma nessuno potrà mai censirne i caduti). Ci sporgemmo sul dirupo che saliva verso Adi Qwala: era più che un cimitero o una colossale fossa comune. Per ore camminammo fra i corpi sventrati di soldati etiopi. Erano centinaia e centinaia, avvinghiati alle rocce in cerca di un disperato riparo, rannicchiati in un ultimo orrore. Quel pomeriggio, a volte, mi riappare. L’odore, soprattutto. Ma- allora- scattai le foto che dovevo scattare. Capii, mentre mi muovevo con una lentezza esasperata, che il sogno di una Nuova Africa, la speranza dell’Eritrea, si era spezzato. Peggio: era diventato un incubo. Si era trasformato in una indicibile tragedia greca. Un anno dopo, settembre del 2001, dopo un’ambigua tregua (uno stato di non-pace non-guerra che dura ancor oggi) il presidente dell’Eritrea, Isaias Afewerki, ordinava l’arresto di undici vecchi compagni della guerra di liberazione. Erano ministri e parlamentari. Vennero sotterrati in galere sconosciute anche un pugno di giornalisti e chiuse tutti i giornali del paese. Era passata una settimana dall’abbattimento delle Twin Towers, il mondo non alzò nemmeno un sopracciglio sulla sorte di quegli uomini destinati a scomparire per sempre. Non saranno soli: da allora, a leggere i rapporti di Amnesty International, sono migliaia i desaparecidos (religiosi, sindacalisti, altri giornalisti, dissidenti, giovani in fuga dal servizio militare, impiegati di organizzazioni umanitarie) nelle prigioni dell’Eritrea. Human Rights Watch ha censito 35 centri di prigionia inaccessibili a chiunque. Otto anni dopo quel settembre maledetto nessuno conosce il destino di chi è stato sepolto nelle carceri eritree. Un balzo indietro. Per capire. Molto indietro. Maggio del 1993. Nasceva allora l’Eritrea, 53esimo stato africano, figlio di una guerram di liberazione e indipendenza durata trent’anni. Un referendum aveva confermato, quasi all’unanimità, la volontà degli eritrei, anche di quelli dispersi in una diaspora mondiale, di avere un proprio paese. La piccola Eritrea era un miracolo. Tutti, giornalisti e cooperanti, ci innamorammo del paesaggio dei suoi altopiani, della bellezza del suo mare e, soprattutto, della tenacia dei suoi abitanti. Gli eritrei ci apparivano fieri, orgogliosi, determinati, incorruttibili. Erano gli anni dell’afro-ottimismo. E su Isaias Afewerki, il leader della lotta del popolo eritreo, tutti noi avremmo messo la mano sul fuoco. Per sette anni, fra il 1991 e il 1998, l’Eritrea ha davvero rappresentato una speranza felice. La gente sembrava rinascere dopo anni e anni di miserie, coprifuoco e violenze. Ma, in quegli stessi anni, abbiamo ignorato sinistri scricchiolii che ci sono apparsi chiari solo quando, nel 1998, a maggio, senza logiche comprensibili a noi occidentali, un’altra guerra divampò fra Eritrea ed Etiopia. Da allora è stata la deriva. Guardo le foto dei gommoni vuoti in balia delle onde del Mediterraneo. Guardo le foto dei prigionieri dei campi di detenzione libici. Uomini svaniti nel mare mentre cercavano una disperata libertà. Uomini in fuga imprigionati senza colpe. Le acque del canale di Sicilia hanno inghiottito centinaia e centinaia di ragazzi che fuggivano dall’incubo-Eritrea. Altri sono sepolti sotto le sabbie del Sahara. E niente sappiamo di chi scappa verso la penisola arabica o verso l’Etiopia, il vecchio nemico. Ogni giorno, secondo l’Alto Commissariato per i Rifugiati, cento ragazzi eritrei fuggono in Sudan attraverso i deserti. Molti vengono catturati durante le loro marce notturne. Undicimila eritrei, da gennaio alla scorsa estate, hanno chiesto asilo a Khartoum. Migliaia non si registrano e cercano di proseguire verso il Mediterraneo. ‘Un ragazzo su due, ad Asmara, pensa a fuggire’, mi dice un italiano che da anni vive ad Asmara. Attenzione: in questo articolo non ci sarà mai un nome e cognome delle mie fonti. Nessuno vuole apparire, troppo pericoloso. Per sé e per gli amici ancora nel paese. Come è potuto accadere tutto questo? Anche negli anni più bui dell’occupazione etiopica, i ragazzi eritrei non fuggivano. O meglio: molti passavano le linee della guerriglia e si arruolavano nelle file del Fronte Popolare di Isaias Afewerki. Altri trovavano rifugio in Sudan, ma vivevano nella speranza di tornare nel loro Paese. Ora l’esodo appare di massa. Davvero: come è potuto accadere? Cosa sta succedendo in Eritrea? Gli eritrei, nel 1991, avevano vinto una guerra impossibile. L’Africa e il mondo, per decenni, li aveva dimenticati e loro, testardi ed eroici, avevano vinto contro ogni nemico. Quegli stessi eritrei hanno, invece, perso la pace. ‘Sarà più difficile che combattere una guerra’, mi disse pochi giorni dopo la liberazione di Asmara, Ascalù Mencherios, una veterana della guerriglia (oggi è fra i più fedeli e spietati alleati di Afewerki). Fu preveggente, Ascalù. ‘I guerriglieri sono rimasti guerriglieri’, spiega Alfredo Mantica, sottosegretario agli esteri del governo italiano, profondo conoscitore di questo paese. Ha ragione: gli eritrei sanno fare i militari, sanno usare le armi e la violenza. E hanno continuato a farlo. Hanno svestito in fretta gli abiti civili e reindossato mimetiche (non più stracciate come ai tempi della guerriglia). Cinque generali, oggi, governano le regioni in cui il paese è diviso. Problemi complessi con l’Etiopia, ingombrante vicino, rivale oggettivo per la supremazia nel Corno d’Africa? L’unica soluzione è la guerra (e l’Etiopia non è certo innocente in questa tragedia). E guerra, in questi anni, è stata con tutti i vicini: dal Sudan a Gibuti allo Yemen. Asmara appoggia le fazioni islamiste a Mogadiscio (probabile che lo faccia anche per ‘conto terzi’: sultanati arabi del Golfo o l’Iran). Offre retrovie e rifugio alle guerriglie che cercano di disintegrare l’Etiopia. Gioca ambigue partite nel puzzle impazzito del Darfur. ‘Noi abbiamo un solo obiettivo: indebolire l’Etiopia. I nemici dei nostri nemici sono nostri amici’, ha spiegato, una volta, Afewerki a politici italiani. La rivalità mortale fra Asmara ed Addis Abeba è una delle chiavi per comprendere il naufragio eritreo. L’Eritrea tratta con disprezzo l’Onu. A maggio, l’Igad, l’associazione per lo sviluppo dei paesi dell’Africa orientale, ne ha chiesto la condanna alle Nazioni Unite. A giugno di quest’anno, perfino la prudente Unione Africana, ha reclamato sanzioni contro l’Eritrea: è la prima volta che l’Ua chiede la condanna di un proprio stato membro. Sdegnata la reazione di Asmara: è uscita dalle due organizzazioni accusate di piegarsi alle pretese dell’Etiopia. Perfino il rapporto con Gheddafi (per anni la Libia ha fornito petrolio a prezzi di saldo all’Eritrea) si è incrinato. Asmara è la capitale di un paese arroccato su sé stesso. Una Corea del Nord africana. Priva della tecnologia nordcoreana. Unico apparente e insidioso amico: l’Iran di Ahmanidejad. In Eritrea è mobilitazione permanente. Tutti, fino a 40 anni (in realtà il limite si estende fino ai 50 anni e comprende le donne con figlie di età superiore a tre anni), è considerato soggetto a leva militare. Nessuno può lasciare il paese. I visti di uscita, tranne casi eccezionali e di ‘amici’ del regime, sono negati. L’ultimo rapporto dell’International Institute for Strategic Studies (www.iiss.org) rivela che la piccola Eritrea è il secondo paese più militarizzato del mondo. Duecentomila soldati in armi. Per poco più di tre milioni di abitanti. (ogni statistica è inesatta in Eritrea: nessuno sa quanti siano esattamente gli eritrei, fra i tre e i quattro milioni, probabilmente. Per ben più della metà con meno di 18 anni). Al primo posto di questa poco onorevole classifica c’è la Corea del Nord. Al terzo, Israele. Non si finiscono gli studi a scuola, in Eritrea. Ma a Sawa, una scuola-caserma nei torridi bassopiani del paese. Superata l’undicesima classe, penultimo anno delle superiori, ogni ragazzo e ragazza è mobilitato. Si rischia di non uscire mai più da questa spirale. Dopo c’è il National Service. Anni e anni (la durata è praticamente indefinita) di ‘lavoro volontario’. I ragazzi sono arruolati nella campagna di ‘ricostruzione’ del paese. Si chiama wersay-yekalo: il nome vuole indicare il patto fra i giovani combattenti e la vecchia guardia dei veterani. Come dire: la guerra non avrà mai fine. ‘Mio nipote è partito per il National Service nel 1998. Non è ancora tornato a casa’, mi dice una donna eritrea. Questo lavoro è retribuito con 150 nakfa, più o meno sette euro, al mese. L’università di Asmara, possibile luogo di dissenso, è stata chiusa: al suo posto ‘college’ militari dispersi per il paese. ‘Mettiti nei panni di un ragazzo di sedici anni di Asmara – mi spiega chi ha vissuto a lungo nel paese – sa che non ha futuro. Sa che sarà rinchiuso a Sawa. Davanti a sé ha anni e anni da passare spostando pietre nel letto disseccato di un fiume. Quel ragazzo non penserà ad altro che a scappare’. L'eritrea è uno di quei luoghi al mondo in cui è pericoloso crescere. E dove vivere è umiliante. Secondo la Banca mondiale, nel 2007 il reddito pro-capite è di 230 dollari all'anno. Alimenti di base sono distribuiti da negozi di stato e razionati. Siamo in cinque in famiglia "mi dice un uomo di mezza età -. Ci toccava un pezzo di pane al giorno. Adesso è stato ridotto: uno di noi deve rimanere senza i suoi cinquanta grammi di pane. Fra poco ci daranno solo la mollica". I pomodori costano 30 nakfa al chilo (il cambio ufficiale è 21 nakfa per un euro). Lo zucchero, 60 nakfa al chilo. E il sorgo, cibo di base, costa cinquemila nakfa al quintale. E il sorgo è cibo povero: ha sostituito il teff, il vero cereale di questi altopiani da cui ricava una focaccia acida chiamata 'njera. Era diventato inaccessibile: 160 nakfa al chilo. Una famiglia, abitualmente, ne consumava almeno 25 chili al mese. Ma un salario medio, per chi ha un lavoro, ad Asmara è di 750 Nakfa (meno di 40 euro al mese al cambio ufficiale). Fate voi i conti. Il cherosene, indispensabile ai fornelletti da cucina, è razionato: cinque litri al mese. Ne occorrerebbero almeno venti per una famiglia. La benzina è introvabile. Vi sono divieti sorprendenti: ogni ordine missionario, ad esempio, non può possedere più di due auto. Ad Asmara, simile a una bella città del Sud italiano, funziona solo un lampione su quattro. Il mercato nero si diffonde nei bassifondi della capitale. Economia di guerra, malavita di guerra. Tutto si trova alla borsa nera. Il cambio della moneta vola a 50 nakfa per un euro. Si formano ricchezze nei labirinti del mercato nero: il paese degli incorruttibili è diventato il paese di chi specula sul cibo, sulla benzina, sul cemento, sugli aiuti internazionali. Si consumano delitti e rese dei conti in questo clima da caduta degli dei: alcuni businesman e trafficanti sono stati trovati morti (suicidi, incidenti d'auto...) in questi ultimi mesi. Esercito e partito unico (ironia del nome: Pfdj, Fronte Popolare per la Democrazia e la Giustizia) controllano ogni anfratto dell'economia. Se una qualche cooperazione vuole costruire una scuola o un ospedale dovrà rivolgersi a una società del partito. I controllori apparterranno al partito. Nei lavori saranno impiegati i ragazzi del "lavoro volontario". Edilizia, meccanica, import-export, banche, agricoltura meccanizzata (quel poco che c'è¨), tutto in mano al partito o all'esercito. L'Eritrea è la peggior immagine riflessa di una Unione Sovietica vecchia di mezzo secolo. E' un comunismo primitivo e cupo. Isaias Afewerki, 63 anni, è Macbeth, personaggio shaekespiriano: altissimo, bello, carismatico, intransigente, erede di una famiglia dell'aristocrazia degli altopiani (suo nonno era un alto funzionario del regno di Hailè Selassiè¨, ultimo negus dell'Etiopia) , divenne un eroe della resistenza eritrea contro l'occupazione etiopica. Tutti coloro che lo incontravano erano colpiti dal suo fascino. Appariva un leaderm moderno, spregiudicato, rigoroso. Si è rivelato un uomo sanguinario, vittima del suo potere. Vive prigioniero del mito della sua infallibilità . Avvolto in una spirale di violenza, non ha esitato a far sparire i suoi amici più stretti e a decimarne le famiglie. In Il potere centrale lotta per sopravvivere a se stesso e non tollera qualunque libertà. Nelle campagne, territori di consenso per il regime, si muore di fame. Espropri e requisizioni mettono in crisi anche la fedeltà dei contadini poverissimi. Gli uomini migrano in cerca di lavoro. "Le madri assistono impotenti alla morte dei loro figli più piccoli, mi dice chi ha potuto viaggiare fra i villaggi dell'altopiano. Come spesso accade in Corno dell'Africa, guerre e siccità si saldano assieme: lo scorso anno, a scorrere i rapporti Fao e World Food Program, i raccolti hanno dato solo il 30% del fabbisogno alimentare del paese. Le piogge erano state avare nel 2008. Quest'anno (piove in estate) sembrano siano state migliori, ma, anche negli anni buoni, si copre a stento il 60% delle necessità. Ma il governo eritreo è sdegnoso: "Non abbiamo bisogno di aiuti alimentari". E' giusto cooperare con l'Eritrea? L'Europa pensa di si: "Solo così possiamo sperare di avere qualche influenza su Asmara e sperare che i diritti umani vengano rispettati", dicono a Bruxelles. Il programma Ue per il 2009-2013 prevede 122 milioni di euro da mettere a disposizione dell'Eritrea (70 in aiuti alimentari e gli altri, per lo più, in costruzione e riparazioni di strade). Ma la cooperazione in Eritrea è quasi impossibile: nel paese sono rimaste solo cinque ong (erano 37 solo tre anni fa). E per legge devono dimostrare di avere due milioni di dollari in un conto corrente. Per anni, dopo l'indipendenza, l'Italia è stato il primo partner di Asmara. Quasi a farsi perdonare un debito storico e l'indifferenza ostile durante la guerra di liberazione. Imponenti i progetti di cooperazione degli anni '90. L'Eritrea è sempre stato fra i primi beneficiari dell'aiuto pubblico italiano. Fino al 2005. Quando 50 milioni di euro, per l'ultima volta, sono stati dati al governo eritreo per riequilibrare la bilancia dei pagamenti. Poi nel giro di pochi mesi, vennero espulse le Ong italiane (ne è rimasta solo una, legata al mondo missionario) , mandati via i carabinieri italiani in forza all'Onu, espulsi i missionari stranieri, rasa al suolo Villa Melotti, celebre casa italiana a Massawa, porto eritreo sul mar Rosso, espulso anche il viceambasciatore che aveva cercato di fermare questa devastazione. Nel 2006, ultima visita istituzionale del sottosegretario Mantica ad Asmara. Oggi nel piano triennale della cooperazione italiana (2009-2011), l'Eritrea è svanita. Vi si dedica appena un rigo e mezzo su ventidue pagine. "Chiuderemo i progetti in corso e non ci saranno altre iniziative". Non abbiamo più rapporti politici con Asmara. Troppe chiusure. "Afewerki è responsabile della fuga e della morte dei suoi giovani", dice Mantica. La Regione Toscana, all'opposto, difende la sua cooperazione con l'Eritrea. In progetto, la costruzione di un ospedale pediatrico ad Asmara (tre milioni di euro). "Chiudere ogni dialogo rafforza solo Afewerki" dicono "Mantenere le porte aperte impedisce la deriva verso la barbarie. Bisogna essere chiari, dire in faccia cosa pensiamo ai nostri interlocutori, ma non dimenticare mai che la cooperazione serve alla gente. Continueremo a essere presenti in Eritrea". Ci prova anche la Lombardia di Formigoni: i suoi funzionari hanno incontrato a luglio il potente e temibile Yemane Ghebrab, anima nera del regime. Come puoi sperare di fermare i ragazzi che affrontano le correnti del Mediterraneo? Non hanno futuro, non hanno speranze. Sanno bene a cosa stanno andando incontro. Hanno fratelli, amici, familiari che già hanno fatto questo viaggio da follia. Sanno che rischiano la pelle. Sanno che le loro famiglie rimaste ad Asmara saranno perseguitate. Sanno dell'orrore delle carceri libiche, sanno della ferocia dei trafficanti di uomini. Ma non hanno alternative. L'Eritrea ha tradito i loro sogni. L'Italia è il Paese che hanno più vicino al cuore e alla testa. Ma l'ultima scena deve avere un lieto fine (le dittature, alle fine, crollano, bisogna pur crederlo). Una ragazza di Asmara ottiene un contratto di lavoro in Italia. Non potrebbe uscire dal paese. Ma dichiara di avere un figlio piccolo, ragione credibile per tornare nel Paese. Quel bambino non è figlio suo, ma di una sorella. E' stato registrato a suo nome per consentirle una via di fuga. C'è il certificato del prete. Ce la fa ad avere il visto di uscita. Ma all'aeroporto scopre che il doganiere è un suo vicino di casa. Sa che lui mai l'ha vista incinta. E' finita. L'uomo le chiede i documenti. Li guarda, alza il viso sulla ragazza. Fa un mezzo sorriso, un cenno con la testa. Timbra le sue carte. Le augura buon viaggio. C'è qualche speranza in Eritrea.