venerdì 6 novembre 2009

Ferrhotel MON AMOUR

Una giornata nella struttura di Trenitalia occupata da due settimane da 40 profughi somali. Il racconto di due di loro: il viaggio dalla Somalia a Gibuti, poi, l'Eritrea, il Sudan e la Libia. Con cinque compagni morti nel Sahara e cinque mesi di carcere Tre novembre 2009, ore 21,17. Al Ferrhotel di Bari, la struttura Trenitalia occupata da due settimane da 40 profughi somali, è buio pesto. L'unico ambiente illuminato è lo stanzone in cui si tengono le assemblee per l'autogestione. È un gruppo elettrogeno a schiarire il fondo di un quadro che cuce la sua trama sulla pelle degli occupanti. Più della metà sono rifugiati politici o godono di protezione umanitaria, gli altri sono richiedenti asilo. Tutti hanno cercato riparo in Italia, in fuga dalla guerra, fiduciosi che l'Occidente li avrebbe salvati e accolti. Ora stanno lì, al Ferrhotel, e non si sentono al sicuro. L'Italia non è che un passaggio breve nei loro occhi, in cui invece si addensano i rigurgiti di una vita sotto assedio. Eccone alcuni, tradotti da Abdullahi, della comunità somala residente a Bari. È lui che accompagna Tiziana, della Rete Antirazzista, nella stanza occupata dagli sposi. Per arrivarci bisogna percorrere un lungo corridoio, al buio. Abdullahi va avanti. Bussa piano e la porta si schiude. Il bagliore di una candela rivela una stanza seriale. Al centro un letto matrimoniale e intorno poche cose. Poco in là gli sposi, in penombra. Ora prendono posto ai bordi del letto. Shugri, lei, ha venti anni. Khaled 23. Lei è l'unica donna attualmente presente nella struttura. Ma ce n'è un'altra, ora ricoverata in ospedale in attesa di partorire: l'unica di cui l'amministrazione comunale - che alla struttura, oltre alla luce, fa mancare l'acqua - "si fa carico". Acqua... questa parola ritornerà. Shugri e Khaled si sono sposati nel 2007, a Modagiscio. Da lì sono partiti due anni fa per raggiungere l'Italia. Hanno venduto la casa e via, in cerca di pace. Ma già durante il viaggio hanno capito quanto gli sarebbe costata la pace. Due ragazzi giovani, stretti da un patto di vita, decidono di tentare il salto. Si sentono già rifugiati politici in Italia e pensano di aver diritto quantomeno a una casa. Guardano avanti. Vogliono vivere, studiare e lavorare. Con questo desiderio, che forse è già qualcosa di più, una prospettiva, salgono sul primo fuori strada (un T8 omologato per 8 persone su cui ne vengono stipate 38) che gli garantirà il primo pezzo del viaggio, dalla Somalia al Gibuti. E pagheranno quel che devono al conducente del mezzo, di nazionalità somala. Da lì, sempre con le stesse modalità, attraverseranno l'Eritrea, il Sudan e la Libia. Il viaggio dalla Somalia alla Libia durerà tre mesi. Il mezzo e il suo conducente cambieranno in ogni paese attraversato. Ogni spostamento avrà il suo prezzo. Per un totale, fin qui, di 7mila euro. Dalla Libia, poi, via mare, raggiungeranno il porto di Lampedusa. Anche lì, stipati su barconi di fortuna. Ma la somma, in realtà, avrebbe dovuto comprendere anche quest'ultimo passaggio. Il viaggio via terra è stato quello che gli ha tolto la pace. Shugri spiega: «Persone in macchina con me e Khaled sempre diverse, cambia ogni paese. Tutte vuole venire Italia, tutte. Alcune arrivate, altre no». Si blocca Shugri. Poi con tono forte, rabbioso dice: «Cinque morte in Sahara senz'acqua, due come me e tre maschi. Stava qua, vicino. Ma macchina va veloce, lascia loro cadere e non va a riprendere». Khaled aggiunge: «È sempre così». Poi l'arrivo in Libia, sempre in macchina, «senza aria, senza acqua». Lì, dove Shugri è arrivata disidratata, ad accoglierli c'era la polizia. «Noi senza documenti, loro dice noi terroristi», spiega Khaled. Perciò li hanno trattenuti nel carcere di Bengasi per 5 mesi. «Loro razzisti. Loro dire a noi "fuori il negro". E noi dire loro, noi africani come voi». Poi sono stati rilasciati: «Pagato 1000 euro e loro lasciare liberi». E Shugri e Khaled avevano liquidità, avendo venduto la casa a Mogadiscio. Ma gli altri profughi che non erano in condizioni di pagare? «Chi non ha soldi rimane in prigione 5 anni. Una persona era lì da un anno e mezzo e un'altra da tre». Poi il resto del viaggio in mare. «Ma su barcone salvati, tutti salvati», dice Shugri in un italiano stentato. A Lampedusa li attendono carabinieri e polizia che li portano nel Cie locale. Lì restano 5 giorni. Poi vengono trasferiti nel Cara di Bari, dove restano 6 mesi. E siamo a metà novembre 2008. Allora ottengono il permesso di soggiorno per asilo politico, in scadenza nel 2015. E riprendono la strada. Quattro mesi all'addiaccio, tra stazione e giardini pubblici. Qualche volta mangiano in mense di fortuna, altre no. «Senza tetto, noi paura», dice Shugri. E il Ferrhotel, cosa rappresenta? «Una casa senza luce e acqua, poco meglio di strada», dice. E aggiunge: «In Sahara sono morte persone senza acqua, in Europa, in Italia noi stare ancora senza». Interviene Khaled: «Noi scappati da guerra, noi pensiamo in Italia avere casa, studiare, lavorare. Ma noi qui lasciato impronte digitali. Dicono voi avete asilo politico ma non potete fare niente». Shugri e Khaled sono "casi Dublino": essendo sbarcati in Italia, sono vincolati a chiedere asilo nel nostro paese. Lei di questo si dispiace. Come Khaled, non pensa si restare. «A Mogadiscio paura di morire per guerra, qui paura di morire per strada. Non c'è assistenza per persone che hanno asilo politico, anche se è un paese industrializzato. Meglio che non ci prendono le impronte così possiamo andare via». Ricorda una notte in particolare Shugri. «In stazione, freddo e gelo. Anche per cure in Italia, dottori e polizia non hanno traduttori. Altri paesi in Europa non è così: loro chiama e interprete viene». Al momento l'amministrazione comunale non garantisce l'assistenza sanitaria agli occupanti del Ferrhotel. Ci sono dieci medici volontari e un'assistente dell'Asl (a titolo personale) che si occupano di loro. A breve gli procureranno le tessere sanitarie, ma non è sufficiente. Kalhed insiste: «Se trovo lavoro fuori, nelle campagne, chi prende responsabilità di Shugri se succede qualcosa? Prende governo Italia? Prende governo Europa? Prende polizia? Chi prende?» Ha paura Khaled, perché una notte, quando erano in strada, due uomini hanno tentato di violentarla. Aggiunge lei: «Troppa gente ubriaca, persone che hanno dato fastidio a noi: italiani». Ma guardano ancora una volta avanti.

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