domenica 13 dicembre 2009

L'ambiente nuova risorsa per tutti

BOB GELDOF Sono passati venticinque anni dalla carestia etiope degli Anni 80 e dalla manifestazione di generosità e partecipazione senza precedenti che suscitò. La domanda che mi fanno sempre è se sia servita a qualcosa. Che cosa è cambiato in Etiopia e in generale in Africa? E’ cambiato moltissimo, rispondo, nel bene e nel male. La settimana scorsa ero di nuovo lì, dove entrambi i cambiamenti sono ben visibili. Di positivo c’è stata una crescita economica esplosiva; ci si aspetta addirittura che l’anno prossimo l’Etiopia sia fra le cinque economie che più crescono al mondo. Il numero degli iscritti nelle scuole è raddoppiato, le morti per malaria dimezzate e l’Aids è in declino. I telefoni cellulari si stanno diffondendo (e si diffonderebbero ancora di più se fossero privatizzati) e nuove strade di campagna collegano comunità remote ai mercati, alle scuole, agli ospedali. Soprattutto - e nonostante ancora troppe persone per vivere facciano affidamento sugli aiuti alimentari - anche quest’anno, come negli ultimi diciotto, si eviterà la carestia, dato che i sistemi di distribuzione e di allarme sono migliorati. Certamente il governo potrebbe essere più trasparente, ma nel complesso questo è un Paese che fa progressi, in un continente che progredisce anch’esso. Poi c’è il cambiamento negativo - quello climatico. Molti abitanti dei villaggi indicano nella metà degli Anni 80 il momento in cui hanno cominciato a vedere che i loro modelli climatici stavano cambiando. Da allora piogge sempre più irregolari li hanno costretti a cambiare radicalmente organizzazione agricola. Comunità che abbiamo visitato nel Tigray hanno dovuto dare nuovi nomi ai mesi perché erano basati sulle stagioni e quei modelli stavano rapidamente cambiando. La gente ci ha detto che la riduzione delle piogge ha tagliato il loro reddito agricolo. Questo a sua volta sta deformando il tessuto sociale: i furti sono più frequenti e i bambini sono costretti ad andarsene di casa per lavorare. Mentre viaggiavamo nel Nord dell’Etiopia abbiamo visto in tv le immagini dell’alluvione a Cockermouth, in Gran Bretagna - probabilmente parte della stessa trama. Le popolazioni danneggiate dal clima nel Nord dell’Etiopia e nel Nord dell’Inghilterra stanno già vivendo in quello che sarà il nostro futuro, a metà del XXI secolo. A quell’epoca, secondo cinquemila eminenti scienziati, vivremo sulla nostra pelle tutti i drammatici cambiamenti. La disgregazione sociale che vediamo in Etiopia, se le si consente di diffondersi e peggiorare fino alla sua logica conclusione, potrebbe avere una traiettoria spaventosa. E’ sin troppo facile che povertà estrema e cambiamenti climatici alimentino un circolo vizioso, rendendo le comunità più vulnerabili agli estremismi politici. Una fascia di povertà estrema e di instabilità lungo il Sahel e il Sahara - peggiorata dal cambiamento climatico - sarebbe molto negativa per un’Europa che si trova poche miglia a Nord. Questa ipotesi però non è affatto inevitabile. In Etiopia la tensione fra i cambiamenti positivi e quelli negativi è palpabile. Quale direzione vincerà dipende dalle scelte che gli etiopi faranno, e in qualche misura anche da noi. Non ci aspettano solo sacrifici; ci sono anche nuove opportunità. Crediate o no all’opinione generale degli scienziati sui cambiamenti climatici, le nostre economie vi si stanno ineluttabilmente adattando - e c’è una ragione logica per accettarli senza riserve. L’inefficiente economia basata sugli idrocarburi sarà sostituita da energie rinnovabili pulite e a buon mercato; il commercio dei diritti di emissioni dei gas serra - la cosiddetta «carbon finance» - avrà un ruolo molto importante. Secondo il Climate Group, entro il 2015 in Gran Bretagna ci saranno almeno 100 mila nuovi lavori «verdi» e nei prossimi dieci-vent’anni il commercio delle quote di carbonio varrà 1,8 trilioni di sterline. La Cina sta investendo nelle energie rinnovabili, come già la Germania, con una forte espansione dei lavori verdi. Anziché negare questi inevitabili processi, dovremmo abbracciare le opportunità che offrono, se non vogliamo restare indietro. Il sistema finanziario relativo al commercio del carbonio e il mercato possono aiutare a trovare soluzioni buone per la Gran Bretagna come per l’Africa. Per esempio, piantare alberi per catturare anidride carbonica potrebbe diventare il nuovo «cash crop» - le coltivazioni per l’esportazione - dei contadini africani. Investire in agricoltura in Africa, sia attraverso gli aiuti governativi che i fondi privati, è fondamentale. E può anche essere molto redditizio. Il primo ministro etiope, Meles Zenawi, leader dei negoziatori africani a Copenhagen, mi ha detto di essere scettico sulle offerte di denaro della comunità internazionale e la sua doppia contabilità. Abbiamo parlato delle promesse di nuovi fondi per investimenti agricoli fatte al G8 dell’Aquila la scorsa estate e dei possibili impegni che potrebbero venire da Copenhagen. Ma Zenawi teme che si tratti di denaro già impegnato altrove. Venticinque anni fa si parlava di Africa che moriva di fame. Ora, nonostante l’attuale scarsità di cibo in alcune regioni, si racconta una storia diversa: quella di un’Africa che, come mostrano le statistiche, si sta sollevando. L’ultimo continente a svilupparsi, con una classe media rigogliosa e 900 milioni di produttori e consumatori, è il posto dove nei prossimi decenni ci sarà un ritorno di investimento tra i migliori al mondo. Dobbiamo accompagnare, come abbiamo promesso, questi popoli, per la salvezza della nostra economia e del nostro ambiente globale, perché fra altri 25 anni potremmo avere bisogno di loro più di quanto loro non avranno bisogno di noi.

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