lunedì 15 febbraio 2010

La colonia etiope

di Mazzetta Gilgel Gibe è il nome di una serie di opere idrauliche molto discusse, pensate e realizzate dalla ditta Salini in Etiopia con il placet e i finanziamenti dei governi italiani. Gilgel Gibe I è una diga tradizionale, costata 280 milioni di Euro, che non ha dato i risultati sperati, finendo per procurare grossi danni ambientali e materiali senza contribuire minimamente allo sviluppo del paese. Il problema è che l'etiope ha fame di “sviluppo”, ma di quello dei patrimoni dell'oligarchia etiope, stretta intorno a Meles Zenawi. Per questo nei piani dell'azienda di stato per l'energia elettrica EEEPCo, spunta di quando in quando una diga. La diga è un ottimo progetto sul quale lucrare, perché produce energia pulita che è sinonimo di sviluppo sostenibile; poco importa poi se l'energia prodotta viene venduta all'estero e i guadagni spariscono nelle tasche dei soliti noti. Un'epopea raccolta nel rapporto “L'affare Gilgel Gibe”, lo stesso rapporto che ha spinto la BEI a chiamarsi fuori dal progetto sotto la pressione di Counter Balance, “Friends of Lake Turkana”, “International Rivers” e l'italiana “Campagna per la riforma della Banca Mondiale”. Numerose organizzazioni internazionali hanno cercato di contrastare l'andazzo e alla fine anche la Banca Europea per gli Investimenti ha deciso di non finanziare la costruzione di Gilgel Gibe III, giudicata inutile perché all'energia che dovrebbe produrre non risponde ad alcuna domanda di consumo. In mezzo i due progetti ci sta Gilgel Gibe II, l'impianto inaugurato pochi giorni fa da Frattini con un profluvio di buone parole e subito fermato dal crollo dell'opera. Ovviamente l'inaugurazione e il viaggio di Frattini hanno ricevuto ampia copertura dai media nazionali, mentre il crollo dell'opera ha attirato scarsa attenzione. Gilgel Gibe II ha avuto una genesi singolare, già finita all'attenzione della magistratura; la costruzione dell'opera è stata affidata - senza gara - alla ditta Salini, uno dei maggiori gruppi italiani nel campo delle costruzioni. Il contratto per Gilgel Gibe II è stato affidato in difformità dalle leggi etiopi, ma da là nessuna protesta e nessuna collaborazione alle diverse inchieste internazionali. Difficile dire che fosse almeno in conformità alle leggi italiane ed europee, vista l'assenza di una gara (obbligatoria) e visto che un documento fondamentale come la VIA (Valutazione d'Impatto Ambientale) e tutte le perizie sono state prodotte in Italia da associate alla ditta Salini. Ma i problemi non sono solo formali, perché l'accordo per la costruzione dell'opera restituisce uno scenario a dir poco curioso. Il progetto è stato finanziato in parte simbolica da organismi internazionali (su tutti la BEI con 50 milioni di Euro), per buona parte dai fondi che l'Italia mette a bilancio per gli aiuti allo sviluppo e per parte comunque rilevante dall'Etiopia, che si è indebitata per l'intera cifra, visto che gli aiuti sopra elencati sono prestiti. L'iter dell'accordo è stato sicuramente facilitato dalla cancellazione di oltre 300 milioni di Euro di debito etiope, concessa dall'Italia e ratificata nei giorni immediatamente successivi alla firma dei contratti. Per Gilgel Gibe II non sono stati d'ostacolo nemmeno i pareri negativi di diversi uffici ministeriali, così l'Italia ha concesso un credito di 220 milioni di Euro (più 505.000 “donati” per retribuire un “esperto” a controllare i lavori). In pratica abbiamo abbuonato i debiti agli etiopi e loro in cambio si sono indebitati subito più o meno per la stessa somma per costruire Gilgel Gibe II, che è una galleria di 27 km che per produrre energia sfrutta la differenza di quota tra il bacino di Gilgel Gibe I e il letto del fiume Omo più a valle. Poi è successo che una scavatrice è rimasta imprigionata nella galleria (è ancora là) e i costi per l'Etiopia sono lievitati. Curiosamente, il rischio geologico in questo caso non era a carico del costruttore; così l'opera, che era partita senza nemmeno uno studio geologico, è diventata più cara e il debito dell'Etiopia ha superato quanto abbuonato. Poi si arriva ai giorni nostri, con Frattini che inaugura e la galleria, che dopo qualche giorno crolla. Danno questa volta a carico del costruttore, già lanciato verso il perfezionamento del contratto per Gilgel Gibe III, una miniera da un miliardo e mezzo di dollari che, se realizzata, comporterà un aumento di tre o quattro miliardi di dollari per il debito estero etiope. I 220 milioni a Salini li ha dati il governo italiano, che ha garantito anche i crediti nei confronti dell'Etiopia: se gli etiopi non pagheranno, se l'opera dovesse risultare inutilizzabile o se emergeranno altri inconvenienti, bisognerà far causa a Salini per riavere almeno parte del denaro, sempre che ci sia la volontà politica per farlo rischiando di attirare attenzione su questo disastro e sempre che non arrivi prima l'inchiesta penale a sparigliare le carte. Questo incidente rischia di essere per Salini un problema superiore all'aperta ostilità della BEI, che rifiuta di finanziare il progetto, o alle relative difficoltà burocratiche in Italia, anche se ormai il contratto tra governo etiope e Salini è stato firmato nel 2006. Oltre ai finanziamenti manca la copertura della SACE (la Società assicuratrice del credito all’esportazione), la società pubblica che in questi casi garantisce gli impegni dei paesi esteri nei confronti delle aziende italiane, senza la quale il rischio di mancati pagamenti è a carico di Salini, che per ora ha rifiutato di fornire la sua garanzia. Ma la fretta ha provocato altri inconvenienti. La VIA, ad esempio, riguarda solo la parte monte della diga, un'anomalia evidentissima, ed è stata prodotta dalla CESI (associata di Salini, la stessa che ha firmato la VIA per Gilgel Gibe II) appena un mese prima della firma del contratto, rendendo molto difficile l'approvazione di un'opera con una genesi del genere, a meno di non nominare Bertolaso commissario per Gilgel Gibe e dotarlo della solita discrezionalità di spesa in nome dell'emergenza. Per ora sembra che solo la Banca Africana d'Investimento abbia promesso un prestito modesto, vincolato all'acquisto dei macchinari necessari, da effettuarsi obbligatoriamente con una gara internazionale. Tra i possibili cavalieri in aiuto restano solo il governo italiano e quello etiope, che ha già speso parecchio (indebitandosi ulteriormente) per la fase III e che dovrebbe quindi ricorrere al mercato per esporsi con una cifra altissima, pagando interessi più alti di quelli offerti in passato dai partner nell'impresa. Difficoltà che colpiscono i progetti futuri di Salini, ma che non incrineranno la redditività delle operazioni pregresse. Simonpietro Salini (già iscritto egli elenchi P2 al numero 531 “in sonno” e noto come Simone l'africano) è già uscito vittorioso da imprese simili in Uganda, in Sierra Leone e ancora in Etiopia, ai bei tempi dei governi del Caf, quando il Fondo Aiuti Italiani spendeva migliaia di miliardi tra Somalia ed Etiopia e Salini ne vaporizzava una buona parte nel progetto del Tana Beles, voluto da Menghistu, dove ora non rimane nulla. Le donazioni e i prestiti del governo Berlusconi sono criticati dall'OSCE, perché hanno di fatto trasformato gli aiuti ai paesi poveri (anche quella quota tanto misera da far guadagnare a Berlusconi l'accusa di “taccagno”) in aiuti di Stato alle aziende italiane e in finanziamenti occulti alla corrotta dittatura etiope. Una mascherata che non ha ingannato nessuno, ma che grazie alla collaborazione dei corrotti governi locali e al disinteresse dei media italiani sembra destinata a passare impunita e a ripetersi nel tempo. L'ultima evoluzione di Salini è infatti la sua acquisizione da parte di Todini Spa, che fa del nuovo gruppo il terzo per dimensione in Italia. Probabilmente Luisa Todini, esponente di spicco di Forza Italia e leader del nuovo gruppo, avrà meno difficoltà a trovare le coperture finanziarie necessarie a completare questa e altre opere discutibili. Forse è il caso di prepararsi a “donare” ancora una volta all'Etiopia e a un'altra sceneggiata come quella con la Libia. Berlusconi chiederà perdono all'Etiopia per il colonialismo e offrirà come riparazione i soldi per la grossa diga alla dittatura etiope e vivranno tutti felici e contenti, superando con brillantezza tutti i lacci e laccioli che penalizzano la nostra imprenditoria nella sua proiezione sui mercati esteri. Peccato solo che gli etiopi che vivono nella zona interessata dai lavori vedranno le loro vite sconvolte, che gli altri etiopi non potranno comunque usare l'energia prodotta dalla diga e che i contribuenti italiani continueranno a finanziare questo genere di buchi nel fango che inghiottono centinaia di milioni di Euro in nome dell'aiuto ai paesi sottosviluppati.

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