lunedì 5 luglio 2010

Il calvario dei detenuti eritrei bastonati nelle carceri libiche

Sono 250 i cittadini eritrei sistematicamente percossi e rinchiusi in condizioni aberranti, puniti dalle autorità libiche perché hanno osato rifiutare la firma su moduli che avrebbero sancito il loro reimpatrio e, dunque, la morte di CARLO CIAVONI ROMA - "Siete stati fortunati a prendere solo tante bastonate. Avete infranto la legge libica e questo non è accettabile. Potevate pagare con la vita quello che avete fatto, senza neanche il processo". Sono le parole del direttore del carcere di Al Braq, 75 chilometri a sud di Sebah, temutissimo centro di detenzione in mezzo al deserto dove, dal 30 giugno scorso, sono assiepati tra gli altri 250 cittadini eritrei, fra i quali ci sono 18 donne e bambini, arrivati lì dopo un viaggio di 12 ore in un camion-container infuocato dal sole, senza acqua né cibo e con temperature fino a 50°. Erano stati intercettati domenica 6 giugno scorso in mare, in acque internazionali, a circa 20 miglia da Lampedusa, da una nave militare libica, arrivata a prelevarli "molto probabilmente dopo una segnalazione delle autorità italiane o maltesi, che ormai, a quanto pare, non intervengono neanche più" - dice Cristopher Hein, direttore del Consiglio Italiano per i Rifugiati - evidentemente per consegnarli direttamente ai carcerieri libici. Come da accordi. A denunciare questo ennesimo esempio di scempio dei più elementari diritti umani da parte delle autorità libiche è stato il quotidiano l'Unità. Rischiano la vita. La "fortuna di essere presi a bastonate", torturati e insultati di continuo, le persone recluse l'hanno avuta dopo essersi rifiutati di firmare dei moduli che i secondini del carcere avevano loro sottoposto e che, secondo gli stessi detenuti, avevano tutta l'aria di essere dei fogli di rimpatrio. Una specie di auto condanna a morte o, nella migliore delle ipotesi, ai lavori forzati per diserzione. Le persone recluse in condizioni che definire animalesche non rende perfettamente l'idea, sono tutte fuggite dall'Eritrea per evitare - appunto - il servizio militare, svolto in condizioni infami e in luoghi impervi e in modo permanente, in un Paese chiuso, isolato e governato da una classe politica arroccata e iper militarizzata nella delicata e complessa regione del Corno d'Africa e che sembra voler stringere rapporti solo con Gheddafi. Picchiati anche con le fratture. Le legnate sono state inflitte - e vengono regolarmente ancora "garantite", stando alla testimonianza di Moses Zerai, direttore dell'agenzia eritrea Habeshia - ad ogni tentativo di protesta nel carcere di Al Brak, dove non c'è cibo sufficiente per tutti, non c'è acqua, non ci sono servizi igienici e non viene fornita la minima assistenza neanche alle persone che, per via delle percosse, hanno subito fratture alle braccia, alle costole o alle gambe. L'aiuto con un Sms. Tutto è cominciato con un Sms, proveniente da uno dei pochi cellulari rimasti ancora, chissà come, nelle mani dei reclusi nel carcere di Misurata, la città che s'affaccia sul Golfo della Sirte, dove vengono deportati tutti gli immigrati provenienti dal Corno d'Africa, non appena consegnati alla Libia, dalle navi italiane o maltesi. A ricevere l'sms è stato Moses Zerai: "Ci stanno ammazzando", diceva il messaggio "fate qualcosa". Si è temuto che, data la vicinanza di Al Brak con Sebah, dove c'è un aeroporto, il rimpatrio in Eritrea fosse imminente. Invece i contatti con i 250 disperati si sono avuti anche poche ore fa: si trovano ancora nel carcere di Al Braq, ma temono la visita dell'ambasciatore eritreo che, secondo loro, non annuncia nulla di buono. "E' la dimostrazione - hanno raccontato al telefono - di un accordo scellerato fra autorità libiche ed eritree per il nostro rimpatrio". Sarebbe urgente - ha detto Moses Zerai - "che all'incontro partecipassero altre figure "'terze', come l'Unhcr (che da poco ha riaperto i suoi uffici a Tripoli, dopo la chiusura 1 di circa un mese fa) o del governo italiano, che in storie come queste non ha poche responsabilità". Jean-Léonard Touadi. Il parlamentare del Pd ha detto che "Prosegue in Libia la lenta e pianificata agonia dei 250 rifugiati eritrei nel campo Al Braq e di Shebah, nel Sud della Libia. A più di tre giorni dalla richiesta di soccorso, inviata con Sms dall'interno dei container e delle roventi celle sotterranee del campo, il governo italiano ha scelto la linea dura e cinica del silenzio. Un muro di gomma d'indifferenza che con il passare delle ore diventa complicità e avallo implicito dello scellerato e criminale operato del governo libico. Tacciono anche i "difensori della vita", solitamente molto loquaci e con magafoni potenti" - ha detto ancora Touadi - "ma noi non taceremo. Continueremo, anzi, a chiedere al governo di vigilare sui diritti umani, attraverso l'ordine del giorno Marcenaro - accolto al Senato- che impegna il governo italiano a monitorare l'applicazione del Trattato di amicizia Italia-Libia." Rita Borsellino. L'europarlamentare del Pd Rita Borsellino, ha chiesto che "Il governo italiano non si macchi del sangue dei 250 profughi eritrei e somali trattenuti sotto torture e pestaggi nelle carceri libiche di Sabah e Al Braq. Ho sempre detto - ha aggiunto - che gli accordi bilaterali con Tripoli non possono non prevedere delle garanzie sul rispetto dei diritti umani e del diritto all'asilo, come sancito da quella Convenzione di Ginevra, che la Libia non ha mai firmato". L'impegno di Frattini. Il CIR - consiglio Italiano per i Rifugiati, presieduto da Savino Pezzotta - fa notare che "tra le persone ci sono numerosi rifugiati eritrei respinti nel 2009 dalle forze italiane dal Canale di Sicilia in Libia. Anche in riferimento al trattato di amicizia italo-libico, lo stesso CIR aveva chiesto l'intervento del Presidente del Consiglio Berlusconi e del Ministro degli Affari Esteri Frattini, di fronte all'eminente pericolo di vita di molte persone. qualche ora fa, il capo della Farnesina ha infatti telefonato a Pezzotta per rassicurarlo che il governo italiano "si sta adoperando per i rifugiati eritrei". L'appello a Napolitano. L'organismo di tutela per i richiedenti asilo politico - e gli eritrei sono i cittadini che otterrebbero quasi automaticamente questo status, se solo le autorità italiane consentisse loro di parlare - ha inviato una lettera al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, appellandosi alla sua sensibilità per i diritti umani. Contemporaneamente, ha scritto una lettera al Ministro dell'Interno Maroni chiedendo che l'Italia si faccia carico di queste persone offrendo al governo libico l'immediato trasferimento e reinsediamento nel nostro Paese. Il reimpatrio dei nigerini. Nel frattempo la Libia si appresta a rimpatriare più di 260 prigionieri provenienti dal Niger, un paese governato da una giunta militare, ma soprattutto grande esportatore di uranio. Lo afferma l'agenzia libica Jana. Diverse organizzazioni internazionali - ma nessun governo - hanno attaccato la Libia per quello che ritengono un "trattamento inumano" dei cittadini di altri Paesi africani, che finiscono nelle sue carceri, mai considerati dei possibili rifugiati in fuga da soprusi, violenze e guerre, e invece sempre, e comunque, trattati come delinquenti immigrati illegali. Lo scorso mese la Libia ha siglato un accordo sulla cooperazione giudiziaria con la giunta militare del Niger. Secondo l'agenzia Jana, 111 prigionieri hanno già lasciato Tripoli e altri 150 sono in partenza.

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