lunedì 30 agosto 2010

Cinque domande per Gheddafi

Mentre il paese guarda le hostess e i cavalli, l'Unità chiede conto al regime libico delle violazioni dei diritti umani“Purtroppo le notizie sono scarse perché i giornalisti non hanno possibilità di muoversi liberamente nel paese di Gheddafi”, scrive Umberto de Giovannangeli sull’Unità di oggi introducendo cinque domande sul regime libico a cui non è facile ottenere risposta: per la ritrosia di Gheddafi e per il polverone circense mediatico sollevato a forza di hostess, cavalli e baracconate imbarazzanti avallate dal nostro governo. 1. Colonnello Gheddafi, che fine hanno fatto i 250 eritrei rinchiusi nei campi in Libia?Per giorni sono stati segregati nel carcere di Brak, sottoposti a violenze fisiche e psicologiche. Oltre cento di loro avevano cercato di raggiungere l’Italia per veder riconosciuto il loro diritto di asilo. Sono stati ricacciati indietro. «Liberati» dal lager, di loro non si ha più notizia. Molti di loro sono costretti a una quotidianità di stenti, a dormire nelle strade, a vivere di elemosina. «Siamo trattati come bestie», è il loro disperato racconto. Chiedono di poter essere accolti in un Paese terzo. Nessuno gli ha dato ascolto. 2. Colonnello Gheddafi, perchè non sottoscrive la Convenzione di Ginevra sul diritto d’asilo?Nonostante le sollecitazioni delle più importanti organizzazioni per i diritti umani, la Libia non ha ancora sottoscritto la Convenzione Onu sui rifugiati del 1951, il testo base che garantisce il rispetto dei diritti umani e la tutela di chi è costretto a fuggire dal proprio Paese. L’art. 33 parla del divieto di respingimento. Rapporti aggiornati di Amnesty International e Human Rights Watch, segnalano, documentandoli, numerosi casi di tortura da parte della polizia e dei servizi di sicurezza libici contro oppositori politici. 3. Colonnello, perché non apre le porte dei centri di accoglienza ai giornalisti? Poter raccontare la realtà dei «centri di accoglienza» libici. Poter liberamente parlare con coloro che in quei centri sono passati. A chiederlo sono in tanti. A farsi portavoce della richiesta generale è soprattutto il presidente della Federazione nazionale della Stampa italiana (Fnsi), Roberto Natale. La richiesta della Fnsi è rivolta anche al Governo italiano affinché si faccia parte attiva per sostenerla con le autorità libiche. Finora, senza risultati. Per la stampa libera, la Libia rimane off-limits. 4. Signor Colonnello, è vero che lei ha chiuso tutti i centri di detenzione?L’ambasciatore libico a Roma lo ha affermato pubblicamente: tutti i centri di detenzione nei quali venivano segregati tutti coloro – migliaia – che erano ritenuti da Tripoli «migranti illegali», sono stati chiusi. Le testimonianze raccolte da l’Unità danno conto di una realtà ben diversa: la stragrande maggioranza di questi centri detentivi sono ancora in funzione. Così come risultano proseguire le retate di eritrei, somali, nigeriani «colpevoli» di voler cercare un futuro in Europa, fuggendo da situazioni infernali. 5. Signor Colonnello, risulta che lei faccia affari con il premier Berlusconi. È vero?Business nel campo televisivo, compartecipazione di società nel cui gruppo azionario sono presenti altre società legate alla famiglia del Premier o a quella del Colonnello. Il Guardian lo ha scoperto. L’Unità ne ha dato conto, subendo gli strali dell’onorevole Ghedini, avvocato di Silvio Berlusconi. Palazzo Chigi ha smentito qualsiasi rapporto di affari fra Berlusconi e Gheddafi. A farlo è anche un personaggio-chiave della partita: il produttore-finanziere franco-tunisino, Tarak Ben Ammar. I dubbi restano.

Italia-Libia/Mons. Mogavero: a Gheddafi chiederò degli immigrati

"Non si può essere succubi o complici" Roma, 30 ago. (Apcom) - "Gli chiederò notizie sui campi di detenzione in Libia". Monsignor Domenico Mogavero, vescovo di Mazara del Vallo che questa sera incontrerà il colonnello all'Accademia libica, promette che almeno la Chiesa non tacerà sul tema degli immigrati con il leader della Libia in visita a Roma per la Giornata dell'Amicizia che celebra il trattato fra i due paesi. Quanto alla frase del colonnello che ieri avrebbe detto "L'Europa dovrebbe diventare musulmana", per il vescovo, presidente del Consiglio Cei per gli affari giuridici, "è una battuta propagandistica a effetto ma anche un'utile provocazione per ricordare all'occidente agnostico che nega le proprie radici cristiane l'importanza della religione nella formazione dell'identità nazionale". Mogavero parla della politica dei respingimenti in mare, che assieme allo stretto controllo dell'immigrazione da parte libica in seguito all'accordo del 2008 ha portato a un crollo verticale degli sbarchi dall'Africa in Italia, ma anche a un crollo delle richieste d'asilo. "E' preoccupante che non si sappia nulla di ciò che accade ai disperati d'Africa arrestati dalla polizia libica. Ne ho già discusso col ministro Maroni. Non si può chiudere gli occhi di fronte a condizioni contrarie alla dignità umana". E prosegue, "l'auspicio è che il confronto diretto con Gheddafi faccia riflettere tutti sulla politica dei respingimenti in mare dei migranti" perché "nessuno sa quale destino attende gli extracomunitari quando vengono riportati in Libia". Mogavero sottolinea che "visto che dall'Italia non ho avuto risposte lo chiederò direttamente a Gheddafi". Al Convegno all'accademia libica, spiega, è stato invitato "dall'Accademia e dalla presidenza del Consiglio" e aggiunge "confido che il cerimoniale non impedirà un confronto franco sui contenuti. Non si può essere succubi o complici e mettere la testa sotto la sabbia".

domenica 29 agosto 2010

Italia-Libia/ Unhcr: in attesa chiarimenti su missione a Tripoli

Boldrini: da fine giugno siamo in sospeso Roma, 29 ago. (Apcom) - Mentre Muammar Gheddafi è sbarcato a Roma per una visita ricca di folclore, affari e politica, l'Alto commissariato Onu per i rifugiati auspica che si possa presto giungere a una definizione della sua missione a Tripoli, attualmente in attesa di chiarimenti. "Il nostro auspicio" commenta Laura Boldrini, portavoce in Italia dell'Unhcr, "è che alla fine del Ramadan si possa concludere la trattativa e firmare un vero e proprio 'accordo di sede' per la nostra presenza in Libia". L'Unhcr lavora in Libia da 19 anni ma il suo ufficio è stato chiuso a inizio giugno proprio per l'assenza di un 'accordo di sede', e riaperto, a fine giugno, con forti limitazioni; al personale è stato chiesto di occuparsi solo dei casi di richiesta d'asilo già avviate, senza aprire nuove pratiche. Tuttavia, ricorda Boldrini, in vari Paesi e su richiesta del governo locale l'Unhcr opera anche senza accordo di sede, come avvenne in Siria dopo l'arrivo massiccio dei rifugiati iracheni. La presenza dell'Alto commissariato in Libia è divenuta cruciale per i richiedenti asilo dopo l'accordo fra Tripoli e Roma che sancisce il controllo dei flussi migratori da parte libica, e dopo l'avvio da parte italiana della politica dei 'respingimenti in mare' per i barconi che giungono dalle coste libiche. La strategia, come ricorda spesso il ministro dell'Interno Roberto Maroni, ha portato a un crollo verticale degli sbarchi di immigrati sulle coste italiane, ma anche delle domande di asilo. Boldrini ricorda infatti che "prima della politica dei respingimenti, il 75% di coloro che arrivavano in Italia partendo dalle coste libiche faceva richiesta di asilo nel nostro Paese, che al 50% di queste persone riconosceva una forma di protezione". In prevalenza si trattava di africani: somali, eritrei, sudanesi, nigeriani. Prima della chiusura del 2 giugno, "operavamo con dei limiti perché non ci era consentito l'accesso in tutti i centri di detenzione, e perché non c'è una legge sull'asilo in Libia, ma eravamo un riferimento per chi giungeva bisognoso di protezione", ricorda Boldrini. Dopo la riapertura a fine giugno, "fisicamente siamo in ufficio ma solo per occuparci dei vecchi casi. E' una riapertura parziale che deve essere finalizzata, e siamo in attesa per capire che raggio d'azione potremo avere". L'auspicio, ribadisce Boldrini, è che "dopo la festa dell'Eid al Fithr, per la fine del Ramadan, potremo firmare questo accordo di sede che servirà a istituzionalizzare la nostra presenza".

mercoledì 25 agosto 2010

La nuova immigrazione nello Ionio Sbarco con veliero da 250.000 euro

L'imbarcazione intercettata a Guardavalle nello Ionio Una ventina di clandestini costretti a gettarsi in mareCATANZARO (25 agosto) - Motovedette della guardia costiera e della guardia di finanza stanno effettuando ricerche nel tratto di mare tra Santa Caterina dello Ionio e Guardavalle, per trovare eventuali dispersi dello sbarco avvenuto la notte scorsa. Le ricerche, al momento, non hanno dato esito. Gli immigrati rintracciati a terra, infatti, hanno raccontato che a bordo del veliero, poi intercettato ad una ventina di miglia dalla costa, erano in una sessantina e che gli scafisti, per accelerare le operazioni di sbarco, hanno costretto una ventina di loro a gettarsi in mare. Il veliero, secondo il loro racconto, ha gettato l'ancora ad un centinaio di metri dalla riva ed i primi sbarchi sono avvenuti con un gommone che è stato trovato al traino dell'imbarcazione. Poi gli scafisti hanno deciso di far gettare a mare gli ultimi immigrati rimasti a bordo ed hanno preso il largo. Le forze dell'ordine, comunque, non hanno certezze circa la presenza di dispersi in mare, anche perchè molti degli immigrati trovati a riva avevano gli abiti bagnati, il che potrebbe voler dire che anche coloro che sono stati gettati a mare sono comunque riusciti a raggiungere la costa. Lo sbarco, secondo quanto hanno raccontato gli immigrati, è avvenuto intorno alle 22.30 di ieri sera, ma l'allarme è scattato solo dopo la mezzanotte. Ha un valore stimato di circa 250 mila euro, il veliero a bordo del quale una cinquantina di clandestini afghani sono giunti sulle coste calabresi. Si tratta di un'imbarcazione di 16 metri dotata anche di un motore entrobordo. Lo si è appreso in ambienti investigativi. La circostanza conferma il cambiamento della strategia usata dagli scafisti, che adesso non si affidano più a vecchie navi a perdere da abbandonare sulla battigia, ma ad imbarcazioni di lusso. Negli ultimi mesi, per gli sbarchi sulle coste calabresi, infatti, sono state usate due barche a vela, un potente gommone e, il 19 agosto scorso, addirittura uno yacht. Il veliero, scortato da una vedetta della guardia di finanza, è giunto nel porto di Roccella Ionica dopo una navigazione di otto ore. Dopo la scoperta dello sbarco, è stato dato l'allarme a tutte le unità navali presenti nel mare Ionio che hanno bloccato tre imbarcazioni «sospette». L'attenzione degli investigatori, però, si è concentrata sul veliero, intercettato da un guardacoste della Marina militare di Taranto a 25 miglia al largo di Punta Stilo, nel reggino. Sul posto è intervenuta poi una motovedetta della guardia di finanza che ha preso in consegna l'imbarcazione scortandola nel porto di Roccella. I due occupanti, un ucraino ed un palestinese, vengono adesso interrogati dagli investigatori. Al traino del veliero, i finanzieri hanno trovato un gommone a motore che sarebbe stato usato nelle prime fasi dello sbarco dei clandestini.

Hosts Eritrea seek semifinal spot

Hosts Eritrea will seek to cross a significant landmark at the Council of East and Central Africa Football Association (Cecafa) Under-20 Championship semifinal in Asmara on Wednesday night. Never before has an Eritrean team reached the semifinal of a Cecafa tournament. Now their semifinal opponents, Rwanda, are the only hurdle they need to overcome to make a historic appearance in a Cecafa final. Eritrea’s coach, Negash Teklit, has cautioned his team against underrating Rwanda. “They fielded an Under-17 side for this tournament and no one expected them to reach this far. Now that they have arrived at this stage, we cannot take them for granted,” said Teklit. The Rwandese have grown more confident as the tournament progressed. After brushing past Yemen 1-0 in their last Group B fixture, they are no pushovers. “We have a young side who, what they lack in physical strength, compensate for with skill and teamwork. The boys will give it their all,” said Rwanda’s Richard Tardy.

Eritrea spurs insecurity in the Horn of Africa

Former rebel leader, now president, Isaias Afwerki has created one of the world's nastiest dictatorships By Jonathan Manthorpe, Vancouver Sun August 25, 2010 Lying flat in Mogadishu while bullets thudded into the wall behind which we were cowering, an American buddy and I were discussing what to do about the chaos that is Somalia. "If the world had any sense," said my colleague, who was speaking nearly 20 years ago though the same question is just as valid today, "Somalia would be handed to the Eritreans to run." "Problem is," he went on, "the Eritreans are far too sensible to take the deal." At that time, in the early 1990s, the Eritreans stood out as among the most competent and functional nations in a continent without traction. Eritrea was at that time part of Ethiopia and gave the Horn of Africa nation its only access to the ocean, the Red Sea. But the Eritrean People's Liberation Front (EPLF) had already liberated most of its country and was the driving force in the rebel armies then closing in on the Ethiopian capital Addis Ababa to oust the dictator Mengistu Haile Mariam. What has happened since is a sad failure of one of the most promising new nations in Africa. Instead of emerging as an example of what can be achieved, Eritrea is now entrenched as a problem whose name always pops up when there is trouble in the Horn of Africa. Who's sending arms to the al-Shabaab militant Islamists in Somalia as they attempt to overthrow the remnants of the feeble UN-backed transitional government in Mogadishu? Eritrea. Just to the north in Puntland, a mini-state created in 1998 in an attempt to fashion a functional nation out of Somalia's chaos, who's sending guns to the anti-government warlord Mohamed Said Atom? Eritrea. Whose troops invaded the border region of Djibouti a while ago, perplexing not only the French and Americans who have substantial military bases in the former French colony, but also Ethiopia? Eritrea, of course. But it is not Eritrea and Eritreans who are to blame for their country becoming a hub of regional insecurity. That credit goes to their president, Isaias Afwerki, the former leader of the EPLF, who has achieved the sorry distinction of creating one of the world's nastiest dictatorships. Afwerki's approach to personal political survival depends on fomenting disputes with his neighbours while brooking no opposition or transparency at home. Even though Eritrea emerged from the Ethiopian civil war with many problems, there was much optimism that Afwerki was the man for the job after the 1993 UN-supervised referendum created the new nation. But Afwerki soon displayed his dictatorial instincts. Within months of the referendum, he ordered imprisonment of injured war veterans who had the temerity to protest against their difficult living conditions. Then he shut down human rights organizations and expelled international development agencies. The media are now totally government owned and directed. Would-be independent journalists make up a large group among the country's political prisoners. There was meant to be the introduction of a democratic constitution and elections in 1997. But these never happened and a couple of years ago Afwerki said he believes it will be "three or four decades" before the country is ready for elections. As always happens, the more he has consolidated power, the more paranoid and suspicious he has become about the loyalty of those around him. In 2001 a dozen or so of the top officials in his government, most of whom had been friends and allies since the early days of their separatist uprising, were detained on suspicion of treason. But Afwerki's special fear is neighbouring Ethiopia, which is a bit ironic because that's where his family comes from. He pushed disputes over the new Eritrea-Ethiopia border into a full-blown war in 1998 and has done all he can to cause problems for the Addis Ababa government ever since. Late last year the UN and the United States imposed sanctions on Afwerki's regime for its arms shipments to al-Shabaab in Somalia and incursions into Djibouti. Afwerki has withdrawn from Djibouti, but there are as-yet unconfirmed reports he has taken on a new role as a proxy for Iran in its contest with Saudi Arabia and Egypt for influence in the region. jmanthorpe@vancouversun.com © Copyright (c) The Vancouver Sun Read more: http://www.vancouversun.com/news/Eritrea+spurs+insecurity+Horn+Africa/3440218/story.html#ixzz0xd7ppNjF

venerdì 20 agosto 2010

Colonialismo: Montanelli, una moglie di 12 anni in Eritrea

Rai.tv Nel 1935, in Eritrea col grado di sottotenente delle truppe coloniali, gli venne affidato il comando di una compagnia del ventesimo battaglione eritreo. ...

mercoledì 18 agosto 2010

Immigrazione: la Libia ha già riaperto le carceri-lager per migranti e profughi

di Umberto De Giovannangeli L’Unità, 9 agosto 2010 Alcuni tra gli eritrei scarcerati sono ancora là, a Sebah. Molti sono nella capitale. Tutti tra 90 giorni saranno di nuovo clandestini. L’appello: l’Italia li accolga. Finiti nel dimenticatoio. In attesa di essere trattati di nuovo come migranti illegali e quindi ricacciati nei lager da cui erano stati “liberati”. Lager che, a quanto risulta a l’Unità, continuano a funzionare, e che tornano a riempirsi di “migranti illegali”, eritrei, somali... È la storia degli oltre duecento eritrei finiti nelle carceri libiche. Una tragedia che si vorrebbe archiviare in un silenzio distratto. Un silenzio complice. La maggior parte dei 205 eritrei è riuscita a raggiungere Tripoli, ma una ventina di loro è ancora a Sebah, nel deserto libico, condannati a una vita di stenti, a dormire per strada, a essere assistiti solo da un missionario. E fra poco più di novanta giorni scadrà per tutti loro il permesso temporaneo concesso dal Governo libico; se in questo arco di tempo non avranno presentato la necessaria documentazione, concessa dall’ambasciata eritrea, Paese dal quale i 205 sono fuggiti, saranno ricacciati in carcere, trattati come migranti illegali. Una condizione contro cui si ribella don Mussie Zerai, il coraggioso sacerdote eritreo responsabile dell’associazione Habeshia che si occupa dei migranti africani in Italia: “Rinnoviamo il nostro appello a favore dei richiedenti asilo politico bloccati in Libia - scrive don Zerai - chiediamo che venga trovata una reale soluzione al problema, con un progetto di reinsediamento dei rifugiati e bisognosi di protezione internazionale in Europa. La situazione attuale dei 400 eritrei e di circa 3.000 tra somali, sudanesi, etiopi ed eritrei bloccati dal muro di gomma voluto dall’Europa, è una condizione di totale abbandono, gente che sopravvive accettando lavoro che gli riduce a nuovi schiavi, donne costrette a prostituirsi, situazioni non più tollerabili di degrado della dignità umana. “È la sorte che - rimarca l’appello - ha toccato gli Eritrei “liberati” dal carcere di Al-Braq, quella di vivere la vita da barboni con un permesso di soggiorno per tre mesi in mano. Tra pochi mesi torneranno clandestini, perché non potranno presentare un documento di riconoscimento rilasciato dalle autorità del paese di origine. Ecco perché chiediamo una soluzione vera al problema di questi richiedenti asilo politico eritrei, somali, sudanesi, etiopi. Torniamo a chiedere all’Italia di fare il primo passo offrendo a queste persone un’accoglienza nel suo territorio, almeno a quelle persone a cui è stato negato l’ingresso in Italia, che sono state riconsegnate dalle autorità italiane a quelle libiche come ha confermato lo stesso ministro libico, 250 eritrei sono state riconsegnate dai militari italiani a quelli libici. “Sappiamo - rileva ancora don Zerai - che l’Italia può mostrare il suo volto più umano, lo ha già fatto anche in passato accogliendo circa 130 eritrei con il programma di reinsediamento dalla Libia. Questa esperienza positiva che dà un ingresso legale, protetto ai richiedenti asilo politico, così non sono costretti ad affidarsi nelle mani dei trafficanti rischiando la vita nel mare. Il Mediterraneo è già un cimitero a cielo aperto per centinaia di migranti, ricordiamo quello accaduto un anno fa quando 73 eritrei morirono nell’indifferenza totale dei Paesi che si affacciano nel Mediterraneo, in particolare di quelli che hanno il compito di pattugliamento congiunto, in primis Frontex che dovrebbe prevenire rischi del genere, non ha fatto nulla per salvare quelle vite umane. Un anniversario doloroso per noi che abbiamo visto morire i nostri connazionali giovanissimi, con tanta voglia di vivere, di speranza in una nuova vita da costruire in Europa, sognando libertà, democrazia e benessere. Aprite una porta. Chi è disperato, chi fugge da persecuzioni, guerre, catastrofi naturali possa entrare a trovare rifugio”.

Uno stato senza doveri, abbandona Rifugiati per strada

Profughi eritrei a Torino, Chiamparino accusa: “Sobillati dai no global”. Tensioni con l’Onu Quindici profughi “sobillati dai centri sociali”, un palazzo da vendere per fare cassa, un sindaco di sinistra “ma non troppo”, visto che piace persino a Umberto Bossi, infine l’alto Commissariato dell’Onu che chiede chiarimenti. A Torino è polemica tra il primo cittadino Sergio Chiamparino e l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati dell’Onu. Il sindaco li vuole cacciare dal palazzo che hanno occupato (l’ex clinica San Paolo) per venderlo, l’Onu vuole spiegazioni sull’improvviso ricorso al pugno di ferro. Chiamparino se la prende e risponde stizzito invitando l’Onu ad informarsi prima di parlare. Insomma il sindaco non ci sta a fare la parte dello sceriffo insensibile ai diritti umani, usati spesso a sproposito o strumentalmente, con il solo effetto di scontentare la gente comune che vuole che i problemi vengano affrontati e non nascosti sotto il tappetto di un astratto senso di solidarietà. Spalancando praterie a destra. Tutto inizia quando sotto la Mole arrivano 300 profughi somali ed eritrei che occupano l’ex clinica San Paolo. Chiamparino racconta: “Lì, certo, non potevano stare. Allora, ho fatto in modo di spostarli, erano 300, temporaneamente, nell’ex caserma di via Asti. Gli ho proposto un programma di inserimento, con relativo sostegno economico. Risultato? Alcuni se ne sono andati spontaneamente, 230 hanno aderito all’offerta”. Chiamparino, quindi, a passare per il sindaco decisionista che ammicca agli elettori leghisti non ci sta, e risponde piccato al Corriere della Sera: “Noi, i rifugiati li aiutiamo, non li cacciamo, prima di alzare il dito, la portavoce Onu s’informi bene”. La sostanza, però, rimane la stessa: i profughi che non hanno accettato i piani del Comune devono sloggiare perché il palazzo va venduto. E il primo cittadino ci mette il carico, puntando il dito contro la sinistra radicale: “Quindici di loro, sobillati dai centri sociali e appoggiati da Rifondazione, invece, via di lì hanno occupato l’ex sede dei vigili, in corso Chieri”. E poi, prosegue Chiamparino “c’è da considerare la scelta di altri 18 profughi, questa volta eritrei, che mai starebbero con i somali per assoluta incompatibilità, insediati abusivamente in un edificio adiacente all’ex clinica San Paolo. Trattasi di proprietà privata. Al riguardo, mi risulta che il Prefetto abbia invitato i proprietari alla prudenza, negli sgomberi”. E l’Onu? La portavoce Laura Boldrini, dopo aver gettato il sasso della richiesta dei chiarimenti, nasconde un po’ la mano e precisa: “Non c’è nessuna intenzione di mettere i voti, tantomeno a Chiamparino, era solo una richiesta di chiarimento” fatta a lui perché è alla guida dell’Associazione dei Comuni Italiani”. Chiamparino, in ogni caso, non ha gradito e ha replicato: “Siete disinformati, fischiate al fallo con facilità”. La sensazione, in fondo, è che la vicenda tocchi uno dei nervi tradizionalmente scoperti per le amministrazioni locali di sinistra. È accaduto, per storie diverse ma sempre legate alla questione immigrazione, ad altri sindaci come Matteo Renzi a Firenze e Sergio Cofferati a Bologna. Ogni volta che si studiano soluzioni, giuste o sbagliate che siano, per problemi relativi ad immigrazione e ordine pubblico si viene “bollati” come uomini di destra.

martedì 17 agosto 2010

Strage al confine con Israele, sei migranti abbattuti a raffiche di mitra

EGITTO Quattro assassinati dai trafficanti di esseri umani e due dalle guardie egiziane alla frontiera, una tra le più insanguinate del mondo È la strage di migranti più grave avvenuta nel Sinai, almeno di quelle note in questi ultimi anni. Sei eritrei, fra cui una donna, sono stati uccisi ieri nei pressi della frontiera tra Israele ed Egitto: quattro assassinati dai trafficanti di esseri umani dai quali tentavano di fuggire, due uccisi dai poliziotti di frontiera egiziani. Altri 22 migranti, fra quali alcuni etiopi, sono stati catturati o si sono consegnati alla polizia. A riferirlo le autorità del Cairo, rettificando le prime notizie che parlavano di raffiche dei militari israeliani lungo il confine. Quest'ultimo massacro nel Sinai conferma che la frontiera tra Israele ed Egitto è una delle più insaguinate al mondo. Gli eritrei arrestati hanno raccontato alla polizia che i trafficanti non erano riusciti al primo tentativo a farli entrare clandestinamente in Israele e per effettuarne un secondo avevano chiesto più denaro. I migranti hanno protestato ma sono stati sequestrati e minacciati di morte. Un giovane eritreo è riuscito ad impadronirsi della pistola di uno dei «carcerieri» e a liberare i suoi compagni. Subito dopo i trafficanti hanno cominciato una caccia all'uomo spietata, abbattendo a raffiche di mitra quattro migranti. Ad uccidere altri due eritrei a ridosso del confine con Israele è stata la guardia di frontiera egiziana, che quest'anno ha già colpito a morte 24 africani (l'anno scorso furono 19). Parecchi di quelli che riescono a trovare un varco nei 240 chilometri di confine con lo Stato ebraico - dove il governo di Netanyahu intende costruire un muro - vanno ad Eilat, città turistica dove è più facile trovare un lavoro, poi provano a arrivare a Tel Aviv. Il Cairo non muove un dito per fermare i trafficanti di esseri umani che promettono ad eritrei, etiopi e sudanesi un ingresso «facile» in Israele. Si limita ad ordinare ai suoi soldati di fare fuoco senza esitare, come hanno denunciato Amnesty International e Human Rights Watch. Lo scorso anno in risposta alla critiche, il portavoce del ministero degli affari esteri egiziano, Houssam Zaki, difese l'uso della forza letale. «Abbiamo il diritto e il dovere di proteggere la frontiera del nostro paese dalla criminalità, dal traffico di armi e dal contrabbando», dichiarò Zaki, aggiungendo che i migranti uccisi «non avevano rispettato l'intimazione a fermarsi». Più esplicito fu sulle pagine del quotidiano al Masry al Youm, il governatore del Sinai, generale Mohammed Shousha. «Non è sbagliato aprire il fuoco - disse - perché intimare l'alt non serve a molto, quelli (i migranti) non si fermano». Secondo l'Alto commissariato dell'Onu per i rifugiati, nel 2009 da 2 a 3 milioni di sudanesi, in buona parte migranti ma anche rifugiati, si trovavano in Egitto.Molti eritrei, etiopi e sudanesi provano ad andare in Israele. Sanno di poter morire ma non rinunciano ad infiltrarsi in quello che considerano un pezzo d'Europa. Chi viene arrestato nel migliore dei casi finisce nelle carceri di Burg al Arab ad Alessandria e Qanater al Cairo. Nel peggiore in quelle durissime el-Arish, Rafah, Hurghada, Shallal, Aswan.

lunedì 16 agosto 2010

ITALIA - Immigrazione, a lavoratori stranieri il 23% dei nuovi lavori

In aumento la richiesta di lavoratori immigrati da parte delle imprese italiane. Per il 2010, la domanda delle aziende segna una nuova risalita al 21,3%, con un incremento di oltre 2 punti percentuali delle assunzioni di personale straniero. Lo indica il rapporto Excelsior Unioncamere-ministero del Lavoro. Gli ingressi lavorativi di immigrati dovrebbero quindi passare dalle 158.600 del 2009 a 181 mila di quest'anno, 22.400 in piu' di quelle preventivate. Aumenta al contempo, l'incidenza dei lavoratori stranieri sul totale dei posti di lavoro offerti, arrivando a coprire quasi il 23% del totale delle nuove entrate (22,6% del totale, compresi gli stagionali, rispetto il 20,3% dello scorso anno). Di contro, si contrarranno dello 0,3% le assunzioni di lavoratori italiani (1.840 unita' in meno), con un forte calo (-7,2%) di quelli stagionali che diminuirebbero di 13.500 unita'. L'aumento della propensione ad occupare dipendenti stranieri e' piu' marcato, indica il rapporto Unioncamere, nelle imprese con almeno 50 dipendenti (il 26%, 7,3 punti in piu' rispetto al 2009) anche se la richiesta riguarda le aziende di tutte le classi dimensionali. Le 22.400 possibili assunzioni in piu' di lavoratori immigrati si concentrano soprattutto nei servizi (+16.400) anche se sono le costruzioni a indicare il maggiore incremento relativo (+40,1%), pari in valore assoluto a 5.400 persone. Nell'industria +15,1%. Sono soprattutto le piccole e medie imprese (ossia fino a 249 dipendenti) ad assorbire l'aumento della forza lavoro, con un picco del 37,5% nelle aziende da 10 a 49 dipendenti. Nelle grandi imprese si segnalano invece variazioni negative. Nel corso degli anni la domanda di manodopera straniera, segnala Unioncamere, e' stata molto altalenante: nel 2006 le imprese che prevedevano l'assunzione di immigrati erano poco piu' del 18%, salendo al 25% l'anno seguente; nel biennio successivo (quello della crisi), scendeva nuovamente al 18%. La ripresa dell'interesse per l'assunzione di immigrati avviene inoltre in misura piu' accentuata di quanto avvenga nel complesso delle assunzioni, evidenzia ancora Unioncamere, segnalando un processo sostitutivo della forza lavoro che accentua quindi l'importanza della regolazione dei flussi di immigrati regolari in Italia.

domenica 15 agosto 2010

Egitto, sei migranti eritrei uccisi al confine con Israele

Sei migranti eritrei sono rimasti uccisi in uno scontro a fuoco al confine tra Egitto e Israele mentre cercavano di entrare clandestinamente in Israele. Quattro sono stati assassinati dai tiri dei trafficanti di esseri umani, dai quali stavano tentando di fuggire, gli altri due dai poliziotti di frontiera egiziani. Lo precisa un responsabile dei servizi di sicurezza egiziani. Altre 22 persone, cinque delle quali rimasti feriti, sono state catturate o si sono arresi alla polizia. Gli eritrei arrestati hanno detto che i trafficanti non erano riusciti a farli entrare illegalmente in Israele al primo tentativo, ma si sono rifiutati di lasciarli andare, chiedendo in cambio altro denaro. Sale così a 28 il numero dei migranti uccisi alla frontiera israelo-egiziana dall'inizio dell'anno, 24 dei quali abbattuti dalla polizia egiziana. Quella che passa attraverso il deserto del Sudan e l'Egitto è la nuova rotta della diaspora eritrea e sudandese. In Egitto si entra dal Sudan, via terra, oppure in aereo, atterrando al Cairo con un visto turistico. Dalla capitale, gli intermediari organizzano viaggi nascosti nei camion; il contrabbando nella regione, a causa della vicinanza con la Striscia di Gaza, è fiorente. E non è difficile trovare guide che offrono un passaggio sui fuoristrada verso la frontiera israeliana nel deserto del Sinai. I passeggeri spesso sono abbandonati a se stessi lungo la barriera di filo spinato al confine. Il pericolo maggiore è rappresentato dalla polizia di frontiera, che in questi casi ha l’ordine di sparare a vista. Nel 2008 Amnesty International ha denunciato l’uccisione di 25 profughi.

venerdì 13 agosto 2010

IMMIGRATI: PROVINCIA BOLZANO SI DARA' UNA PROPRIA LEGGE

(ASCA) - Bolzano, 12 ago - La Provincia di Bolzano varera' una propria legge sull'immigrazione. E lo fara' in tempi molto brevi. Lo ha annunciati il presidente Luis Durnwalder ai giornalisti che ha incontrato a Falzes. Ricordate le leggi approvate (dall'edilizia abitativa alla difesa civica, dalle pari opportunita' ala tutela della natura, dalla promozione dei prodotti di qualita' al risparmio energetico), Durnwalder ha poi citato ''quelle politicamente delicate che dobbiamo assolutamente approvare la piu' presto'': la legge sull'immigrazione (''che dovra' disciplinare organicamente gli aiuti, l'inserimento, l'istruzione, la permanenza degli immigrati, la conoscenza della lingua e della realta' locale'') per superare le attuali difficolta' con un testo chiaro, la legge sulla democrazia diretta, (per chiarire modalita' di presentazione, materie e quorum del referendum popolare), la legge sulla toponomastica: ''Il rinvio della legge non ha portato a eccessivi peggioramenti, oggi la collaborazione e' buona e anche i cittadini di lingua italiana capiscono che e' un controsenso tradurre tutti i nomi. Ma persistono gruppi di destra da entrambe le parti che difendono soluzioni radicali: ci vogliono invece buonsenso e buona volonta''', ha ribadito Durnwalder. Anche la legge elettorale ''va fatta subito, senza aspettare l'anno prima delle elezioni perche' sara' troppo tardi.'' In tema di edilizia abitativa, ''e' quasi pronto il regolamento della Giunta che avvia la costruzione di 1000 abitazioni per il ceto medio.'' Ribadito che la segnaletica di montagna ''non deve degenerare in un problema tra italiani e tedeschi, che sarebbe tragico e che va assolutamente evitato con il dialogo'', Durnwalder ha ricordato che dal 2011 24 rifugi passeranno alla Provincia: ''Mi auguro una gestione paritaria a tre con Provincia, CAI e AVS, ma se le parti non trovano un accordo non resta che la gestione diretta della Provincia. Invito ancora i due club alpini a collaborare.'' Di grande interesse per il cittadino anche gli imminenti interventi della Giunta in materia di riforma scolastica che partira' nel 2011 (con adeguamenti nell'offerta formativa e nel piano di distribuzione degli istituti sul territorio), della riforma clinica (''tutti i 7 ospedali verranno mantenuti, vanno chiariti i servizi di base offerti e dove sorgeranno i centri unici di specializzazione''), il redditometro che fissa nuove modalita' di calcolo del reddito della persona per accesso alle prestazioni pubbliche

Immigrazione: LA VERGOGNOSA POLITICA DEL GOVERNO TRA OMISSIONI E DIRITTI NEGATI

di Fabio Evangelisti (IdV) Bookmark and ShareOnorevole Evangelisti, il ministro dell’Interno Roberto Maroni e il governo affermano di aver ridotto a zero gli sbarchi in Sicilia e di aver praticamente risolto il problema dell’immigrazione clandestina. La Caritas invece afferma che gli sbarchi sono ripresi su altre rotte. Chi ha ragione? Hanno ragione entrambi, ma quella del Ministro Maroni è una ragione di cui vergognarsi. La riduzione degli sbarchi in Sicilia in effetti c’è stata, ma è costata all’Italia un’oscena trattativa con il dittatore Gheddafi, costata qualcosa come 5 (cinque) miliardi di euro (euro, non lire) – da pagarsi in vent’anni con strade ed altre opere pubbliche, oltre a motovedette per il pattugliamento in mare, aerei da ricognizione (soltanto?) ed altri armamenti – non potendo conteggiare il dolore e la negazione di ogni diritto umano ai tanti profughi ora detenuti nei terribili campi nel deserto. Cito da il Fatto Quotidiano del 6 Luglio: “Ci torturano a tutte le ore, ci insultano e ci picchiano. Stiamo morendo nel deserto”. E’ il racconto drammatico dei 245 rifugiati eritrei dal centro di detenzione di Braq, vicino a Sebah, nel sud della Libia. Storie nerissime di torture (e violenze) ripetute anche su donne e bambini. La vicenda è emersa grazie all’intervento del Consiglio italiano rifugiati (Cir) e di Amnesty International che (invano) hanno chiesto al nostro Governo di intervenire, ma i nostri ministri son più sensibili alla propaganda che alla pietà umana. Laura Boldrini, portavoce dell’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati, boccia la politica dei respingimenti, definendola inutile e dannosa perché si concentra solo sugli sbarchi, mentre non contrasta affatto gli irregolari che entrano nel nostro Paese come regolari… E qui c’è la seconda vergogna del Ministro Maroni che vanta i ‘successi’ nel canale di Sicilia ma tace sulla vera entità e sulle modalità degli ingressi irregolari nel nostro Paese. Il 90% dei clandestini, infatti, entra nel nostro paese via terra o in aereo, con un permesso provvisorio o un visto turistico, e poi si ferma sul territorio nazionale. Ma vuoi mettere l’effetto che fa l’immagine di un barcone stracolmo rispetto al flusso continuo e silenzioso ai nostri confini di terra!? E’ come per gli incidenti. Cade un aereo, muoiono 200 persone e (giustamente) l’Italia intera s’interroga e s’addolora. Poi le statistiche ci dicono che ogni anno, in Italia, si verificano incidenti stradali che provocano la morte di circa 5.000 (cinquemila) persone e il ferimento di altre 300.000, ma in pochi se ne curano… Poi c’è la questione della violazione dei diritti umani, in relazione soprattutto alle richieste d’asilo che con i respingimenti sono calate drasticamente… Qui, davvero, la Caritas dovrebbe essere più netta nei confronti del Viminale perché c’è davvero poca carità cristiana nella cultura e nella pratica dei respingimenti e del governo dei flussi migratori. I respingimenti in mare (non quelli alla frontiera di Gorizia o di Ventimiglia) mettono in pericolo la vita delle persone. Spesso, poi, rappresentano anche una violazione dei diritti umani e di asilo, perché al Ministero tutti sanno che una percentuale altissima di quelli ai quali viene impedito di mettere piede in Italia sono uomini (e donne e bambini) che verrebbero certamente riconosciuti meritevoli di diritto di asilo politico. Non è un visione buonista ma una tutela garantita per legge. Ripeto: impedirne l’arrivo in Italia significa spesso ledere e negare i diritti fondamentali di persone meritevoli di protezione, in fuga da guerre e persecuzioni. Stando così le cose, come prevede si evolverà la situazione, e come si dovrebbe intervenire sul fenomeno? I flussi migratori rappresentano, al tempo stesso, un problema ed una opportunità. Il problema è rappresentato dall’aumento di una criminalità diffusa e dall’incontro fra questa e le nostre grandi organizzazioni criminali che spesso son dietro il traffico degli esseri umani (si pensi alla droga e alla prostituzione). Una opportunità per la nostra economia (le nostre pensioni, i lavori che noi non facciamo più, l’assistenza e la cura ai nostri anziani). Il rischio è che si continui a confondere sicurezza con ostilità allo straniero. Per questo anche l’Italia dei Valori deve avere una posizione netta: tutti devono rispettare la legge, indipendentemente dal colore della pelle o dalla lingua parlata. In chiave politica, per il futuro immediato, è necessario creare un fronte per la difesa della legalità e per spazzare via il luogo comune che la sicurezza è messa a repentaglio dagli stranieri, mentre ce l’abbiamo in casa, anche tra chi siede sui banchi del governo. L’immigrazione non è e non sarà un fenomeno passeggero, ma caratterizzerà sempre più l’economia globalizzata. Va dunque affrontata in chiave positiva, anche in termini di cooperazione con i paesi in via di sviluppo, poi come integrazione, apertura, rispetto dei diritti e, senza dubbio, difesa della legalità. Senza mai dimenticare, insisto, che l’illegalità non ha né colore né razza.

Eritreo a Castelpietra: «L’integrazione non si regola con gli spot»

di Floriana Bulfon Cesare Castelpietra ha 31 anni ed è stato eletto sindaco nel piccolo di comune di Carzano in provincia di Trento. È giovane ed è di colore. E questo purtroppo crea ancora troppa meraviglia. Eppure Cesare è solo un cittadino del mondo che crede che i giovani debbano avere più spazio in politica. Indipendentemente dal colore della pelle.Mi racconta brevemente la storia della sua famiglia? Negli anni trenta mio nonno Ezio è migrato dal Trentino all’Eritrea per combattere e ha sposato mia nonna, che era di origine eritrea. Lì è nato mio padre che si è a sua volta sposato con una donna eritrea, mia mamma, e lì sono nato io. Purtroppo nei primi anni Ottanta, quando avevo tre anni, la mia famiglia ha dovuto lasciare l’Eritrea a causa della guerra civile e siamo tornati in Valsugana. All’epoca ero l’unico bambino di colore in un paesino di 500 persone, ma non ricordo di aver avuto alcuna difficoltà legata al colore della mia pelle. Se qualcuno mi prendeva in giro lo faceva nello stesso modo in cui i bambini fanno con quello che porta gli occhiali o è più cicciotello.Come mai ha deciso di fare politica e candidarsi a sindaco? Questa è la prima volta che mi candido per una istituzione democratica. Le mie esperienze “politiche” sono state le associazioni universitarie e il servizio civile. La decisione di candidarmi è nata qualche giorno prima della scadenza per la presentazione delle liste, quando insieme a un amico abbiamo scoperto che ci sarebbe stata una sola lista alle elezioni comunali. Questa situazione non ci piaceva e quindi ci siamo messi in gioco.Pensa ci sia spazio per un Obama in Italia? Qualcuno ha definito Vendola l'Obama bianco, lei cosa ne pensa? Secondo me c'è spazio e bisogno di persone per bene. L'indifferenza, l'astensione e la paura del futuro sono i peggiori mali che possono colpire una democrazia e purtroppo è di questi malanni che soffre l'Italia. L'affluenza elettorale è calata drammaticamente nelle ultime elezioni e la sfiducia nella politica ha raggiunto livelli preoccupanti. Il grande merito di Obama è stato quello di convincere i cittadini americani, soprattutto i più scettici, a tornare a occuparsi di politica. Noi abbiamo bisogno di quest’ondata di partecipazione e c’è sicuramente spazio per chiunque sia in grado di provocarla. A oggi Vendola ed Obama hanno in comune di essere stati due outsider, vedremo se il Presidente della regione Puglia sarà in grado di conquistare la fiducia degli italiani.Quali sono a suo avviso i problemi maggiori per un'integrazione riuscita nel nostro Paese? Sinceramente non so quali riforme siano necessarie per migliorare l’integrazione nel nostro paese, però di una cosa sono sicuro, è sbagliato il modo in cui si affronta il problema. L’immigrazione non può essere regolata con spot da campagna elettorale, ma con politiche serie che tengano conto della complessità della materia. Noi abbiamo bisogno di mano d'opera non specializzata e di professionisti internazionali altamente qualificati e per questo ci è indispensabile regolare in modo giusto, umano e non ideologico i flussi migratori.In una terra del nord, dove la Lega ormai è quasi ovunque il primo partito, che cosa pensa abbia spinto i suoi concittadini a votare un sindaco di colore? Penso che le elezioni comunali, soprattutto nei paesi piccoli, siano molto particolari, perché gli elettori non valutano le ideologie politiche, ma i candidati. Per quanto riguarda il successo della Lega e il modo in cui tratta i temi dell’ immigrazione,credo che in periodi di crisi sia più facile trovare un capro espiatorio e dare la colpa ai più deboli. Purtroppo però in questo modo si sposta solo l’attenzione per avere un facile consenso, invece di risolvere davvero i problemi.12 agosto 2010

mercoledì 11 agosto 2010

LIBIA: TURCO, GOVERNO AGISCA SUBITO PER RISPETTO DIRITTO

(AGI) - Roma, 9 ago. - “Il governo accolga l’appello che giunge dalla Libia per salvare le centinaia di immigrati che sono stati scarcerati ma che a tutt’oggi sono ancora a Tripoli. Rischiano di essere ricacciati nelle carceri in condizioni disumane”. Lo afferma Livia Turco, capogruppo Pd in commissione Affari sociali della Camera e responsabile del Forum sull’immigrazione del Pd. “Anziche’ usare il tema dell’immigrazione - aggiunge Turco - come argomento di scorribanda politica in campagna elettorale o durante il braccio di ferro in corso in questi giorni tra le varie fazioni che popolano il Pdl, nella maggioranza si mobilitino per fare qualcosa di concreto per fermare questa strage degli innocenti. Tra di loro ci sono anche i 250 eritrei consegnati dai militari italiani a quelli eritrei. Il governo del nostro paese non puo’ essere complice del trattamento crudele a cui sono sottoposti questi immigrati potenzialmente richiedenti asilo che scappano dai loro paesi ma non possono fare la domanda di asilo politico. L’Italia e l’Europa non possono rimanere indifferenti. In particolare, il nostro Paese faccia sentire la sua voce in Europa e solleciti un’iniziativa umanitaria di accoglienza e integrazione degli etiopi ed eritrei richiedenti asilo che vagano per la Libia e, una volta identificati come tali, renda possibile la presentazione della domanda attraverso l’Ufficio per l’alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati presso la Libia che deve diventare funzionante in modo stabile. Il governo coinvolga, poi, il Parlamento nella gestione del Trattato di amicizia tra Italia e Libia. Ricordiamo che, in base a quanto previsto dagli agli artt. 1 e 6 di questo Trattato, i due paesi si impegnano ad ‘adempiere agli obblighi derivanti dai principi e dalle norme del diritto internazionale e a quelli inerenti all’ordinamento internazionale’ e ad ‘agire di comune accordo conformemente agli obiettivi dei principi della carta delle Nazioni unite della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo’. E’ tempo di agire senza esitazioni”. (AGI) Ted

LIBIA, PROFUGHI ERITREI: "ABBIAMO PAURA, L'ITALIA E L'EUROPA CI AIUTINO"

Esteri Il senatore dell'IDV Leoluca Orlando chiede al Governo italiano di accogliere gli oltre 200 eritrei liberati dalla Libia, dopo essere stati imprigionati nel sud del Paese. Daniel, uno dei profughi, raggiunto al telefono da CNRmedia, ha detto di trovarsi a Tripoli illegalmente e di temere un nuovo arresto. Leggi l'intervista Il senatore dell'IDV Leoluca Orlando chiede al Governo italiano di accogliere gli oltre 200 eritrei liberati dalla Libia, dopo essere stati imprigionati ad Al Braq nel sud del Paese. CNRmedia ha raccolto la testimonianza di Daniel (nome di fantasia), uno dei profughi eritrei: si trova a Tripoli illegalmente e teme di essere catturato dalla polizia. Potrebbero arrestarlo nuovamente o rispedirlo a Sheba, la cittadina dove si trovano ancora un centinaio di suoi connazionali. Dove ti trovi adesso? Adesso sono a Tripoli. Circa un centinaio di noi sono ancora a Sheba, a sud della Libia, al confine con il Ciad. Quelli che hanno un po' di soldi cercheranno di raggiungere Tripoli attraverso il deserto del Sahara. Venire a Tripoli è illegale, per questo bisogna cercare di attraversare il deserto. Com'è stare a Tripoli? In nostro permesso di soggiorno non consente di stare a Tripoli, è illegale. E' valido solo per la cittadina di Sheba, ma non per arrivare nella capitale. Quando ho cercato di prendere l'autobus per arrivare nella capitale la polizia mi ha detto così e mi ha obbligato a scendere. Chi ha un po' di soldi arriva a Tripoli attraverso il deserto. Non avrei il permesso di stare qui. Se la polizia mi trova, potrebbe arrestarmi di nuovo o rimandarmi a Sheba, non lo so. Vivo nella paura. Oggi Leoluca Orlando, un politico italiano, ha chiesto al nostro governo di intervenire per aiutarvi. Spero che l'Italia e l'Europa ci aiutino, spero che lo facciano in nome del nostro Dio. Siamo soli qui, siamo abbandonati. Non possiamo certo chiedere aiuto alla polizia libica. Non abbiamo cibo, casa o lavoro. Siamo soli. Benedetta Dalla Rovere CNRmedia - 09/08/2010

ETIOPIA: MENO RESTRIZIONI PER I RIFUGIATI ERITREI NEI CAMPI

L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) ritiene molto incoraggiante la decisione della scorsa settimana in base alla quale le autorità etiopi allenteranno le restrizioni di movimento per i rifugiati eritrei sulla base di un programma chiamato “fuori dal campo”. Questa nuova politica permetterà ai rifugiati eritrei di vivere fuori dai campi in qualunque parte del Paese, purché siano in grado di provvedere economicamente a se stessi o abbiano un parente o amico in Etiopia che si assuma la responsabilità di mantenerli. Questa decisione è il risultato dei dialoghi intercorsi tra l’UNHCR e il governo etiope. Poiché l’Etiopia e l’Eritrea costituivano un’unica entità politica fino al referendum del 1993, la nuova politica è anche una risposta al desiderio dei rifugiati di rapporti interpersonali più stretti fra i due paesi. Dall’inizio del conflitto tra Etiopia ed Eritrea alla fine degli anni ’90, oltre 60mila eritrei si sono rifugiati in Etiopia. L’UNHCR accoglie con favore la nuova linea politica, visto che introduce ufficialmente in Etiopia un nuovo atteggiamento verso l’ospitalità nei confronti dei rifugiati. Oltre a permettere ai rifugiati di vivere negli insediamenti urbani, segna anche un miglioramento nelle loro possibilità di accesso ai servizi e incoraggia l’integrazione con le comunità ospitanti. Ci si augura che il completo sviluppo di questa politica possa portare a una riduzione dei costi di assistenza ai rifugiati, visto che coloro che beneficeranno del programma si autofinanzieranno, soprattutto attraverso meccanismi di assistenza familiare. È speranza dell’UNHCR che questa decisione possa essere estesa anche a rifugiati di altre nazionalità. Molti somali e altri rifugiati vivono già nei paesi e nelle città etiopi e questo è noto alle autorità. Oggi l’Etiopia ospita circa 138mila rifugiati, tra cui somali, eritrei e sudanesi. Oltre 36mila rifugiati eritrei vivono in tre campi e due centri comunitari in procinto di essere trasformati anch’essi in campi per rifugiati. Qualunque rifugiato eritreo che risiede in un campo e non ha precedenti criminali, ha diritto di beneficiare del programma. Molti eritrei trovano lavoro in nero in Etiopia e solitamente il governo tollera questa pratica. La nuova politica prevede opportunità di formazione professionale e di istruzione che potranno dare ai rifugiati ulteriori mezzi di sostentamento. Secondo l’ufficio UNHCR di Addis Abeba, da quando la scorsa settimana è entrata in vigore questa legge, sembra siano molti i rifugiati eritrei che stanno prendendo in considerazione questa nuova opportunità.

lunedì 9 agosto 2010

URGENT ACTION: REFUGEES REFOULEMENTS FROM ITALY AND MALTA

To the attention of: UN High Commissioner for Human Rights, Mrs. Navi Pillay UN High Commissioner for Refugees, Mr. Antonio Guterres Council of Europe Human Rights Commissioner, Mr. Thomas Hammarberg EU Commission members We express our concern and disappointment about the continous refoulments of Eritrean and Somalian refugees, carried out by the Governments of Italy and Malta. We ask the UN High Commissioner for Human Rights, the UN Commissioner for Refugees, the Council of Europe Human Rights Commissioner and the members of the European Commission to take urgent and appropriate misure to stop these crimes agains humanity, that transform the Geneve Convention, the EU Charter of fundamental rights and the Universal Declaration of Human Rights in waste paper. Non-refoulement is a principle in international law, and it’s necessary to respect it: it concerns the protection of refugees from being returned to places where their lives or freedoms could be threatened. It must be said that non-refoulement forbids the expulsion of a refugee into an area where the person might be again subjected to persecution. Other than the cases reported in the peace of news above (in Italian), Italian newspaper "La Repubblica" shown in a recent inquiry how refoulements from Italian coasts are going on. Moreover, EveryOne Group, which is based in Italy, is receiving in these days news of new refoulements of Eritrean and Somalian refugees from Italy to Libya: Italian media didn't report any news about them, and it shoul be very important to investigate. For the EveryOne Group, the co-presidents Matteo Pegoraro, Roberto Malini and Dario Picciau For further information: EveryOne Group +39 393 4010237 :: +39 334 3449180 :: +39 331 3585406 info@everyonegroup.com - www.everyonegroup.com

No allo scontro politico sulla pelle dei disperati!

La Russa sfida i finiani "Norme più dure sull'immigrazione" Troviamo al quanto disdicevole questo uso politico, della parte più debole del umanità per uno scontro politico all'interno dei partiti. Ricordiamo al Ministro della difesa On La Russa, che le norme sono già dure. Quello che manca in questo paese riconoscimento dei diritti a chi vive regolarmente in questo paese che gli viene chiesto solo i doveri, non ha mai dei diritti. Come sempre e facile prendersela con chi e povero, indifeso e ai margini della società mondiale come un richiedente asilo politico, o un immigrato che viene a cercare un lavoro. Invitiamo il governo ad investire più risorse per favorire l'integrazione di chi già risiede nel territorio nazionale, sta contribuendo al benessere di questa nazione. Serve più inclusione sociale, meno propaganda di criminalizzazione dei migranti, anche quelli che vengono definiti "Clandestini" sono sempre degli esseri umani. L'Italia offra a gli immigrati regolari il diritto di entrare nella società italiana realmente, creando dei spazi di partecipazione alla vita politica, con il diritto di voto, il diritti di cittadinanza ai figli di immigrati nati sul suolo italiano. Il Ministro della difesa usi piuttosto i militare per combattere le varie manifestazioni di razzismo, varie forme di discriminazioni spesso violenti a danno di stranieri. Lo sfruttamento dei lavoratori stranieri spesso a limite di schiavitù come si e dimostrato nel caso di Rosarno, sappiamo che ci sono tanti Rosarno nella penisola. Invitiamo il governo a fare una battaglia di civiltà, invece di accanirsi con la parte del umanità disperata. Don Mussie Zerai

Drammatica la situazione di 245 rifugiati, soprattutto eritrei, detenuti in Libia

E’ sempre più grave la situazione dei rifugiati africani, soprattutto eritrei, nel centro di detenzione di Brak, vicino Sabha, nel sud del deserto libico. Diversi osservatori sottolineano che serve con urgenza un intervento internazionale. Amnesty International ha lanciato un appello urgente chiedendo al governo di Tripoli di non rimpatriare il gruppo di rifugiati in Eritrea, dove rischiano di subire la tortura, punizione riservata ai colpevoli di "tradimento" e diserzione. In Libia, intanto le condizioni nel centro di detenzione di Brak si aggravano di ora in ora. Sulla drammatica situazione dei rifugiati ascoltiamo al microfono di Fabio Colagrande, don Mussie Zerai, sacerdote eritreo della diocesi di Asmara, responsabile a Roma dell’Agenzia Hadesha, Ong che si occupa dell’accoglienza dei migranti africani: R. - Ho parlato con diversi dei ragazzi che sono stati deportati da Mishiratah verso Brak vicino a Sabha. Mi hanno riferito che sono 245 persone. Alcuni sono somali, nella maggioranza dei casi invece sono eritrei. Mi hanno raccontato tutta la situazione che stanno vivendo in questo momento dal punto di vista di trattamenti riservati a loro. E' una vera e propria punizione per aver resistito oppure rifiutato di compilare quei moduli che gli sono stati presentati il 29 pomeriggio a Mishiritah. Quindi per punire la loro resistenza nella notte tra il 29 e il 30 sono stati deportati verso Sabha dentro questi camion container. Hanno fatto il viaggio di mille chilometri per 12 ore sotto il sole con il caldo del Sahara. D. - Tra queste persone ce ne sono alcune che avevano ottenuto lo status di rifugiati? R. - Sì, dall’Acnur. Il campo di Mishiritah era il centro più visitato dall’Acnur finché era attivo. Quindi tanti di loro sono stati già ascoltati e sono state raccolte le loro storie. Gli è stato anche dato un riconoscimento. Alcuni invece già provenivano con un riconoscimento dello status di rifugiato dal Sudan. Avevano la tessera del rifugiato, e altri invece erano persone che sono state rimandate dall’Italia. D. - Lei che notizie ha sulla situazione umanitaria in cui si trovano questi detenuti? R. - Loro, da quello che mi hanno detto, sono stremati. Non sanno quanto possono resistere in queste condizioni perché, da quello che mi hanno detto, ogni due ore le guardie vengono per controllare. Ci sono continui maltrattamenti, li bastonano e così via. Lo stesso per la scarsità di acqua e la scarsità di cibo. Sono ammassati in questo seminterrato in 120, 140 persone. In più ci sono le persone ferite che non ricevono cure mediche. Le persone che stanno male stanno peggiorando anche con il rischio di infezione perché alcuni hanno ferite proprio aperte. E’ molto urgente adesso sollecitare un intervento umanitario per salvare queste persone. Non solo si devono impedire eventuali deportazioni ma anche salvare la loro dignità di persone perché quello che stanno vivendo è veramente un totale degrado. Quindi bisogna garantire i più elementari diritti umani che sono assicurati in molte aree nel mondo. (Montaggio a cura di Maria Brigini)

sabato 7 agosto 2010

Libia-eritrei: Frattini e Maroni scrivono a ilFoglio

Al direttore – Rispondiamo all’ “appello realista” che il suo giornale ci indirizza, innanzitutto ringraziandola per l’approccio articolato e comprensivo che anima la vostra analisi di una realtà che è appunto complessa e, come tale, merita una risposta politica altrettanto articolata e complessa. Affrontiamo certo una materia in cui l’assolutezza e l’irrinunciabilità dei diritti vanno prese sul serio e anche noi capiamo come gli uomini di buona volontà e le Organizzazioni umanitarie lancino da giorni un pressante allarme. Ma non siamo certi che anche le più giuste declamazioni possano aiutarci a risolvere un problema che, proprio a partire dagli argomenti corretti che fondano l’analisi del suo giornale, ha bisogno di un approccio diverso per essere risolto. Tra l’altro non crediamo che incoraggino la comprensione della realtà della vicenda cronache e interviste giornalistiche con appelli via telefono satellitare inspiegabilmente utilizzate da parte di persone che denunciano di essere detenute e a rischio di tortura. Richiamiamo, ma solo per completezza di argomenti, la necessità di un atteggiamento rispettoso della sovranità libica (e il rischio che gli inviti pressanti. e a volte polemici, della nostra opposizione parlamentare rivelino una prospettiva “neocoloniale” politicamente molto scorretta e assai controproducente dal punto di vista del risultato) e di un’azione internazionale capace di coinvolgere l’Onu, le sue agenzie e le altre Organizzazioni internazionali. Il destino e la sorte di questi cittadini eritrei non può cioè esser risolto dalla sola nostra e pur privilegiata relazione bilaterale. E in questa partita si misura ancora una volta tutta la fragilità europea e la prospettiva “del nord” – preoccupante e sconsiderata – che continua a considerare il Mediterraneo e la sua sponda sud come un “mondo a parte”. E’ proprio il sud del mondo a premere ancora una volta, e ora di più, contro i paesi della sponda meridionale e da lì sugli avamposti europei: Italia, Spagna, Malta e Grecia principalmente. Non diciamo questo per coltivare un atteggiamento consolatorio e per trovare uno scudo, un riparo non solo alle responsabilità, ma al protagonismo che come è giusto anche al nostro paese si richiede. Diciamo questo perché in questa -come in altre occasioni- l’Italia non si è mai sottratta a un’attività di sensibilizzazione delle autorità libiche, verso le quali noi abbiamo scelto, nello spirito di una sincera amicizia, di condurre un’azione discreta e positiva anche in nome e per conto dell’Europa: come due distinte, ben note e importanti vicende legate alla soluzione della crisi Libia-Svizzera hanno recentemente saputo dimostrare. Proprio perché questo nostro mondo è particolarmente complesso e l’approccio della diplomazia politica -se è, come tutti ci auguriamo, finalizzato a risolvere i problemi- deve aiutare a trovare le risposte più adeguate, noi abbiamo scelto una strada diversa da quella della pubblicità. Perché siamo convinti che non ci aiuterebbe. Sappiamo bene che è una lotta contro il tempo. In queste ore è in corso una delicata mediazione sotto la nostra egida, mediazione che stiamo finalizzando, per poter arrivare all’identificazione dei cittadini eritrei -i quali, è bene saperlo, timorosi di farsi identificare rendono impossibile la definizione del loro status – e poter loro offrire un’occupazione, nella stessa Libia, contro il rischio e la paura del rimpatrio. In quest’azione le Ong italiane sono in prima fila. Firmato: Franco Frattini Roberto Maroni Fonte: Esteri.it

Diventa papà dopo l'espulsione Giovane tunisino resta in Italia

In marzo il questore di Enna l'aveva espulso. La Polizia di Ravenna l'aveva arrestato per non aver rispettato l'obbligo, ma il giudice l'ha assolto per aver avuto, nel frattempo, una bimba con un'italiana Ravenna, 6 agosto 2010 - Diventa papà dopo l'ordine di espulsione: un tunisino di 23 anni resterà in Italia. Il 27 marzo scorso il giovane nordafricano era stato espulso dal territorio nazionale con provvedimento del questore di Enna. A Ravenna era stato arrestato dalla Polizia per non aver rispettato l'obbligo. Processato per rito direttissimo, il giovane clandestino, difeso dall'avvocato Andrea Maestri, è stato però assolto dal giudice monocratico della città romagnola perché, alla data della prima espulsione, aveva avuto con un'italiana una bambina. E' stato anche assolto dall'accusa di false generalità: i vari alias (nomi fittizi) a lui attribuiti altro non sarebbero che varianti del suo nome in arabo. Il giovane è stato però condannato a due mesi e 600 ero di ammenda per non aver esibito il passaporto ai poliziotti.

Quell'ufficio che decide chi può restare: 330 mila immigrati al vaglio in venti mesi

Visita del neo questore Tagliente all'ufficio immigrazione della Capitale: aiuti a chi lavora, lotta a chi delinque ROMA - Una struttura che da sola, in 20 mesi, ha ricevuto 330 mila persone. Come un grande comune italiano, composto da cittadini stranieri. E’ l’Ufficio immigrazione della Questura della Capitale, coinvolto nelle ultime 24 ore nel maxi controllo anti prostituzione a Roma e provincia disposto dal neo questore di Roma, Francesco Tagliente. 190 MILA PERMESSI - Dall’inizio del 2009 a oggi gli investigatori coordinati dal dirigente Maurizio Improta hanno rilasciato circa 190 mila permessi di soggiorno, esaminando 33 mila pratiche per l’ultima sanatoria, con 8mila richieste di ricongiungimento familiare e 3.500 di cittadinanza. Una mole di lavoro straordinaria per il complesso in via Teofilo Patini (visitato proprio dal questore qualche giorno fa), al quale collaborano anche il Cie di Ponte Galeria e l’ufficio distaccato attivo dal luglio dello scorso anno all’aeroporto di Fiumicino. RIMPATRIATI E CAMPI NOMADI - Oltre 12 mila gli stranieri allontanati o espulsi. Nella lotta all’immigrazione clandestina nello stesso periodo la polizia ha rimpatriato, con scorta, 2.100 cittadini extracomunitari e notificato 1.200 provvedimenti di allontanamento ad altrettanti comunitari ritenuti pericolosi. Ottomila sono stati invece i decreti di espulsione e altri 1.600 quelli emessi nei confronti di stranieri inottemperanti al decreto di espulsione. Nell’ambito del Piano nomadi, invece, l’Immigrazione ha identificato 2.200 persone nei controlli svolti al Casilino 900, poi chiuso, e nei campi della Martora (in chiusura), Tor de’ Cenci, Gordiani e Salone. Rinaldo Frignani 07 agosto 2010

Etiopia, un paese libero e democratico?

Il 23 maggio 2010 in Etiopia si sono svolte con successo le elezioni politiche. Come testimoniato da molti rappresentanti della comunità internazionale, le fasi che hanno preceduto e seguito le elezioni sono state libere, trasparenti, democratiche e pacifiche. Questo è quanto anche confermato dall'Ethiopian Civil Societies Association - che ha schierato 40.000 osservatori - dall'Unione Africana e dal rapporto preliminare degli osservatori dell'Unione Europea, ad esclusione delle interpretazioni politiche sulle strutture governative. In pieno rispetto del codice di condotta elettorale siglato dai diversi partiti prima delle elezioni, tutti gli schieramenti hanno portato avanti le rispettive campagne elettorali attraverso i media e per la prima volta nella storia elettorale del Paese, tutti e 63 i partiti hanno ricevuto un supporto finanziario dal governo. Detto questo, ci corre l'obbligo di smentire quanto scritto da Stefano Liberti (il manifesto, 23 maggio 2010), e cioè che la campagna elettorale è stata «unilaterale e pervasiva». Nello stesso articolo definisce il governo al potere un partito «totalizzante» che «controlla tutto e tutti». Riteniamo che questa sia una posizione politica priva di qualsiasi etica giornalistica (...). Il governo d'Etiopia crede fermamente che in un paese come il nostro, in cui convivono diverse culture e gruppi etnici, democrazia e un sistema pluripartitico siano indispensabili. Questo è quanto anche chiaramente garantito dalla costituzione stessa del paese. Come dichiarato pubblicamente dal primo ministro il 24 maggio 2010, cioè all'indomani delle elezioni, il partito al potere è disponibile a collaborare con l'opposizione assegnando loro seggi parlamentari malgrado gli scarsi risultati elettorali da essi conseguiti e questo proprio a testimonianza dell'impegno del partito in carica a sostegno di un sistema pluripartitico. (...) Il giornalista ha altresì dichiarato che l'Etiopia ha adottato leggi sociali repressive e anti-terrorismo. Non neghiamo che il nuovo ordinamento non permette la partecipazione di organizzazioni civili straniere in attività politiche ma è anche vero che questa non è una caratteristica propria della sola Etiopia ma piuttosto pratica comune nei paesi occidentali. Riteniamo che la politica riguardi i cittadini e gli elettori e che la nostra democrazia non si debba sviluppare con i finanziamenti e i disegni delle organizzazioni civili esterne. (...) Per quanto riguarda la legge anti-terrorismo, vogliamo far presente che il nostro paese era già stato esposto alle deplorevoli azioni di gruppi terroristici ben prima dell'accaduto del 2001 negli Stati uniti. Negli anni '90 l'Etiopia combatteva sola contro diversi gruppi terroristici che varcavano i confini della Somalia come Al-Ithad ed altri. (...) Dunque, la legge anti-terrorismo in Etiopia è stata promulgata per proteggere la nostra gente e il nostro paese dagli spregevoli attacchi di questi gruppi terroristici, siano essi locali che internazionali, e non ha lo scopo di terrorizzare la nostra gente o chiunque altro. (...) Per concludere, ci sentiamo di dire che l'articolo pubblicato sul manifesto sulle elezioni politiche del 23 maggio è assolutamente poco equilibrato e ben lontano dalla verità in quanto è indiscutibile che l'Etiopia gode di una democrazia completa e ampliamente sviluppata. Mr. Fesseha Tesfu Incaricato d'Affari a.i. della Repubblica Federale Democratica di Etiopia Roma Non mi risulta che gli osservatori europei abbiano definito il voto in Etiopia del maggio scorso «libero e trasparente». Nel loro rapporto si legge invece che il «terreno di confronto prima delle elezioni non è stato sufficientemente bilanciato». D'altronde, un'elezione in cui il partito al potere ottiene il 99,6% dei voti difficilmente potrebbe essere definita «libera e trasparente», come hanno sottolineato tutti i media internazionali che hanno seguito quelle elezioni. Il supporto finanziario garantito a ogni partito era di 258 birr a candidato, l'equivalente di 15 euro. Una cifra che parla da sé, soprattutto se confrontata con quella messa in campo dall'Eprdf, il partito al potere, «che ha usato fondi pubblici per la sua campagna», come ha detto sempre il capo degli osservatori europei. Lo si vedeva chiaramente per le strade di Addis Abeba prima del voto, dove l'ape simbolo dell'Eprdf era ovunque, a fronte di un'opposizione invisibile. Il fatto che il suddetto partito sia «totalizzante» mi pare confermato dalle stesse parole dell'incaricato d'affari, là dove dice che il premier si «è detto disponibile a collaborare con l'opposizione assegnandole seggi parlamentari». Normalmente, in un sistema democratico i seggi sono assegnati in base al volere popolare e non a quello del premier. Quanto alle leggi anti-terrorismo, non ho mai criticato nei miei articoli la legge 621, secondo cui le Ong (internazionali, ma anche locali finanziate per almeno il 10% dall'estero) non possono occuparsi di «diritti umani e civili, diritti delle donne, dei minori e dei disabili, di problemi etnici e risoluzione dei conflitti» (una normativa che pure ritengo molto discutibile). Ho semplicemente scritto che, a partire dal 2009, il governo ha ufficializzato in una legge la propria normativa anti-terrorismo, con una definizione vaga che permette di condannare persone per terrorismo sulla semplice base del sentito dire, istituzionalizzando una pratica di riduzione dello spazio politico che ha sfiancato il dissenso, la stampa libera e gli attivisti per i diritti umani, e costretto all'esilio o al carcere gli oppositori. Lo sa bene Birtukan Mideksa, l'avvocata 36enne leader di un partito d'opposizione condannata al carcere a vita semplicemente per aver denunciato brogli ed essersi rifiutata di chiedere il perdono al governo. Stefano Liberti

L'Europa dei naturalizzati Così l'Italia ha perso la corsa

Etiopi e somali per tutti: e anche la Turchia ci supera nel medagliere. Senza matrimonio da noi servono fino a 12 anni per poter gareggiare con il nuovo passaporto dall'inviato EMANUELA AUDISIO BARCELLONA - La nuova atletica è un'Europa africanizzata. Che mescola vite, azzardi, amori, passaporti. E spesso compra fiato al mercato della povertà. La Turchia con tre ori e 1 argento svetta sull'Italia, che finisce 17esima e non ha né un campione del mondo né un campione europeo. Però la Turchia nelle donne vince con Alenitu Bekele e Elvan Abeylegasse. Cognomi turchi? Nemmeno un po', le ragazze sono nere, transfughe dall'Etiopia e naturalizzate. E del triplista russo Adam Lukman, 21 anni, ne vogliamo parlare? Stropicciatevi gli occhi, è nero. Il primo di colore a vestire la maglia della nazionale di atletica. Suo padre è nigeriano, la mamma russa. Anche la Spagna è più scura: ha due lunghisti e un discobolo cubani, più due corridori, un marocchino e un etiope. Alemayehu Bezabeh nel 2004 da Addis Abeba sbarcò a Barcellona con un passaporto falso, si ritrovò a Madrid, senza documenti, soldi, vestiti. Si sfamò alla mense per poveri, trovò un prete che si prese cura di lui, compagni con cui allenarsi, l'asilo politico, e quattro anni dopo la nuova cittadinanza. Israele ha molti atleti etiopi, ma si capisce sono falascià. Si capisce meno l'Azerbaigian, regione del Caucaso, di religione musulmana-sciita, dove non è che esci di casa e trovi un etiope che passa di lì. Beh, gli azeri ne hanno naturalizzati parecchi. Non c'è bisogno di Simenon per scoprire che la triplista belga Svetlana Bolshakova non è cresciuta a "gaufres" e "gracht brood", visto che è nata a Leningrado, ma nel 2006 si è sposata con un belga e due anni dopo ha ottenuto la cittadinanza. Certe trafile sono odissee nello spazio solo in Italia. La Norvegia ha uno sprinter nero, Jaysuma Saidy Ndure, nato in Gambia, L'Inghilterra ha vinto con Farah, somalo, arrivato a dieci anni in Gran Bretagna per sfuggire alla guerra. E la brillantissima Francia, mai così vincente (18 medaglie di cui 8 d'oro), seconda in classifica alle spalle della Russia, deve dire grazie alla sua seconda generazione di immigrati. Véronique Mang, due medaglie nello sprint, è del Camerun, si è trasferita con la famiglia in Francia nel '95, ha avuto il nuovo passaporto nel 2003. Come Teddy Tamgho, 21 anni, nero, bronzo nel triplo, che però è nato in Francia, a Aulnay-sous-Bois. E poi c'è il Maghreb: Myriam Soumaré, che cantava la Marsigliese sul podio dei 200 metri, viene dalla Mauritiana, mentre Mahiédine Mekhissi e Mehdi Baala, oro e argento dei 3000 siepi hanno origini algerine. L'Europa si mischia, nella società, e forse anche troppo nello sport. Nel senso che certe acquisizioni vengono dal potere della moneta e non da scelte di vita. L'Italia invece che rifiuta la contaminazione nel calcio, ma che nell'atletica ha avuto Fiona May (nata in Inghilterra) e ha Andrew Howe (nato in Usa) sconta pratiche lunghissime: dieci anni per la naturalizzazione. Il tempo di due Olimpiadi e di cinque campionati europei. Persi. Se in più si pensa che da quest'anno la Iaaf è più severa e impone altri due anni, dopo la naturalizzazione, per gareggiare si arriva a 12. L'equivalente di tre Olimpiadi. Non siamo solo lenti in pista e in pedana, ma tartarughe anche nella società. Gli altri aprono porte, noi le cementiamo.

Fondi da inviare alle comunità Hewo di Etiopia ed Eritrea.

Dall’11 al 15 agosto Hewo Modena per l’Africa Da mercoledì 11 a domenica 15 agosto, a Barigazzo, sull’Appennino modenese, si svolge la 26° Festa dei Lamponi, festa popolare consigliata da “Slow food Frignano”, organizzata dall’associazione Hewo Modena per raccogliere fondi da inviare alle comunità Hewo di Etiopia ed Eritrea. Per cinque serate, presso la Sorgente Fabbriche del Benessere, sede della manifestazione, un vecchio edificio sorto negli anni Trenta per ospitare un’azienda pioneristica impegnata nell’utilizzo delle sorgenti di gas metano, conosciute come “fuochi dell’ inferno”. Sarà possibile gustare i prodotti della cucina tradizionale con un menù a base di polenta, borlenghi, ciacci, frittelle di castagne, crescentine, gnocco fritto… con l’ombelico, gligliata ecc., in una atmosfera accogliente e spontanea perché accanto ai volontari Hewo, sono impegnati ai tavoli decine di giovani e giovanissimi. Quest’anno mancherà Ermes Ruggi, riconosciuta guida di Hewo Modena e del gruppo. Mancheranno la sua autorevolezza, l’entusiasmo coinvolgente, la volontà, l’impegno, l’ingegno, la positività concreta, la capacità di incontrare e rispettare gli altri, la capacità di guardare avanti e oltre gli ostacoli. Sono doti che ha testimoniato con la sua vita e che lascia in eredità alla famiglia, ai collaboratori, agli amici e a quanti lo hanno conosciuto. I giorni di Barigazzo saranno l’occasione per ricordarlo, insieme, facendo festa che lui voleva che fosse una festa: un incontro. Anche quest’anno l’intero ricavato della Festa dei Lamponi sosterrà i progetti in corso. A Quihà, Hewo ha realizzato l’unico ospedale del Tigray specializzato nella cura di malati di lebbra, tbc, hiv-aids e di altre patologie infettive, con un “Centro dei diritti” istituito per far conoscere e difendere i diritti, spesso violati o minacciati, dei bambini in età prescolare provenienti da famiglie economicamente e culturalmente povere. Accanto ai servizi di carattere sociale e sanitario, sono stati introdotti laboratori e attività lavorative in campo agricolo, in campo alimentare e della conservazione della frutta e della verdura, nella produzione della pasta e del pane, un laboratorio-scuola di maglieria per la formazione socio-professionale dei giovani e per la produzione di capi di abbigliamento, il cui ricavato è destinato al sostentamento della comunità. A Garbo, nell’etiope stato dell’Oromia, dopo un confronto con le autorità nazionali e attraverso un percorso di corresponsabilità avviato con i capi villaggio della zona, è stata realizzata una stalla per garantire il latte ai bambini, un laboratorio per la conservazione dei prodotti agricoli, è stato portato un trattore per la coltivazione dei campi, si è inaugurato un asilo; è stato costruito un ambulatorio; attualmente è in costruzione una nuova stalla e si stanno istallando un mulino per la macinatura del grano e un forno per la produzione del pane. Nel luglio scorso Franca e Carlo Travaglino, che nel 1969 hanno fondato Hewo e vivono fra i dimenticati di Etiopia ed Eritrea, hanno scritto un drammatico appello: “Ora, purtroppo, ci siamo imbattuti in una crisi senza precedenti. Una gravissima crisi economico-finanziaria dell’intera Etiopia (a parte il disastro della dittatura in Eritrea) che fa registrare frequenti impennate del costo della vita fino ad un aumento di oltre il 500% anche per i generi di prima necessità … Una crisi che sta portando il popolo della grande fascia debole della società alla fame, alla miseria, all’aumento di malattie infettive e da carenze, allo smarrimento, alla paura e perfino alla morte”. “Noi con le nostre Comunità facciamo parte di questa fascia debole e siamo, ogni giorno più, con l’animo sospeso. Sebbene le Comunità siano costituite in maggioranza da persone gravemente malate, spesso invalide, e da bambini, ognuno è impegnato nella misura e nella modalità possibili a contribuire a vari servizi e alla produzione di ortaggi e di frutta per sostenere in parte le spese relative a questi beni di consumo quotidiano. Ma la contemporanea convergenza del pazzesco costo della vita, della carenza alimentare, della siccità ciclica e conseguente carestia, del crollo dell’euro sul mercato del cambio, della riduzione degli aiuti che riusciamo a reperire, costituisce un esplosivo che rischia di far saltare la stessa vita dell’Hewo con tutti i servizi e i programmi assicurati ai fratelli bisognosi in maniera totalmente gratuita, come atto di giustizia nei loro confronti”. Sui progetti in corso e sulle comunità Hewo dell’Etiopia e dell’Eritrea alla Festa sarà in funzione un Infopoint, ma c’è anche l’opportunità di conoscere e confrontarsi con i volontari, con i loro racconti dei viaggi in Africa.

lunedì 2 agosto 2010

Appeal: Give the right of asylum to Eritrean refugees in Libya

We renew our appeal for asylum seekers Political blocked in Libya. We demand a real solution to be found problem with a project of resettlement of refugees and in need of international protection in Europe. The current situation of the 400 Eritreans and approximately 3000 between Somali, Sudanese, Ethiopia and Eritrea blocked by the rubber wall wanted from Europe, is a condition of total neglect, people who survives by accepting work that reduced to slaves, women forced into prostitution, most situations tolerable degradation of human dignity. The fate that has touched the Eritrean people "liberated" from prison Al-Braq, to live life to the homeless with a residence permit for three months in hand. Between three months will return illegal immigrants because they can not present an identification document issued by the authorities of the country source. That's why we want a real solution to the problem of these asylum seekers from Eritrea, Somali, Sudanese, Ethiopians. Once again we ask Italy to take the first step in providing these people welcome to the territory, at least to those people that has been denied entry into Italy, which have been returned by the Italian to Libya as the minister has confirmed Libya 250 Eritreans have been returned to those Libyans by Italian troops. We know that Italy can show its human face, made him gay in the past about 130 Eritreans with the program resettlement from Libya. This positive experience that from a legal entry, protected applicants political asylum, so they do not have to rely in the hands of traffickers is risking his life in the sea. The Mediterranean is already open a cemetery for hundreds of migrants, remember what happened a year ago that killed 73 Eritreans in indifference total number of countries bordering the Mediterranean, especially those who have the task of joint patrolling, first that Frontex should prevent such risks, did nothing to save those lives. A painful anniversary for us that we have seen our fellow citizens die young, with great desire to live, hope to build a new life in Europe, dreaming of freedom, democracy and prosperity. Open the door! Who is desperate, those who flee from persecution, war, Natural disasters can come to find refuge. Fr. Mussie Zerai

The truth about Eritreans "liberated" by Gaddafi. Interview with Mussie Zerai

By Erica Balduzzi and Emilio Fabio Torsello Stranded at the foot of the Libyan desert, forgotten by the international community and forced to live in the middle of a road. After the "liberation" from the Libyan government official decided about three thousand of immigrants imprisoned by Gaddafi, back on the right to criticize and question interview Mussie Zerai, head priest Eritrean NGO Habeshia, commitment to the issue of human rights for refugees and blocked escape Eritrea in Libya. Following complaints of the same inhumane conditions for Zerai inequity treatment that these people were subjected in Libyan prisons, the issue has again been forgotten by Italian institutions after the apparent "liberation" of migrants. Critics right has tried to shed light on this human tragedy continues, completely ignored. Moses Zerai, of Eritrean refugees stranded in international waters and rejected by Italy in Libya, now speaks almost no more. Yet the incident has brought to light the issue of migration from one country - the Eritrea-which in Italy does not know practically nothing. Eritrea is a military regime, a dictatorship in effect keeping the country under control so pervasive not guarantee or no freedom of press or expression or movement nor policy, such that there are no other parties to outside of what the regime says. There is total freedom of religion and religions other than four are recognized by the persecuted. Then there is the question of military service every man below the age of 45 must serve in the army for twenty or thirty years, so a young man has the ability to create a life of its own. Many migrants are fleeing from this also forced militarization in addition to the long list of non-freedom that prevent a peaceful and serene life. Once in Libya, what happens to these young people? The Eritrean refugees are often victims of turnovers and traffickers that the Libyan police, involved in trade in human beings. When migrants cross the border between Sudan and Libya and arrive in the first town across the border, Kufra, are delivered by a trafficker to another. Often called the police take custody of the refugees and encloses them in detention centers such as Kufra, one of the most terrible. If these people can put together a sufficient sum of money, then are freed and can groped another route to get to Europe. Unless they are killed by desert or by the Libyan police violence and human trafficking. After signing the agreement between Italy and Libya, however, even those who manage to reach the coast and from, are often brought back. In a few manage to overcome controls. According to a letter in the right to criticize is held in May 2010 a boat full of Eritrean refugees would be rejected a few miles from Lampedusa and stated in Libya. The results? Yes, certainly. Among the 250 Eritrean refugees that have been discussed recently, 105 people were dismissed between 2009 and 2010 by the Italian territorial waters. The last were dismissed in June 2010. There are Italian operators in Libya coordinating operations from the ground? Regarding operations, Italy undoubtedly helps Libya on the side of supply logistics. From an organizational perspective, however, management is Libyan. How can cost an Eritrean a so-called 'Journey of Hope' to Europe? The price is around four thousand dollars for the entire trip and is roughly equivalent to one year's salary of a person with a well paid job. What is the current situation of these refugees who, according to Libya, were released? Were released about three thousand people of different nationalities, including Eritreans. The problem is that physically they are no longer in the detention center but are in condition of total neglect. The Eritrean Sebah, so we raised the alarm, were released and left the road near the desert, living only through the charity of local people, except those who managed to get something to send friends relatives residing in other cities. For the rest, have received no assistance. The Libyan government initially undertook to pay the transport from Sebah to Tripoli or measured, but nothing happened like that. The refugees are forbidden to leave the city. Some migrants have succeeded - again - to reach Tripoli after paying a sum of money but who has nothing is stranded, stuck, and lives on the street. Exactly how many Eritreans were released and how? Were released the 205 who were in prison at Braq, together with those who were confined in the detention center measured. It was given them a temporary permit for three months, after which must submit an identity document issued by the country of origin. This circumstance will not occur and most likely will return to being illegal, the problem was not solved but only postponed. The only real solution for these people is resettlement, or a program for transferring asylum seekers and refugees to countries to recognize the status of 'refugee' (which however does not Libya), and then to ensure these people the protection they need. Mussie what is the attitude of the international community and European agencies such as Frontex? That the international community has a policy pilatesca. Frontex is of little value: it is a machine that consumes a lot of money on patrols but was not able to save lives when they died last August in the Mediterranean 73 Eritreans. It is not clear in practice, what are the Frontex. More generally, it was implemented a closure policy towards immigration and does not distinguish between who is really in need of international protection as asylum seekers, refugees and those fleeing war and persecution. Europe, and that is what we ask, should open a protected path of entry for these people. In terms of NGOs, what is the real possibility of operating in Libya? On Libya are NGOs such as International Organization for Migration (IOM) and institutions like the UN High Commissioner for Refugees (UNHCR) , whose office was first closed and then reopened with an operation just a facade. As I was told, in fact, the UNHCR are not even able to go on site to monitor the condition of refugees. Were allowed - only for the city of Tripoli - to go from their home to the office of the UN. Specifically, can continue to follow only those cases that ran before closing and opened negotiations to see if the UNHCR can continue or not the activity. IOM, however, dealt only some cases of resettlement and is not well understood its powers in the country. Then there are the Italian Council for Refugees (CIR), but its presence is a condition, an NGO and the Libyan migrants themselves, but for which little trust and I wonder if it is not the long arm of the government. Mussie as regards the current Italian policy on immigration? There is little to comment: Italy was among the first countries to erect a wall to prevent the entry of those who were and are asking for help, without stopping to examine the legal position of migrants or to assist them, as happened in late June, when the Italian authorities since it arrived a Libyan vessel to recover a boat full of refugees, stops a few meters from the territorial waters of Italy. This is a total closure: it denies the right of asylum. What is the situation of those who manage to get to Italy and see recognized refugee status? Take the case of Rome. In the area of Romanina buildings are occupied while in Ponte Mammolo there is a genuine refugee slums where migrants live, and with a residence permit for five years, or foreigners which has been recognized protection. All persons so-called "regular." It is, therefore, license valid only on paper. In fact, the level of assistance, the welfare system instead of Italy does not provide guarantees that exist in other European countries. Migrants are given a document that allows him to remain on the Italian territory but in fact must fend for themselves. The next step is the black: 90% of these people end up in the circuit of the underground economy, in a state of total insecurity. Written by Erica Balduzzi on August 2, 2010.

A.H.C.S: La verità di sugli eritrei “liberati” da Gheddafi. Intervista a Mussiè Zerai

A.H.C.S: La verità di sugli eritrei “liberati” da Gheddafi. Intervista a Mussiè Zerai

La verità di sugli eritrei “liberati” da Gheddafi. Intervista a Mussiè Zerai

A cura di Erica Balduzzi ed Emilio Fabio Torsello Stranded alle pendici del deserto libico, dimenticati dalla comunità internazionale e costretti a vivere in mezzo a una strada. Dopo la “liberazione” ufficiale decisa dal governo libico di circa tremila migranti rinchiusi nelle carceri di Gheddafi, Diritto di Critica torna sulla questione e intervista Mussiè Zerai, sacerdote eritreo a capo dell’ong Habeshia, impegnato sul fronte dei diritti umani per i profughi in fuga dall’Eritrea e bloccati in Libia. Dopo le denunce dello stesso Zerai per le condizioni disumane e l’iniquo trattamento a cui queste persone sono state sottoposte nelle carceri libiche, la questione è stata nuovamente dimenticata dalle istituzioni italiane dopo l’apparente “liberazione” dei migranti. Diritto di Critica ha cercato di fare luce su questa tragedia umana che prosegue, del tutto ignorata. Mosè Zerai, dei profughi eritrei bloccati in acque internazionali e respinti in Libia dall’Italia, ormai non si parla quasi più. Eppure la vicenda ha portato alla luce la problematica dei fenomeni migratori da un Paese – l’Eritrea- del quale in Italia non si sa praticamente nulla. L’Eritrea è un regime militare, una dittatura a tutti gli effetti che tiene il paese sotto un controllo così capillare da non garantire alcuna libertà né di stampa né di movimento né di espressione né tantomeno politica, tant’è che non esistono altri partiti al di fuori di quello che sostiene il regime. Non esiste una totale libertà di culto e le religioni diverse dalle quattro riconosciute dallo Stato vengono perseguitate. C’è poi la questione del servizio militare: ogni uomo al di sotto dei 45 anni deve prestare servizio nell’esercito per venti o trent’anni, per cui un giovane non ha la possibilità di crearsi una vita propria. Molti migranti fuggono anche da questa militarizzazione forzata che si aggiunge alla lunga serie di non-libertà che impediscono una vita serena e pacifica. Una volta arrivati in Libia cosa accade a questi giovani? I profughi eritrei sono spesso vittime dei giri d’affari sia dei trafficanti che della polizia libica, coinvolta nel commercio di esseri umani. Quando i migranti attraversano il confine tra il Sudan e la Libia e arrivano nella prima città oltre il confine, Kufra, vengono consegnati da un trafficante all’altro. Spesso viene chiamata la polizia che prende in custodia i profughi e li rinchiude in centri di detenzione come quello di Kufra, uno dei più terribili. Se poi queste persone riescono a mettere insieme una somma di denaro sufficiente, allora vengono liberate e possono tentare un altro tragitto per arrivare in Europa. Sempre che non vengano uccise dal deserto o dalle violenze della polizia libica e dei trafficanti. Dopo la firma dell’accordo tra Italia e Libia, però, anche quanti riescono ad arrivare sulla costa e a partire, spesso vengono riportati indietro. In pochi riescono a superare controlli. Secondo una lettera di cui Diritto di Critica è in possesso, nel maggio del 2010 un’imbarcazione carica di profughi eritrei sarebbe stata respinta a pochi chilometri da Lampedusa e riportata in Libia. Le risulta? Sì, certo. Tra i 250 profughi eritrei di cui si è parlato recentemente, 105 erano persone respinte tra il 2009 ed il 2010 dal mare territoriale italiano. Gli ultimi sono stati respinti a giugno 2010. Ci sono operatori italiani in territorio libico che coordinano le operazioni da terra? Per quanto riguarda le operazioni, l’Italia senza dubbio aiuta la Libia sul versante delle forniture logistiche. Dal punto di vista organizzativo, però, la gestione è libica. Quanto può costare per un eritreo un cosiddetto ‘viaggio della speranza’ verso l’Europa? Il costo si aggira attorno ai quattromila dollari per l’intero viaggio e corrisponde circa ad un anno di stipendio di una persona con un lavoro ben pagato. Qual è la situazione attuale di questi profughi che, a detta della Libia, sono stati liberati? Sono state liberate circa tremila persone di diverse nazionalità, tra cui anche eritrei. Il problema è che fisicamente non sono più nel centro di detenzione ma si trovano in condizione di totale abbandono. Gli eritrei di Sebah, per cui abbiamo lanciato l’allarme, sono stati liberati e lasciati in mezzo alla strada, vicino al deserto: vivono soltanto grazie alla carità della gente del posto, ad eccezione di chi è riuscito a farsi mandare qualcosa da amici o parenti che risiedono in altre città. Per il resto, non hanno ricevuto alcun tipo di assistenza. Il governo libico in un primo momento si era impegnato a pagare il trasporto da Sebah fino a Tripoli o a Misurata, ma non è accaduto nulla di tutto questo. I profughi hanno il divieto di lasciare la città. Alcuni migranti sono riusciti – anche in questo caso – a raggiungere Tripoli dopo aver pagato una somma di denaro ma chi non ha nulla è stranded, bloccato, e vive per la strada. Esattamente quanti eritrei sono stati liberati e secondo quali modalità? Sono stati liberati i 205 che erano nel carcere di Al Braq, insieme a quanti erano rinchiusi nel centro di detenzione di Misurata. È stato dato loro un permesso provvisorio di tre mesi, allo scadere del quale dovranno presentare un documento di riconoscimento rilasciato dalle autorità del paese di origine. Questa circostanza non si verificherà e molto probabilmente torneranno ad essere clandestini: il problema non è stato risolto ma solo rimandato. L’unica soluzione vera per queste persone è il reinsediamento, ovvero un programma per trasferire i richiedenti asilo e i rifugiati verso paesi in grado di riconoscere lo status di ‘rifugiato’ (cosa che invece la Libia non fa), e quindi di garantire a queste persone la protezione di cui necessitano. Mussiè qual è l’atteggiamento della comunità internazionale e di agenzie europee come il Frontex? Quella della comunità internazionale è una politica pilatesca. Frontex serve a poco: è una macchina che consuma moltissimi soldi in pattugliamenti ma non è stata in grado di salvare vite umane quando nell’agosto scorso sono morti nel Mediterraneo 73 eritrei. Non si capisce, in concreto, a cosa serva il Frontex. Più in generale, è stata messa in atto una politica di chiusura verso l’immigrazione e non si fa differenza tra chi è davvero bisognoso di protezione internazionale come i richiedenti asilo, i rifugiati e quanti stanno fuggendo da guerre e persecuzioni. L’Europa, ed è quello che noi chiediamo, dovrebbe aprire un percorso protetto di ingresso per queste persone. Sul fronte delle Organizzazioni non governative, quali sono le reali possibilità di operare in Libia? Sul territorio libico sono presenti ong come L’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) e istituzioni come l’Alto commissariato per i Rifugiati dell’Onu (Unhcr), il cui ufficio è stato prima chiuso e poi riaperto con un’operazione solo di facciata. Secondo quanto mi è stato riferito, infatti, gli operatori dell’Unhcr non sono neanche in grado di andare sul posto per controllare le condizioni dei rifugiati. Sono stati autorizzati - solo per città di Tripoli – ad andare dalla loro abitazione fino all’ufficio delle Nazioni unite. In concreto, possono continuare a seguire solo i casi che gestivano prima della chiusura ed è stata aperta una trattativa per capire se l’Unhcr possa continuare o meno l’attività. L’Oim, invece, si è occupato solo di alcun i casi di resettlement e non sono ben chiare le sue competenze nel Paese. Ci sono poi il Consiglio italiano per i Rifugiati (Cir), ma la sua è una presenza condizionata, e una ong libica di cui però i migranti stessi si fidano poco e mi chiedo se non sia la longa manus del governo. Mussiè come considera l’attuale politica italiana relativa all’immigrazione? C’è poco da commentare: l’Italia è stata tra i primi paesi a ergere un muro per impedire l’ingresso di quanti venivano e vengono a chiedere aiuto, senza fermarsi a esaminare la posizione giuridica dei migranti né assisterli, come è accaduto a fine giugno, quando le autorità italiane hanno atteso che giungesse una nave libica a recuperare un’imbarcazione carica di profughi, ferma a pochi metri dalle acque territoriali dell’Italia. Si tratta di una chiusura totale: si nega il diritto di richiedere asilo. Qual è la situazione di quanti riescono ad arrivare in Italia e si vedono riconosciuto lo status di rifugiato? Prendiamo il caso di Roma. Nella zona della Romanina ci sono edifici occupati mentre a Ponte Mammolo c’è una vera e propria baraccopoli dove vivono migranti rifugiati, quindi con un permesso di soggiorno di cinque anni, oppure stranieri a cui è stata riconosciuta la protezione sussidiaria. Tutte persone cosiddette “regolari”. Si tratta, dunque, di titoli validi solo sulla carta. Di fatto, a livello di assistenza, il sistema welfare dell’Italia non prevede garanzie che invece esistono in altri Paesi europei. Ai migranti viene dato un documento che gli permette di restare sul territorio italiano ma di fatto devono arrangiarsi da soli. Il passo successivo è il lavoro nero: al 90% queste persone finiscono nel circuito del sommerso, in una condizione di totale precariato. Scritto da Erica Balduzzi in data 2 agosto 2010.

Libia: non ha fine il dramma dei profughi eritrei

Continua in Libia il dramma dei 250 profughi e richiedenti asilo eritrei liberati il 16 luglio dal carcere di Brak, nel cuore del deserto libico. La maggior parte di loro – secondo quanto si legge su Avvenire - si trova in questi giorni nella città di Sebah, dove tuttavia non c’è riparo né opportunità di lavoro e dove il permesso di soggiorno, ricevuto all’uscita dalla prigione, è valido ma solo per tre mesi. Un centinaio di loro si trova invece a Tripoli, capitale del Paese, in condizioni, tuttavia, di permanenza illegale, partiti grazie ad una colletta dei compagni di sventura: sono gli uomini feriti in maniera grave durante la rivolta di Misratha, il 29 giugno scorso, e che ora, dopo esser stati abbandonati per giorni nelle carceri di Brak, possono forse ricevere le cure necessarie. A richiamare l’attenzione su questa drammatica vicenda è don Mussie Zerai, sacerdote eritreo e presidente dell’associazione Habeshia che da settimane si batte per la tutela di questi uomini. Dopo la loro scarcerazione – è il suo appello – i riflettori dei media si sono spenti, mentre invece tanto l’Italia quanto i Paesi dell’Unione Europea - afferma il sacerdote - “devono accogliere questi ragazzi, offrire loro la possibilità di chiedere asilo politico e costruirsi una nuova vita”. Anche perché – sottolinea padre Zerai – alcuni dei profughi sono fra coloro che furono respinti dall’Italia, nell’estate del 2009, a bordo di barconi carichi di migranti e richiedenti asilo, provenienti dalle coste libiche. “Abbiamo i nomi di cento respinti” conclude il sacerdote. (C.D.L.)

Appello: Date il diritto di asilo a gli Eritrei in Libya

Rinnoviamo il nostro appello a favore dei richiedenti asilo politico bloccati in Libya. Chiediamo che venga trovata una reale soluzione al problema, con un progetto di reinsediamento dei rifugiati e bisognosi di protezione internazionale in Europa. La situazione attuale dei 400 eritrei e di circa 3000 tra Somali, Sudanesi, Etiopi ed Eritrei bloccati dal muro di gomma voluto dall'Europa, è una condizione di totale abbandono, gente che sopravive accettando lavoro che gli riduce a nuovi schiavi, donne costrette a prostituirsi, situazioni non più tollerabili di degrado della dignità umana. La sorte che ha toccato gli Eritrei "liberati" dal carcere di Al-Braq, quella di vivere la vita da barboni con un permesso di soggiorno per tre mesi in mano. Tra tre mesi torneranno clandestini, perché non potranno presentare un documento di riconoscimento rilasciato dalle autorità del paese di origine. Ecco perché chiediamo una soluzione vera al problema di questi richiedenti asilo politico eritrei, somali, sudanesi, etiopi. Torniamo a chiedere all'Italia di fare il primo passo offrendo a queste persone un'accoglienza nel su territorio, almeno a quelle persone che gli e stato negato l'ingresso in Italia, che sono state riconsegnate dalle autorità italiane a quelle libiche come ha confermato lo stesso ministro libico, 250 eritrei sono state riconsegnate dai militari italiani a quelli libici. Sappiamo che l'Italia può mostrare il suo volto più umano, lo ha gai fatto anche in passato accogliendo circa 130 eritrei con il programma di reinsediamento dalla Libya. Questa esperienza positiva che da un ingresso legale, protetto ai richiedenti asilo politico, cosi non sono costretti ad affidarsi nelle mani dei trafficanti è rischiando la vita nel mare. Il mediterraneo è già un cimitero a cielo aperto per centinaia di migranti, ricordiamo quello accaduto un anno fa che morirono 73 eritrei nel indifferenza totale dei paesi che si affacciano nel mediterraneo, in particolare di quelli che hanno il compito di pattugliamento congiunto, in primis Frontex che dovrebbe prevenire rischi del genere, non ha fatto nulla per salvare quelle vite umane. Un anniversario doloroso per noi che abbiamo visto morire i nostri connazionali giovanissimi, con tanta voglia di vivere, di speranza in una nuova vita da costruire in Europa, sognando libertà, democrazia e benessere. Aprite una porta !!! Chi è disperato, chi fugge da persecuzioni, guerre, catastrofi naturali possa entrare trovare rifugio. don. Mussie Zerai