venerdì 5 luglio 2013

Profughi: l’Italia conferma alla Libia il ruolo di “gendarme”

di Emilio Drudi

“Il controllo delle frontiere e dell’immigrazione clandestina per noi è una priorità”. Lo ha dichiarato il premier Enrico Letta al termine dell’incontro a Roma con il primo ministro libico, Ali Zeidan Mohammed, nell’ambito delle trattative per un nuovo trattato con Tripoli. Proprio mentre papa Francesco, con il suo viaggio di lunedì a Lampedusa, lancia implicitamente un monito all’Italia e all’Europa a rivedere la loro politica nei confronti del Sud del mondo, a cominciare dalle barriere sempre più alte erette nei confronti di profughi e migranti, il governo appare orientato a confermare la scelta di fare della Libia il “gendarme del Mediterraneo”. Nonostante il bilancio disastroso degli ultimi anni, segnati da centinaia di disperati scomparsi in mare durante la traversata e da migliaia di perseguitati rinchiusi a tempo indefinito nelle carceri e nei centri di detenzione libici, autentici lager dove la violenza è pratica quotidiana e dove tutti i diritti, anche i più elementari, sono annullati.
Quello che conta, evidentemente, è solo impedire che i “clandestini” arrivino in Italia. Letta non sembra nemmeno sfiorato dall’idea che i “clandestini” che sbarcano sulle nostre coste dall’Africa, nella stragrande maggioranza sono in realtà richiedenti asilo che hanno diritto ad essere accolti come rifugiati. Giovani in fuga da guerre, persecuzioni e soprusi non possono essere respinti a priori, prima ancora di giungere in vista di Lampedusa o della Sicilia: occorre quanto meno esaminare le ragioni che li hanno portati ad abbandonare il loro paese e a chiedere aiuto, affrontando un viaggio pieno di rischi, che spesso dura mesi e mesi e che per molti si conclude in fondo al Mediterraneo, in una fossa comune nel deserto, in una tomba dimenticata, in un lager.
A imporre una politica di accoglienza più “aperta” all’Italia sono le convenzioni internazionali che ha firmato e, prima ancora, la stessa Costituzione Repubblicana. Ma si continua a fingere di ignorare che chiunque fugga da un regime che lo perseguita non può che essere un “migrante clandestino”, costretto a sottrarsi alle normali procedure dell’immigrazione (quote e flussi guidati, permessi, controlli e visti delle ambasciate…) proprio perché sta scappando per salvarsi la vita o quanto meno per sottrarsi al carcere. E’ la stessa ipocrisia posta alla base dei due precedenti accordi anti immigrazione tra Italia e Libia: quello voluto dal ministro leghista Roberto Maroni e firmato da Berlusconi e Gheddafi nel 2009, costato all’Italia una pesante condanna della Corte Europea, per la pratica dei respingimenti in mare; e quello fotocopia siglato dal ministro degli interni Anna Maria Cancellieri il 4 aprile 2012, con il governo Monti. Letta, per parte sua, non sembra intenzionato a cambiare alcunché. Anzi, l’Italia intende intensificare il suo supporto e la sua collaborazione con Tripoli, garantendo – ha specificato il premier – un programma di “attività di addestramento italiano che riguarderà 5 mila unità tra le forze libiche”. La conferma è arrivata da Alì Zeidan: “In Libia – ha dichiarato – faremo tutti gli sforzi per arginare il fenomeno dell’immigrazione clandestina. Abbiamo concordato che questa cooperazione comprenda il rafforzamento dei confini meridionali e marittimi con le infrastrutture necessarie”.
Il presidente libico non ha specificato quali siano queste “infrastrutture”, ma è facile intuire più pattugliamenti in mare e sulle coste e magari una barriera che blindi la frontiera del deserto, lasciando fuori i disperati che arrivano in cerca di asilo in Europa. Anzi, Zeidan ha allargato il suo discorso proprio all’Europa, ribadendo che il suo governo “darà piena collaborazione all’Italia e alla Ue per affrontare e arginare l’immigrazione”, ma chiedendo “contributi anche sul piano finanziario” a tutti gli Stati del Nord del Mediterraneo”. Esattamente come aveva fatto Gheddafi.
Da parte delle forze politiche non ci sono state reazioni. Non c’era da aspettarsele. Il Pdl e la Lega sono da sempre per la linea dura contro tutti gli immigrati. Il Pd ha votato a favore sia dell’accordo Berlusconi-Maroni che di quello Monti-Cancellieri, soffocando le voci contrarie che si erano levate nel gruppo parlamentare alla Camera: a maggior ragione tace ora che la trattativa è condotta da Letta. Il movimento5 Stelle non ha mai mostrato di volersi far carico di questo problema. Al contrario: tra le sue fila si sono levate voci tutt’altro che amichevoli nei confronti dei migranti. Resta Sel, ma finora non si è sentito. Con l’eccezione della presidente della Camera Laura Boldrini la quale, in una significativa intervista rilasciata alla Stampa alla vigilia del vertice Italia-Libia, ha dichiarato: “La visita del papa a Lampedusa è un messaggio epocale, che restituisce dignità alle migliaia di vittime della guerra a bassa intensità che da quindici anni si combatte nel Mediterraneo. Ma è anche un monito contro le campagne ideologiche che disgregano la coesione sociale, denunciando una invasione inesistente, e diffondo la paura chiamando gli immigrati ‘clandestini’ invece che rifugiati”.
Le uniche voci contrarie sono così quelle delle organizzazioni umanitarie. A cominciare da Amnesty International. L’associazione ha già contestato duramente le intese precedenti, presentando anche una petizione a livello europeo che, forte di decine di migliaia di firme, ha sollecitato al ministro Cancellieri la revoca del “patto” 2012. Senza fortuna. Ora è stata di nuovo la prima a sollevare il caso, chiedendo non solo di non sottoscrivere accordi sull’immigrazione ma di bloccare anche i trattati di sostegno e cooperazione economica fino a che non sarà garantito in Libia il rispetto dei diritti umani e, in particolare, dei profughi e dei migranti, sulla base della convenzione di Ginevra del 1951. I motivi della protesta, inviati a Letta il giorno stesso del suo incontro con Alì Zeidan, sono riassunti nel documento che, presentato il 20 giugno in occasione della “Giornata mondiale del Rifugiato”, è il frutto di una visita effettuata in Libia da rappresentanti di Amnesty tra aprile e maggio. Vi si denuncia, in particolare, “la detenzione a tempo indeterminato di rifugiati, richiedenti asilo e migranti (compresi bambini) in prigioni, definite centri di trattenimento”, dove le condizioni di vita sono pesantissime.
Al momento della visita – specifica Amnesty – nel paese erano operativi 17 “centri di trattenimento” gestiti dal ministero dell’interno, con almeno 5 mila prigionieri, senza contare però i campi affidati alle milizie armate. Anzi, secondo l’agenzia Habeshia, le milizie sono in realtà “padrone” anche di diversi centri formalmente amministrati dal ministero. Dei 17 centri “ufficiali”, Amnesty ne ha potuti visitare sette. Il rapporto è eloquente: “In tre di essi c’erano anche minori non accompagnati, alcuni di 10 anni, detenuti da mesi. A Sabha, dove a maggio si trovavano 1.300 persone, i detenuti erano ammassati in celle sporche e sovraffollate. La prigione risultava priva di un servizio di fognature, mentre i corridoi erano pieni di immondizie. Circa 80 prigionieri, presumibilmente affetti da scabbia, erano sottoposti a ‘trattamento’ in un cortile, sotto al sole, in condizioni di disidratazione”. E ancora: “Sono stati documentati numerosi casi di detenuti, uomini e donne, sottoposti a brutali pestaggi con cavi elettrici o tubi dell’acqua. In almeno due centri è stato riferito dell’uso di munizioni letali per controllare le proteste. Un uomo che era stato raggiunto da un proiettile a un piede, è stato legato a un letto e poi colpito con il calcio del fucile: per quattro mesi non ha potuto camminare”.
Di fronte a denunce di questo genere, vari esponenti del governo e della maggioranza hanno spesso ribattuto che comunque “l’immigrazione va gestita” e non può essere una questione abbandonata a se stessa o allo “spontaneismo”. “Ma gestire il problema – protesta don Mussie Zerai, portavoce dell’agenzia Habeshia – non significa delegare tutto alla Libia come si sta facendo da anni, senza pretendere la garanzia del rispetto dei diritti umani più elementari per migliaia di persone, tenute prigioniere in autentici lager e consegnate di fatto all’arbitrio della polizia di Tripoli o, peggio, delle milizie ausiliarie armate che vigilano sui centri di detenzione. Questa delega totale equivale a rendersi complici dei crimini commessi ogni giorno contro quei disperati, come documentano ormai decine e decine di denunce. Se si volesse davvero gestire il problema, basterebbe organizzare vie di ingresso legale in Italia e in Europa, sotto il controllo della Ue. Penso, ad esempio, all’opportunità di stabilire in Libia, magari presso le ambasciate, i consolati o altre sedi europee e d’intesa con l’Onu e la Ue, le commissioni incaricate di esaminare le richieste di asilo. Garantendo nel frattempo condizioni di vita dignitose e pretendendo da Tripoli la libertà di ispezionare in ogni momento e senza preavviso i centri di accoglienza”.

Come dire: va cambiata radicalmente tutta la politica di accoglienza. E’ difficile pensare che il governo dia risposte in questo senso. Tutto lascia credere, piuttosto, che sul contenuto preciso dei nuovi accordi finirà per attivarsi un processo di “silenziamento” simile a quello che ha coperto di fatto il trattato sull’immigrazione del 2012. Un “silenziamento” che riguarda anche l’inferno delle carceri e dei campi di accoglienza sparsi in tutta la Libia, una notizia scomoda che sulla stampa trova molto meno spazio, ad esempio, dei resoconti “buonisti” sui salvataggi e sul recupero in mare dei barconi carichi di migranti da parte della nostra Guardia Costiera. Anche se si tratta della sofferenza e della vita stessa di migliaia di uomini e donne. Ed è sintomatico, forse, che questo nuovo accordo arrivi proprio in questi giorni. Magari è solo un caso, ma nei mesi scorsi Israele ha completato la lunghissima, impenetrabile barriera di filo spinato sul confine egiziano, nel deserto del Sinai. Non solo: ora sta prendendo provvedimenti per espellere quasi tutti i 60 mila rifugiati, in massima parte sudanesi ed eritrei, arrivati negli anni scorsi. Si è chiusa definitivamente, insomma, la via del Sinai, percorsa da migliaia di profughi fuggiti da Eritrea, Somalia, Etiopia e Sudan. Così, sbarrata la “porta” di Israele, l’unica strada rimasta è quella del nostro Mediterraneo. Nasce il sospetto, allora, che possa essere proprio questo il motivo guida alla base del nuovo accordo tra Italia e Libia. E quella dichiarazione lapidaria del premier Letta – “Il controllo delle frontiere e dell’immigrazione clandestina è per noi una priorità” – potrebbe essere la spia che si sta puntando sulla stessa linea dura adottata da Israele. Solo che Tel Aviv ha almeno il coraggio di farsi da sola il “lavoro sporco”. Roma lo delega a Tripoli.

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