domenica 6 ottobre 2013

I superstiti di Lampedusa e i profughi “invisibili” di Roma

di Emilio Drudi

“Voglio annunciare che Roma prenderà un’iniziativa concreta: i 155 superstiti saranno accolti qui, grazie alla collaborazione del ministero dell’Interno”: lo ha detto il sindaco Ignazio Marino durante la veglia in ricordo delle vittime della tragedia di Lampedusa, assicurando che il Campidoglio si farà carico direttamente del programma di aiuti e assistenza immediato e futuro. Sono già state indicate soluzioni per le necessità più urgenti, a cominciare dall’alloggio: i profughi saranno ospitati in due strutture appartenenti al Comune. Per vestiario, beni di prima necessità, ecc. si sta provvedendo a cura dei servizi sociali capitolini e con l’aiuto di volontari e varie organizzazioni umanitarie. Lo stesso Marino ha spiegato le ragioni di questa scelta: “Il destino dei migranti – ha detto – è anche il nostro. Io dico basta ai messaggi di cordoglio ai quali non seguono azioni tangibili, perché è solo ipocrisia”. Sulla stessa linea il presidente della Regione, Nicola Zingaretti il quale, oltre ad assicurare il suo sostegno all’iniziativa, ha ampliato il discorso, invocando “leggi più umane e più civili” per costruire in Italia e in Europa un sistema di accoglienza più efficiente e, soprattutto, più vicino ai bisogni reali dei migranti.
Può essere finalmente l’inizio di un discorso nuovo. Il punto di svolta sollecitato con forza, direttamente da Lampedusa, dal sindaco Giusi Nicolini e dalla presidente della Camera Laura Boldrini (non a caso due donne da sempre in prima linea nella battaglia sui diritti dei profughi), per fare in modo che d’ora in poi le cose cambino veramente. Per un domani diverso. Ecco perché appare nobile e di grande spessore umano e civile la decisione del sindaco Marino. Di più: è anche una risposta netta ai tanti distinguo che già cominciano ad emergere, dopo il coro di parole di cordoglio e la profusione di lacrime “pubbliche”. A cominciare dai tanti tentennamenti e dalle resistenze all'abrogazione della legge Bossi-Fini. Quella legge assurda che, come primo atto, nel momento stesso in cui i sopravvissuti sono sbarcati con negli occhi l’orrore che stavano vivendo, li ha incriminati per immigrazione clandestina. E che minaccia di mettere sotto accusa per favoreggiamento dello stesso reato chiunque presti soccorso e porti a terra migranti naufragati in pieno Mediterraneo o intercettati, stipati a centinaia, su carrette non più in grado di reggere il mare. Basti citare il discorso fatto alla Camera dal ministro degli interni Angelino Alfano, che è tornato a parlare di “difesa” delle frontiere, come se l’Italia e l’Europa avessero di fronte un esercito armato di invasori e non disperati in cerca di aiuto per sottrarsi a guerre e persecuzioni, a carcere e torture. In una parola, per poter sopravvivere.
Eppure, resta un “però”. La decisione e l’appello del sindaco sarebbero stati forse ancora più significativi ed efficaci o, meglio, più davvero “rivoluzionari”, se accanto ai 155 superstiti di Lampedusa fossero stati messi anche tutti gli altri profughi abbandonati a se stessi a Roma. Ce ne sono a decine, a centinaia. Hanno ottenuto il riconoscimento dello status di rifugiato e il diritto alla protezione internazionale, ma poi nessuno si è più ricordato di loro. Cancellati come se non esistessero. “Non persone” condannate a trascinare i loro giorni nei rifugi di fortuna degli “invisibili”, da usare al massimo come manovalanza in nero, salvo a riemergere di colpo “visibili”, anzi, ad essere messi sotto i riflettori, quando se ne occupa la cronaca nera: allora diventano i “responsabili” di tutto, il “capro” su cui scaricare colpe e frustrazioni che in realtà con loro non hanno nulla a che fare.
E’ emblematico a questo proposito il caso, esploso qualche anno fa, dell’ex consolato della Somalia. Nella grande villa liberty sulla via Nomentana, a due passi da Porta Pia, che ospitava gli uffici diplomatici, chiusi e abbandonati dopo la caduta del dittatore Siad Barre e la disgregazione della Repubblica Somala, avevano trovato rifugio numerosi profughi. Soprattutto somali, etiopi ed eritrei. Una “invasione” che si è protratta a lungo, in condizioni di assoluta indigenza e insicurezza, in pratica senza servizi, con uno o due bagni al massimo per tutti e persino quasi senz’acqua. Una bomba pronta a scoppiare nel cuore della città, anche perché in quella villa, dopo i richiedenti asilo che avevano promosso inizialmente l’occupazione, si erano stabiliti nei mesi successivi pure personaggi equivoci di ogni genere, minacciando e spesso pestando a sangue chiunque cercasse di opporsi. Lo sapevano tutti. Polizia e vigili urbani, e quindi Governo e Comune, non potevano non sapere. Però nessuno è intervenuto e non se ne è mai parlato. Fino a quando non si è verificato un episodio drammatico, lo stupro di una ragazza che aveva seguito un amico in quella “casa di disperati” trasformata in polveriera. Allora, di colpo, la città ha scoperto quel gorgo di umanità sconfitta con il quale aveva convissuto indifferente sino a quel momento e ne è scoppiato il solito, effimero “scandalo”. La vicenda ha riempito per qualche giorno le cronache, si sono rincorse le immancabili dichiarazioni di fuoco contro il “pericolo dei migranti”, la villa è stata evacuata, gli occupanti identificati uno per uno. Scoprendo che tra di loro c’erano molti profughi che, indirizzati a Roma dai centri di accoglienza del Sud Italia con in tasca solo un biglietto ferroviario e qualche euro, non avevano trovato altra strada che cercare riparo in quegli uffici abbandonati e arrangiarsi con lavori in nero per sopravvivere. Rifugiati regolari eppure soltanto “fantasmi” per le istituzioni italiane. Poi il clamore si è placato e il problema è rimasto irrisolto. Si è solo spostato. I profughi si sono trasferiti in altri ricoveri di fortuna: alcuni nelle baraccopoli di periferia, soprattutto quella sorta a Ponte Mammolo, sugli argini dell’Aniene; altri, ancora di più, in un palazzone in disuso alla Romanina, già occupato da centinaia di disperati come loro. Di nuovo invisibili in mezzo ad altri invisibili. Specie per chi non vuole vedere e si ostina a chiudere gli occhi.
Gli occhi delle istituzioni e dei media sono rimasti ostinatamente chiusi anche quando Nils Muiznieks, commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, all’inizio dell’estate 2012 ha scritto un rapporto di fuoco, dopo aver constatato di persona come sono costretti a vivere quegli uomini e quelle donne a Roma, in realtà come l’edificio cadente della Romanina o il campo di baracche e di tende di Ponte Mammolo ed altre ancora: sulla via Collatina, ad esempio, e in altre zone della più estrema periferia. Ogni tanto, tuttavia, qualcosa gli occhi costringe ad aprirli. Anche a chi non vorrebbe guardare. Qualche mese fa ci ha pensato l’Herald Tribune, con un’inchiesta giornalistica che, partendo dal caso della Romanina, ha portato in prima pagina lo sbando a cui sono condannati, nella capitale d’Italia, centinaia di rifugiati ed altri migranti. Un servizio che ha fatto il giro d’Europa, inducendo la Commissione per i diritti umani e l’Assemblea di Bruxelles a chiedere ancora una volta conto all’Italia della sua politica di accoglienza. Il governo ha risposto con l’impegno, da parte dell’allora ministro degli interni Anna Maria Cancellieri, a varare subito interventi di emergenza, oltre che un piano futuro più vasto di “inclusione sociale”. In realtà, non è stato fatto nulla o quasi: quei profughi sono sempre lì, a popolare da invisibili quei palazzoni semi diroccati e quelle baraccopoli. Ancora non persone abbandonate da tutti.
Ecco il punto. E’ vero che si tratta di episodi accaduti e denunciati prima che Ignazio Marino diventasse sindaco di Roma. Ma, ammesso che non gliene sia arrivata almeno un’eco quando era al Parlamento, prima di dimettersi proprio per proporsi come guida della Capitale, nell’amministrazione pubblica c’è comunque una continuità e c’è da credere, bisogna credere, che qualcuno in Campidoglio lo abbia informato di quelle situazioni dimenticate. Adesso che è lui il sindaco di Roma quel problema è diventato un suo problema. Urgente come quello dei 155 superstiti di Lampedusa. Anzi, è esattamente lo stesso problema: il dramma di centinaia di uomini e donne che hanno diritto alla protezione internazionale, con alle spalle storie del tutto simili a quelle dei fratelli appena arrivati. Gente che non di rado solo il caso ha portato viva sulle sponde italiane e non sepolto in fondo al Mediterraneo. L’unica differenza è che il capitolo Lampedusa occupa ancora, come è giusto, le pagine di tutti i giornali e sta scuotendo le coscienze nell’Europa intera, mentre i campi spontanei di Roma sono stati fatti sparire a poco a poco sotto una spessa coltre di “silenziamento”.

Allora, se davvero si vuole voltare pagina nella politica dell’accoglienza e si è convinti che dall’ecatombe di Lampedusa in poi il rapporto con i migranti in Italia e in Europa non potrà più essere quello che è stato finora, non ci si può limitare a seguire l’emozione del momento. Proprio per le parole che ha detto alla veglia in ricordo delle ultime vittime di questa tragedia italiana ed europea, a Marino non è concesso perdere l’opportunità di estendere il suo progetto di amicizia, prima ancora che di assistenza, a tutti i profughi e i rifugiati ospiti della sua città. E’ difficile? Certo che lo è: anzi, è molto difficile. Lo dicono le resistenze che già si manifestano a vari livelli, a cominciare dal Parlamento e da quasi tutta la destra politica. Ma Marino può farcela perché avrà al suo fianco l’Italia migliore e perché è una battaglia giusta. Da combattere spendendo tutta l’autorità e il prestigio che ha come sindaco della Capitale per coinvolgere altri comuni, la Provincia, la Regione, il ministero degli interni, lo stesso governo. La nuova politica dell’accoglienza, invocata da tantissimi nel Paese, può cominciare proprio da qui: da Roma e dal Lazio.

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