lunedì 23 dicembre 2013

Centri per rifugiati: cresce la tensione, ma il Governo si defila

di Emilio Drudi

Il ministro dell’interno Angelino Alfano stava parlando alla Camera sul video-choc che ha documentato il trattamento inumano riservato ai profughi nel centro accoglienza di Lampedusa, quando è esplosa la notizia della terribile protesta attuata proprio a Roma, a meno di dieci chilometri dai palazzi del potere, da otto migranti ospiti del Cie di Ponte Galeria: otto disperati che si sono cuciti la bocca per urlare la impossibilità di farsi ascoltare contro l’indifferenza che in Italia circonda la tragedia di tanti giovani come loro. Quel grido di dolore ha squassato l’ipocrisia che stavano dimostrando il Governo e la politica anche di fronte all'umiliazione e al tormento dei giovani rifugiati africani che, in una struttura dello Stato, nudi e costretti in fila all'aperto, venivano spruzzati con un liquido anti scabbia. Una routine sconvolgente, che sarebbe rimasta nascosta senza le immagini “rubate” con il suo cellulare da uno dei profughi, un ragazzo siriano.
Nel suo intervento in Parlamento, Alfano non è andato al di là delle solite promesse e rassicurazioni generiche. L’unico provvedimento concreto è stata la revoca del contratto alla cooperativa che finora ha gestito il campo di Lampedusa. Meno del minimo. Niente, anzi, di fronte allo sbando nel quale sono precipitate da anni tutte le strutture destinate ad ospitare fuggiaschi e migranti: i centri di prima accoglienza (Cpa); i centri di assistenza per i richiedenti asilo (Cara); i centri di identificazione ed espulsione (Cie), vere e proprie carceri, questi ultimi, in cui si può restare rinchiusi per mesi, senza aver commesso alcun reato e senza processo. Alfano, a nome del Governo, ha glissato ancora una volta. Su tutto. Non ci ha pensato neanche un attimo a mettere in discussione il sistema di accoglienza in vigore nel nostro Paese, una vera e propria fabbrica di sofferenze, che trasforma i profughi in non persone, prive di ogni diritto, “invisibili” consegnati allo sfruttamento e al lavoro nero e costretti a vivere a migliaia in rifugi di fortuna come, a Roma, il palazzone abbandonato della Romanina (oltre 1.500 ospiti), un altro edificio in disuso nella periferia del Collatino (più di mille “inquilini”), la baraccopoli sull’argine dell’Aniene (tra i 150 e i 200 accampati) a Ponte Mammolo.
Il solito silenzio assoluto. Eppure, proprio in concomitanza con il filmato del Tg-2 in discussione alla Camera, sono scoppiati numerosi altri casi a denunciare come il trattamento inumano documentato a Lampedusa sia in realtà la regola in tutta Italia, in strutture concepite come prigioni, vecchie, inadeguate e sempre così sovraffollate che le condizioni di vita diventano di per sé impossibili, spesso aggravate anche dalla insensibilità di chi ha il delicato compito della gestione, dalle lungaggini della burocrazia, dalle continue “non risposte”. In una parola, dall’insensibilità di uno Stato che accoglie migliaia di disperati come profughi, ma poi li abbandona al proprio destino. E’ una tragedia che si consuma giorno per giorno, ma nascosta sotto una coltre pesante di “silenziamento”: ai tempi del ministro leghista Roberto Maroni agli interni, si è persino arrivati alla vera e propria censura, con il divieto ai giornalisti di accedere ai centri di accoglienza di tutti i tipi: Cpa, Cara e Cie.
La protesta sconvolgente di Ponte Galeria ha voluto denunciare questo muro di omertà che copre i ritardi, l’indifferenza, gli abusi. Gli otto maghrebini, quattro marocchini e quattro tunisini, che si sono cucite le labbra con un ago ricavato dalla parte metallica di un accendino da due soldi e il filo strappato a una coperta, hanno fatto capire di essere decisi a portare avanti la loro azione ad oltranza, rifiutando anche il cibo: accettano solo un po’ d’acqua, che bevono con una cannuccia. A loro, domenica mattina, si sono uniti altri due migranti, sempre maghrebini, anch’essi cucendosi la bocca e iniziando lo sciopero della fame. Una contestazione estrema, come estrema è la disperazione e la condizione dei migranti nei Cie.
Uno sciopero della fame è in corso da quattro giorni anche al centro di prima accoglienza di Cagliari. Fa seguito alla sommossa scoppiata tra gli eritrei trasferiti da Lampedusa dopo lo scandalo del filmato e sedata a fatica dalla polizia. Si tratta di circa 80 giovani, in maggioranza uomini ma anche numerose donne, di cui cinque in stato di gravidanza. Pensavano che, dopo i mesi trascorsi come confinati, la loro odissea fosse finalmente terminata. Invece si sono ritrovati ad Elmas, in un altro campo simile a quello che avevano appena lasciato. Anzi, ancora più militarizzato, perché è adiacente all’aeroporto. Da qui la rivolta. Una decina hanno anche tentato la fuga, gettandosi in mare: due hanno rischiato di annegare e sono stati ripresi, di otto si è persa ogni traccia. Gli altri, appena arrivati nella struttura d’accoglienza, allestita come una caserma o un carcere, hanno deciso tutti insieme di rifiutare acqua e cibo. “Perché – hanno urlato – ci avete messo in questa specie di prigione? Dopo tutto quello che abbiamo sofferto nel deserto, in Libia e in mare, ora ci rinchiudete in una base militare. Qual è la nostra colpa, forse quella di aver cercato la libertà?...”. Questo sogno di libertà lo stanno inseguendo non da noi ma in altri stati europei, dove hanno familiari e parenti pronti ad accoglierli e ad aiutarli. Così rifiutano di registrarsi e di rilasciare le proprie impronte digitali, per non essere poi costretti a restare in Italia, come prevede il trattato di Dublino, che vincola i rifugiati al paese nel quale hanno chiesto asilo. Ricordano che un loro compagno, Mulue Ghirmay, si è suicidato nel Cara di Mineo, nel Catanese, proprio per questo: voleva raggiungere una delle sue sorelle in Svizzera o in Norvegia, ma si è trovato di fronte la barriera invalicabile eretta dalle cancellerie europee e dalla ottusa burocrazia italiana.
Anche il Cara di Mineo è in rivolta. Proprio sulla scia della scelta estrema di Mulue Ghirmay, che si è impiccato a 21 anni, stroncato da otto mesi consumati nella vana attesa di essere ascoltato dalla commissione territoriale alla quale aveva inoltrato la richiesta di asilo. Otto mesi d’inferno e con davanti nessuna prospettiva di futuro. Otto mesi trascorsi come in prigione, in una struttura invivibile, attrezzata per un massimo di 1.200 posti ma dove, in un clima di prepotenze e abusi, vivono attualmente oltre 4 mila disperati provenienti da ben 54 nazioni diverse. Ecco perché è esplosa la rabbia dei suoi compagni di sventura che, esasperati, hanno abbandonato il centro, una ex base militare americana, dando vita a una serie di blocchi stradali e di scontri con la polizia. Come già diverse altre volte in passato. Mulue, infatti, non è la sola vittima registrata in questo complesso, isolato in mezzo alla campagna, lontano da tutto e da tutti. Secondo le ripetute denunce dell’agenzia Habeshia, ci sarebbero stati almeno altri quattro morti per i disagi e le scarse cure mediche. L’ultimo, nel gennaio scorso, è una ragazza eritrea di 28 anni, incinta di 4 mesi, sofferente di aneurisma all’aorta eppure costretta a rimanere nel caos del Cara. Prima di lei, per varie patologie, un giovane pakistano, un maliano e un ghaniano. Da sempre, del resto, la Ong Medici per i diritti umani denuncia che, in tutte le strutture che ospitano profughi e migranti, l’assistenza sanitaria è del tutto inadeguata, spesso solo teorica. Ma questi appelli sono rimasti inascoltati. Così come le richieste di prevedere anche ambulatori di psicologi, per occuparsi almeno dei casi più vulnerabili, dei “malati dentro”.
Non c’è ormai un solo centro d’accoglienza dove la tensione non sia al massimo. Lo denuncia anche il deputato del Pd Khalid Chaouki, di origine marocchina, che domenica si è rinchiuso nel complesso di Lampedusa, deciso a restarci – ha dichiarato – “fino a quando le cose non cambieranno”. “Non mi muoverò da qui – ha spiegato – finché il ragazzo siriano che ha girato il video e i naufraghi del tre ottobre illegittimamente trattenuti da oltre due mesi, non saranno trasferiti. La mia è una protesta forte. Sono venuto più di una volta a Lampedusa, ma nessuno agisce. Invito tutti i miei colleghi e i sindaci a occuparsi dei centri che hanno vicini alle loro città e ad andare a vedere come funzionano le cose”.
Ecco il punto. Il Governo, le istituzioni, la politica hanno sempre rimosso questo problema enorme, seppellendolo sotto un’ipocrita immagine di buonismo, che esalta i salvataggi dei naufraghi ma tace sul trattamento poi riservato ai profughi tratti in salvo. Tace sui respingimenti indiscriminati in mare, che continuano nonostante gli impegni presi con l’Europa. Tace sull’affidamento di migliaia di uomini, donne e persino bambini alle carceri libiche – autentici lager dove accade di tutto: abusi, maltrattamenti, pestaggi, lavoro forzato, torture, stupri, ricatti – grazie agli accordi bilaterali che delegano a Tripoli il ruolo di “gendarme del Mediterraneo” contro l’emigrazione, addestrandone la polizia e rifornendolo anche di mezzi navali, auto militari speciali, armi.

Il discorso del ministro Alfano in Parlamento non si è discostato da questa ipocrisia. Le urla di protesta dolorose che arrivano da tutta Italia si sono incaricate di smentirlo prima ancora che nell’aula di Montecitorio cessasse l’eco delle sue parole.

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