venerdì 20 dicembre 2013

Il video choc di Lampedusa, i centri per i rifugiati e le ipocrisie


di Emilio Drudi
C’era da aspettarselo. Le immagini sconvolgenti trasmesse dal Tg2 sul trattamento inumano dei profughi, nel centro di accoglienza di Lampedusa, hanno scatenato nel governo e tra i politici una valanga di lacrime e di indignazione “d’ordinanza”. Per la verità, non subito. In un paese normale sarebbe stato lecito aspettarsi prese di posizione e interventi concreti immediati, un minuto, un’ora dopo la trasmissione, la sera stessa in cui il servizio è stato mandato in onda. Invece la valanga ha cominciato a mettersi in moto solo il giorno dopo, quando lo scandalo aveva già varcato i confini e si stava attivando l’Unione Europea. Poi è stato un susseguirsi di dichiarazioni di fuoco. A cominciare dal premier Enrico Letta il quale, promettendo l’ennesima “indagine approfondita”, ha tuonato: “Sanzioneremo i responsabili”.
La fila dietro di lui è lunghissima. Emma Bonino, ministro degli esteri, ha definito “orripilante” il video, chiedendo di “punire con severità chi è responsabile di non rispettare i valori del nostro Paese”. Beatrice Lorenzin, al vertice del dicastero della salute, riferendosi forse ai trattamenti di disinfezione e profilassi anti scabbia, ha sottolineato l’ovvietà assoluta: “Le procedure non prevedono persone nude in un capannone irrorate con un disinfettante”. Come se qualcuno possa mai aver avuto il minimo dubbio che quel trattamento è quanto meno “fuori procedura”. Annamaria Cancellieri, ministro della giustizia, ha ammesso che quel filmato choc “fa stare male” ma, con un miracolo di equilibrismo, si è mostrata molto più cauta di quando ha fatto la famosa telefonata alla sua amica Gabriella Fragni, compagna del costruttore Salvatore Ligresti, appena arrestato insieme alle figlie: “Bisogna vedere tutta la procedura cosa comporta. Prima di giudicare va fatta un’inchiesta, però quelle immagini fanno impressione, anche se può darsi che distorcono la realtà”. Il viceministro dell’interno Filippo Bubbico e il neo-presidente del Pd Gianni Cuperlo hanno allargato il tiro, chiedendo di chiudere tutti i Centri di identificazione ed espulsione, che in realtà sono autentici lager, ma sono cosa diversa e svolgono un’altra funzione rispetto al centro di accoglienza di Lampedusa.
Ancora. Cecile Kyenge, dal suo ufficio di ministro dell’integrazione, ha sollecitato un’azione immediata del Governo: “Il Governo – ha dichiarato – deve intervenire per ripristinare un’immagine diversa dell’Italia, un’immagine dove la democrazia sia rispettata e dove i diritti di ogni persona, indipendentemente dalle origini, siano garantiti”. Già, il Governo… E’ giustissimo, ma forse ha dimenticato che anche lei è “il Governo”. Altrettanto sconcertante il ministro dell’interno Angelino Alfano il quale – secondo la collega Lorenzin – avrebbe accolto la notizia con un grande moto di indignazione: “Ero in Consiglio dei ministri e ho visto le immagini con Alfano – ha raccontato la titolare della Sanità – Lui è sobbalzato sulla sedia e si è attivato per capire chi fosse il responsabile”. Questa “attivazione” seguita al sobbalzo sulla sedia è stata la richiesta di una relazione sull'accaduto da far arrivare entro 24 ore sulla sua scrivania, con l’aggiunta di un perentorio: “Chi ha sbagliato pagherà”. Poi, 48 ore dopo, è stato revocato l’incarico alla cooperativa che gestiva il centro, ma va da sé che questo “licenziamento” è il minimo che si potesse fare: il problema è molto più vasto.
“Chi ha sbagliato pagherà”. Il tono generale delle reazioni è stato questo: individuare i responsabili. Ma al di là delle responsabilità penali individuali, che dovranno essere accertate dall'inchiesta aperta dalla magistratura di Agrigento, se ci sono colpe quanto meno morali e oggettive, in questa tristissima, umiliante vicenda, vanno ricercate in massima parte nella politica e nel Governo. Anzi, nei governi degli ultimi anni. Perché è noto a tutti ed è stato denunciato infinite volte da una miriade di operatori e associazioni umanitarie, quello che accade in Italia nei Centri di accoglienza per i richiedenti asilo (Cara), nei Centri di prima assistenza (Cpa) e nei Centri di identificazione ed espulsione (Cie). Ma il Governo e la politica non hanno mai fatto nulla per eliminare questo scandalo. Né oggi, né prima. Silenzio assoluto. Anzi, ai tempi del ministro leghista Roberto Maroni agli interni, si è anche adottata una tecnica di “silenziamento” generale, vietando ai giornalisti l’accesso a questi centri. In particolare ai Cie, dove la situazione è più disastrosa: carceri in cui si viene rinchiusi per mesi senza aver commesso alcun reato e senza processo.
Alfano ha chiesto l’ennesima relazione. Ma – a parte che, essendo più volte andato a Lampedusa, dovrebbe conoscere perfettamente, di persona, la condizione sconvolgente del centro di accoglienza dell’isola – di relazioni di questo genere la sua scrivania è piena, addirittura ingombra: gliele hanno mandate a decine i suoi stessi prefetti e ispettori, oltre che organizzazioni come Amnesty, Medici per i diritti umani, Habeshia, da sempre in prima fila per l’assistenza e la difesa dei rifugiati e dei migranti. Evidentemente, come è avvenuta “a sua insaputa” la vergognosa, illegittima espulsione lampo dall’Italia di Alba Shalabayeva, consegnata insieme alla figlioletta di appena 6 anni al dittatore kazako Nurisultan Nazarbaiyev, anche questi rapporti sono arrivati allo stesso modo: “a sua insaputa”. Eppure si tratta di rapporti di fuoco, che evidenziano una situazione indegna.
L’ultimo caso precede di appena due giorni lo scandalo documentato dal video di Lampedusa. Riguarda il Cara di Mineo, nel Catanese, dove un ragazzo eritreo, Mulue Ghirmay, si è impiccato a 21 anni, stroncato da otto mesi consumati nella vana attesa di essere ascoltato dalla commissione territoriale, alla quale aveva inoltrato la richiesta di asilo. Otto mesi d’inferno e con davanti nessuna prospettiva di futuro. Otto mesi trascorsi come in prigione, in una struttura invivibile, attrezzata per un massimo di 1.200 posti ma dove, in un clima di prepotenze e abusi, vivono attualmente oltre 4 mila disperati, provenienti da ben 54 paesi diversi: “non persone” senza diritti, condannate per lo più a diventare sbandati “invisibili”, senza lavoro e senza casa, anche quando la loro domanda di protezione internazionale viene accolta. “Mulue Ghirmay – ha scritto don Zerai, presidente dell’agenzia Habeshia – non ha trovato la morte nella difficile marcia attraverso il deserto in mezzo a mille pericoli, non l’ha trovata nel girone infernale della Libia o nella drammatica traversata del Mediterraneo. L’ha trovata in quell’Italia alla quale aveva chiesto aiuto e amicizia”.
La rabbia dei suoi compagni di sventura finiti a Mineo è esplosa in un’altra delle tante sommosse che hanno costellato in questi anni la vita del centro di accoglienza. E Mulue non è la sola vittima registrata in questa struttura del Catanese. Secondo le ripetute denunce di Habeshia, ci sarebbero stati almeno altri quattro morti per i disagi e le scarse cure mediche. L’ultimo, nel gennaio scorso, è una ragazza eritrea di 28 anni, incinta di 4 mesi, sofferente di aneurisma all’aorta eppure fatta rimanere nel caos del Cara. Prima di lei, per varie patologie, un giovane pakistano, un maliano e un ghaniano. Da sempre, del resto, la Ong Medici per i diritti umani denuncia che, in tutti i centri che ospitano profughi e migranti, l’assistenza sanitaria è del tutto inadeguata, spesso solo teorica. Ma questi appelli sono rimasti inascoltati. Così come le richieste di dotare le strutture anche di un ambulatorio di psicologi, per occuparsi almeno dei casi più vulnerabili, dei “malati dentro”.
L’elenco delle sofferenze è lunghissimo, scandito anche da proteste e rivolte. Pochi mesi fa, ad esempio, al Cara di Caltanisetta i profughi che avevano ottenuto dalla commissione territoriale lo status di rifugiato o un’altra forma di protezione, anziché essere accompagnati verso un percorso di inserimento sociale, sono stati allontanati dalla struttura senza neppure ricevere tutti i documenti, salvo l’impegno di completare l’iter entro 40 giorni. Ovvero, gettati per strada privi di tutto, persino delle “carte burocratiche” complete: nessuno si è preoccupato di come avrebbero potuto mangiare, trovare un alloggio qualsiasi, sopravvivere. Uomini trasformati in merce a perdere, esposti ad ogni pericolo e ad ogni forma di sfruttamento e ricatto. Il vuoto. Lo stesso vuoto che, uscendo dal campo di Crotone Sant’Anna, ha trovato nel marzo del 2012 un profugo eritreo di 32 anni. Un vuoto enorme, fatto di emarginazione, nessuna possibilità di lavoro, niente casa. Un buco incolmabile che lo ha ucciso: anche lui è stato trovato impiccato, nel rifugio di fortuna che si era ricavato in un rudere, ad Isola Capo Rizzuto.
Non a caso proprio in queste ore è scoppiata una sommossa tra gli eritrei trasferiti da Lampedusa al centro di prima assistenza di Cagliari, ottanta circa tra uomini e donne, di cui 5 in stato di gravidanza: chiedono di non essere costretti ad essere registrati e a rilasciare le proprie impronte digitali, per non dover poi restare in Italia, abbandonati da quello Stato che in teoria li ha accolti come profughi ma che in realtà si limita a schedarli, lasciandoli poi al proprio destino. “Una decina di loro – racconta don Zerai – ha anche tentato la fuga, gettandosi in mare: due hanno rischiato di annegare e sono stati salvati, degli altri otto si è persa ogni traccia. Si pensa, si spera, che abbiano raggiunto a nuoto qualche anfratto della costa dove approdare”. Tutti quelli rimasti al Cpa hanno iniziato lo sciopero della fame. Vogliono che venga revocato o non applicato il trattato di Dublino che, se richiedono asilo in Italia, impedisce loro di cercare rifugio in altri stati europei, dove spesso vivono familiari ed amici. Ricordano che Mulue Ghirmay si è suicidato a Mineo proprio per questo: voleva raggiungere una delle sorelle, in Svizzera o in Norvegia, ma ha trovato di fronte a sé barriere invalicabili. Contestano, inoltre, la sistemazione in una struttura allestita come una caserma o un carcere. “Perché – urla un portavoce del gruppo – siamo finiti in questa specie di prigione? Che cosa abbiamo fatto? Dopo tutto quello che abbiamo sofferto nel deserto, in Libia e in mare, ora ci rinchiudete in una base militare. Qual è la nostra colpa, forse quella di aver cercato la libertà?...”.

E tutto questo calvario nei “centri” italiani è ancora il meno. Nei 23 campi di detenzione libici, che solo la visione assurda del governo italiano può far finta di ritenere centri di accoglienza, le cose vanno anche peggio. Molto peggio. Profughi e migranti sono in balia del personale di guardia, costituito quasi sempre da miliziani: fame, sete, violenze, maltrattamenti, lavoro obbligatorio, stupri, torture, ricatti sono la norma quotidiana. E’ l’Italia che indirettamente consegna di fatto a questi lager migliaia di disperati, grazie al trattato bilaterale tra i due governi, che affida a Tripoli il compito di “gendarme del Mediterraneo” contro l’emigrazione. I parlamentari e i ministri che ora profondono lacrime e indignazione per la vicenda di Lampedusa, non possono non saperlo. Ma non ne parlano. Incluso il premier Enrico Letta, che il 4 luglio scorso ha siglato il terzo accordo con la Libia, dopo quello del 2009 voluto da Berlusconi con Gheddafi e quello del 2012, firmato da Monti e da Annamaria Cancellieri, allora ministro degli interni, con la coalizione rivoluzionaria. E’ un silenzio assordante, che tradisce mille ipocrisie.  

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