sabato 30 maggio 2015

NO ALLA MILITARIZZAZIONE DEI CENTRI DI PRIMA ACCOGLIENZA

NO ALLA MILITARIZZAZIONE DEI CENTRI DI PRIMA ACCOGLIENZA-
DIFENDIAMO I DIRITTI FONDAMENTALI DELLE PERSONE DOPO LO SBARCO -
OGNUNO SI ASSUMA LE PROPRIE RESPONSABILITÀ DI FRONTE AI NUOVI MURI CHE SI ALZANO ATTORNO AI MIGRANTI.
Da tempo non ricorrevo alle mail per denunciare una situazione che si aggrava ogni giorno di più. Ben prima che l’Unione Europea abbia assunto decisioni formali e condivise ( se ne parlerà al Consiglio dei ministri del 15 giugno ed al Consiglio Europeo del 26 giugno), alcuni punti dell’Agenda sull’immigrazione presentata dalla Commissione vengono attuati. Mentre sembra lontana l’approvazione delle proposte di intervento in Libia presentate dalla Commissaria UE Mogherini su proposta del governo Renzi (  e tutto questo all’indomani della più grande strage del Mediterraneo, di cui non parla più nessuno, se non per farsi propaganda), in Sicilia si sta completando la militarizzazione del sistema di prima accoglienza, con l’arrivo di funzionari Frontex  ( e sembra anche di EASO ed Europol) che avrebbero aperto una sede a Pozzallo, in quello che dovrebbe essere un centro di primo soccorso ed accoglienza ( CPSA), in attesa di insediarsi nella sede operativa, un monastero, messo a disposizione a Catania dal sindaco Enzo Bianco.
Con questo messaggio vi chiedo nei limiti delle vostre possibilità di monitorare una situazione che nelle prossime settimane sfuggirà al controllo di chiunque voglia affrontare con misure di polizia un afflusso tanto massiccio di profughi, in prevalenza eritrei, dalla Libia, ma anche dall’Egitto, tutte persone molto provate, disperate dopo mesi di segregazione e violenze nei paesi di transito. Monitorare per capire quello che succede davvero all'interno delle strutture di accoglienza trasformate in luoghi di trattenimento, ed intervenire con i mezzi di cui ciascuno dispone, ovunque possibile, a qualunque livello ed in qualunque sede.
Occorre monitorare innanzitutto quello che succederà nel CPSA di Pozzallo, ma verificare anche le procedure amministrative, i casi di detenzione arbitraria al fine di prelevare con la forza le impronte digitali, ed i possibili abusi inflitti a persone, già duramente provate, dopo lo sbarco in Italia. Dalle notizie di oggi, oltre ad un massiccio sbarco a Pozzallo ( oltre 900 persone) apprendiamo di centinaia di migranti sbarcati a Cagliari ed a Crotone, luoghi nei quali già i passato la prima accoglienza si è trasformata in detenzione. E oltre a Pozzallo, la situazione sarà incandescente in tutti i centri di prima accoglienza, ed anche nei CARA come quello di Mineo, quando dovessero essere utilizzati in parte per la prima accoglienza ( come è già successo).
Vi ringrazio per l’attenzione e per l’impegno che potrete profondere per garantire almeno il rispetto dei diritti fondamentali delle persone sottoposte ad un regime di polizia piuttosto che accolte in un sistema di accoglienza efficiente e dignitoso. Non ripeto le rituali considerazioni sulla necessità di fare rete, generalmente chi si esercita in questi richiami rituali si piega al silenzio ed al compromesso quando si tratta di denunciare abusi posti in essere da attori istituzionali. Potremo anche proseguire in piccoli gruppi, con determinazione e consapevolezza dei nostri limiti, ma non ci piegheremo a calcoli di convenienza o a minacce più o meno velate.
Palermo 30 maggio 2015
Fulvio Vassallo Paleologo
Associazione “L’Altro Diritto Sicilia”- Clinica legale per i diritti umani dell’Università di Palermo
Si allegano alcuni link utili per una maggiore documentazione

domenica 24 maggio 2015

L’ultimo massacro dell’Isis: i superstiti intrappolati in Libia


di Emilio Drudi

Hanno vissuto in diretta l’orrore dell’ultimo massacro attuato dai miliziani dello Stato Islamico in Libia, costretti ad assistere all’esecuzione in massa di 43 compagni, uccisi con un colpo alla nuca, in ginocchio davanti ai loro carnefici. Altri 14, vestiti di una tuta arancione, sono stati sgozzati e decapitati. Sono seguiti giorni, settimane terribili, passati a studiare il Corano, con la morte negli occhi e nel cuore, dopo essere stati testimoni obbligati della sorte che li attendeva rifiutando di abbracciare l’Islam. Alla prima occasione sono fuggiti. I carcerieri li stanno braccando: se verranno ripresi, non avranno scampo. L’unica speranza di salvezza è lasciare al più presto la Libia. Finora, però, hanno trovato tutte le vie sbarrate. Per mare e per terra. E ogni ora, ogni minuto che passa, è una scommessa con la morte.

Sono cinque ragazzi – quattro minorenni e uno poco più che ventenne – che facevano parte del gruppo di 80 profughi bloccati dai guerriglieri islamisti all’inizio di marzo mentre, provenienti da Khartoum, tentavano di raggiungere Tripoli. E’ stato sicuramente un agguato. I miliziani armati, più di trenta, li aspettavano al varco: hanno bloccato il camion su cui viaggiavano insieme ad altre decine di migranti e selezionato accuratamente le vittime da sequestrare, scegliendo solo gli eritrei e gli etiopi. Tutti di religione cristiana. E tutti ammazzati senza pietà, tranne dieci donne e i tredici uomini più giovani, risparmiati come “vergini” e ragazzi da convertire. Oltre un mese dopo, almeno quei cinque sono riusciti a scappare, sfruttando l’opportunità di uno scontro a fuoco con un’altra formazione armata, che ha costretto i loro aguzzini ad allentare la vigilanza. Hanno camminato per tre giorni nel deserto, quasi senza fermarsi e sempre con l’incubo di essere rintracciati. Quando, esausti, hanno deciso di cercare un po’ di riposo in un villaggio ai margini del Sahara, nel sud della Libia, poco è mancato che i miliziani li catturassero di nuovo: hanno lasciato appena in tempo la casa dove un contadino sudanese li aveva accolti. Da lì hanno raggiunto la  costa, non lontano da Sirte.
Durante la fuga si è unito a loro un altro ragazzo, anch’egli eritreo, ma di religione islamica, e a sua volta scappato da un gruppo di terroristi dell’Isis. Pare sia stato proprio lui a trovare il modo di stabilire un contatto telefonico tra i cinque e alcuni amici della diaspora in Europa, per dare l’allarme e chiedere aiuto, raccontando le circostanze precise dell’agguato, della strage (nel frattempo resa nota anche dai miliziani con un filmato diffuso sul web) e dell’evasione. Fermarsi a Sirte, però, era troppo rischioso: la zona è controllata in gran parte proprio dalle bande armate dello Stato Islamico. Hanno puntato a ovest. Sempre a piedi e sempre con  il cuore gonfio di paura. Arrivati a Tripoli, hanno scartato subito l’idea di tentare la traversata del Mediterraneo su un barcone: nessuno di loro ha soldi sufficienti per coprire la “tariffa” pretesa dai trafficanti. Non restava che la  via di terra, verso la Tunisia, nella speranza di riuscire a passare il confine.

Alla frontiera sono arrivati il 18 maggio, al valico di Ras Gdair. Pensavano di avere buone chances, anche perché una loro amica eritrea esule a Londra aveva nel frattempo preso contatto con la sede di Tunisi dell’Unhcr,, il Commissariato dell’Onu per i rifugiati, ottenendone l’impegno a farsi carico dei sei giovani non appena avessero messo piede nel paese, proprio per i rischi mortali che corrono in Libia. Invece non hanno avuto fortuna. Hanno spiegato alla polizia tunisina che stavano scappando dall’Isis, che sono forse gli unici scampati all’ultima strage di ostaggi, le cui immagini hanno fatto il giro del mondo. Che l’Unhcr li avrebbe accolti. Che restare in Libia può diventare una condanna a morte. Non c’è stato nulla da fare: respinti.
Non era finita. Rientrando dal posto di confine tunisino, i sei ragazzi sono stati fermati da due agenti della polizia libica. Temevano di essere arrestati. Sono stati ricattati: lo hanno raccontato loro stessi all’amica “londinese” che in questi giorni si è stabilita in Tunisia per cercare di aiutarli. I due poliziotti, dopo averli interrogati, hanno detto che sarebbero stati in grado di procurare a tutti un imbarco sicuro. Era solo questione di soldi. Se poi non avevano abbastanza denaro, avrebbero potuto pagare le spese lavorando per un certo periodo per loro o per alcuni loro conoscenti. Per quanto tempo e che tipo di lavoro? Tutto da stabilire. Dovevano però decidere presto, perché lì, al posto di frontiera, non potevano restare. Hanno rifiutato, ma il ricatto continua: gli agenti non hanno cessato di tormentarli con le loro richieste e pressioni. Con minacce sempre più esplicite.

Ora quei giovani sono sempre al valico di Ras Gdair. Abbandonati a se stessi. Quasi senza nulla da mangiare, dormendo dove capita. Chiusi in una trappola senza uscita. E tra due fuochi: il rischio di essere ripresi dai miliziani dell’Isis e il pericolo che i poliziotti che li stanno ricattando decidano di “venderli” a qualche gruppo di trafficanti. Come lavoratori-schiavi. L’agenzia Habeshia ha lanciato un appello alle cancellerie europee e in particolare all’Italia, che vanta saldi rapporti di antica data con la Tunisia: chiede di adoperarsi in qualche modo per convincere le autorità tunisine a concedere un visto temporaneo di accesso a tutti e sei, come richiedenti asilo. Prima che sia troppo tardi. Poi sarà l’Unhcr a prendersi cura del loro caso, cercando di trovare una soluzione stabile: lo ha assicurato anche la sede centrale di Ginevra.

E’ l’unica speranza rimasta. Sempre più flebile, via via che passano i giorni. Si tratta della vita di sei ragazzi: il più grande ha 25 anni, il più piccolo appena quindici. 

venerdì 22 maggio 2015

Profughi in Libia: tra i massacri dell’Isis e l’indifferenza europea


di Emilio Drudi

Quelle immagini orribili hanno fatto il giro del mondo. Quattordici ragazzi con indosso una tuta nera, in ginocchio, uccisi con un colpo alla nuca. Una esecuzione di massa, da qualche parte in Libia: tutt'attorno un paesaggio desertico. Altri 14, vestiti di una tuta arancione, sgozzati come animali al macello in riva al mare, in un luogo imprecisato, probabilmente tra Sirte e Misurata.
E’ l’ultimo massacro rivendicato e filmato dai miliziani dello Stato Islamico, l’Isis, che controllano diversi punti chiave della Libia, in lotta sia con il governo di Tobruk riconosciuto dalla comunità internazionale, sia con quello musulmano di Tripoli, che si delegittimano a vicenda e la cui autorità reale appare sempre più aleatoria. Una mattanza feroce. Tutti i media ne hanno parlato. Ma neanche poi tanto: la notizia è subito scomparsa dalle prime pagine, spazzata via da altri avvenimenti o, peggio, “ridimensionata” da una certa assuefazione all'orrore e da un consumismo che divora tutto, persino l’informazione, sempre più spesso ridotta a un prodotto da fast food. Così, in pratica, quasi nessuno è andato a scavare per capire meglio, aggiungere particolari, conoscere la storia di quei 28 ragazzi. Nessuno, tranne diversi esponenti della diaspora eritrea e alcuni giornalisti di emittenti e testate vicini agli esuli, come Forum Radio di Londra, stimolati dal fatto che alcuni dei giovani assassinati, 8 si diceva, erano profughi fuggiti dal regime di Asmara, mentre tutti gli altri erano indicati come etiopi. E la ricerca ha aggiunto orrore all'orrore. Si è scoperto che le vittime non sono 28 ma molte di più, 57, oltre il doppio, quasi tutti giovani eritrei. E che la loro tortura si è protratta dal quattro marzo, quando sono stati catturati, a tre giorni dopo, il sette, quando i miliziani dell’Isis li hanno massacrati, filmando minuto per minuto la loro esecuzione.
“Le prime notizie del sequestro – dice Ribka Sibathu, del Coordinamento Eritrea Democratica – sono state comunicate il 25 marzo da uno dei prigionieri, che è riuscito a contattare con un cellulare la sua famiglia, in Eritrea, dando l’allarme. A raccontare tutto sulla strage sono stati poi cinque ragazzini che, diverse settimane dopo il rapimento, sono sfuggiti al controllo dei miliziani. Gli unici, finora, che si sono salvati. Nelle mani dell’Isis restano ancora oggi 18 persone: dieci donne e otto minorenni”.
E’ una storia emblematica di quanto sta accadendo in questi giorni in Libia e lungo le “rotte della speranza” percorse nel Sahara da migliaia di migranti, per cercare di arrivare alla costa mediterranea, ad ogni passo con l’ansia di essere sequestrati dai miliziani delle varie fazioni, da militari fedeli all’uno o all’altro governo, da banditi, tagliagole e predoni, tutti interessati al fiorente traffico di esseri umani che, in Libia e nell’Africa sub sahariana, è diventato un business enorme, secondo solo al giro d’affari del petrolio.
Il gruppo di profughi parte da Khartoum verso la fine di febbraio su un camion-bus stracarico: 72 eritrei, qualche decina di somali, 8 etiopi provenienti dall’Oromia e dall’Ogaden, le regioni meridionali sconvolte dalla lotta autonomista contro Addis Abeba. Puntano verso nord, per attraversare il Sahara e raggiungere il confine libico. Un viaggio lento e lungo, in pieno deserto. Passano la frontiera senza troppi problemi. Il camion arranca, ma va: una volta a Tripoli, pensano, non sarà molto difficile trovare un imbarco per l’Italia. Sono appunto sulla strada per Tripoli quando, il 4 marzo, incappano in un posto di blocco. Non un comune posto di blocco, però: a presidiarlo ci sono almeno 30 uomini armati. Sembra quasi che li stiano aspettando. Forse qualcuno li ha traditi e “venduti”, forse qualcuno che si è finto profugo come loro. Certo è che i miliziani, mitra e fucili spianati, costringono tutti a scendere dal camion. E inizia subito la selezione. I somali e l’autista, di religione musulmana, vengono lasciati andare. Anzi, costretti a ripartire prima possibile. Gli altri, i 72 eritrei e gli 8 etiopi, che si sono professati cristiani, devono restare.
“Uno dei sequestratori era di origine eritrea – racconta Ribka Sibathu – Ha cercato di presentarsi come un amico e di tranquillizzarli, dicendo che erano soldati dello Stato Islamico libico e che li avrebbero aiutati ad attraversare il Mediterraneo. In realtà li hanno portati in una macchia poco lontano, tenendoli nascosti e costantemente sotto controllo per tutto il giorno. Ore interminabili, senza né acqua né cibo e con una paura sempre più angosciante. Finché è arrivato quello che sembrava il capo di quei miliziani dell’Isis…”.
L’arrivo di questo personaggio è la premessa del massacro. Il gruppo viene trasferito verso il Sahara e poi diviso: prima le dieci donne e poi dieci minorenni sono separati dagli altri. Le prime scelte come “vergini”, i ragazzini per convincerli gradualmente ad aderire all’Islam. La conversione immediata all’Islam sarebbe stata invece l’unica possibilità di salvezza per tutti gli altri 60 prigionieri: il  loro rifiuto è diventato una condanna a morte, come dice esplicitamente un miliziano con il volto coperto e in divisa mimetica nel filmato trasmesso dall’Isis sul web verso la metà di aprile. “La mattanza – riferisce Ribka in base alla testimonianza dei cinque ragazzi fuggiti – è iniziata il 7 marzo. Tra quei 60 uomini, legati gli uni agli altri con cavi elettrici, ne hanno scelti 14, vestendoli con una tuta arancione. Agli altri è stata imposta una tuta nera. Sono stati questi i primi a morire: li hanno costretti a inginocchiarsi a gruppi più piccoli e gli hanno sparato. La prima fase dell’esecuzione è stata filmata. Solo tre si sono salvati, dichiarando all’ultimo momento di essere pronti a convertirsi. Li hanno aggregati ai minorenni, costringendo tutti ad assistere al massacro. Come monito. Ai quattordici in tuta arancione è toccata una sorte ancora più orrenda: li hanno portati verso la costa e sgozzati in riva al mare”. Anche questa scena terribile è stata filmata e inserita nel “comunicato” di metà aprile sul web. La località del massacro dovrebbe essere un punto del litorale tra Sirte e Misurata, forse lo stesso dove i miliziani dell’Isis hanno eseguito “sentenze” analoghe contro altri prigionieri e “apostati”.
Per oltre un mese i superstiti si comportano da musulmani neoconvertiti: studiano il Corano, pregano secondo la liturgia islamica. Poi si presenta l’occasione per fuggire. La banda di miliziani che li ha sequestrati si scontra con un altro gruppo armato. I carcerieri sono costretti ad allentare la sorveglianza e cinque ragazzi ne approfittano per scappare verso il Sahara. Camminano per tre giorni nel deserto. Quando sono allo stremo per la stanchezza, la sete, la fame, la sabbia che penetra dappertutto e soffoca il respiro, raggiungono un piccolo centro abitato. Un uomo, un sudanese, li aiuta: non sa che sono ex prigionieri sfuggiti a una banda dell’Isis, pensa che siano cinque dei tanti profughi che arrivano di continuo dal Sahara. Li accoglie in casa, offre acqua e cibo, li fa riposare perché riprendano le forze, promettendo anzi trovare il modo di farli arrivare fino alla costa. Qualche giorno dopo, però, invade il villaggio una schiera di miliziani: stanno cercando i cinque evasi e cominciano a ispezionare casa per casa. Il sudanese capisce al volo che si tratta dei ragazzi che sta ospitando. Non li tradisce ma chiede loro di andarsene subito.
“Vedendo i miliziani – racconta Ribka Sibathu – quell’uomo è tornato subito a casa. ‘Voi siete scappati dai D’ash, dice ai ragazzi, Volete farmi ammazzare!...’. Così li ha scacciati. Era fuori di sé perché non gli avevano raccontato tutto. Però ha indicato la strada per proseguire la fuga con un minimo di sicurezza. Hanno camminato per tutto il giorno, senza un attimo di sosta, per allontanarsi il più possibile. Senza mangiare e senza bere. Alla fine si sono rivolti a un libico, che li ha accompagnati fino alla periferia di Sirte”.
Da allora quei cinque ragazzi sono lì, insieme a un altro giovane migrante eritreo, anche lui sfuggito all’Isis. E da lì si sono messi in contatto con alcuni amici della diaspora per raccontare tutta la storia. La loro storia e quella del gruppo di profughi  che è stato massacrato. Ora aspettano l’occasione per imbarcarsi verso l’Europa.
“Questa drammatica vicenda – fa notare l’agenzia Habeshia – dimostra come siano prive di senso tutte le proposte di bloccare in Libia i profughi, rispedendo indietro i barconi o addirittura impedendo che possano salpare. Ad esempio, l’idea formulata dal premier Matteo Renzi a Bruxelles di coinvolgere nel pattugliamento del Mediterraneo la marina tunisina e quella egiziana, con l’intesa di riportare sulla sponda africana i migranti intercettati. O, peggio ancora, quella di bombardare e distruggere pescherecci, barche e gommoni, che tra l’altro è a tutti gli effetti un atto di guerra, non un’operazione di polizia internazionale come si vuol far credere. Intrappolare a terra migliaia di donne e uomini significa condannarli all’inferno libico: riconsegnarli al ricatto dei trafficanti, all’orrore dei terroristi, alla violenza dei miliziani delle diverse fazioni. Significa, in una parola, farne degli schiavi senza diritti, merce umana di cui tutti possono disporre. Significa, sempre più spesso, condannarli a morte. Un crimine di lesa umanità”.
Proprio sulla base di queste considerazioni si è fatta strada la proposta di varare un piano straordinario per la Libia, ispirato a criteri di soccorso-accoglienza in contrapposizione a quelli di soccorso-respingimento ventilati dalla politica italiana ed europea. Habeshia ne parla ormai da settimane: “Pensiamo a un programma condiviso per l’accoglienza dei profughi attualmente presenti in Libia e la loro distribuzione proporzionale per quote in tutti i 28 paesi dell’Unione Europea. Se anche fossero davvero un milione come si dice, a ognuno degli Stati europei ne toccherebbero in media da 35 a 36 mila. Facendo le dovute compensazioni sulla base di vari criteri di ripartizione (economia, Pil, popolazione, estensione geografica), ognuno dei singoli paesi Ue risulterebbe perfettamente in grado di assorbire questo flusso. Sarebbe insieme un punto di arrivo e di ripartenza: una sorta di sanatoria per azzerare una situazione che rischia altrimenti di diventare ingovernabile e per varare poi, prima possibile, un sistema diverso per far fronte al problema, con interventi da attuare subito, a breve e a lungo termine: il varo immediato di un’operazione di soccorso sul modello di Mare Nostrum; l’istituzione di “canali umanitari” di immigrazione, con la collaborazione delle ambasciate di tutti gli Stati dell’Unione Europea nei paesi africani più affidabili, abolendo quanto prima i processi di Khartoum e di Rabat, che creano l’ennesima barriera, sempre più a sud, della Fortezza Europa; un modello europeo unico di asilo e accoglienza, con un livello di trattamento omogeneo in ogni Stato, libertà di movimento, residenza e lavoro e con il conseguente superamento del regolamento di Dublino; una politica di stabilizzazione e pacificazione nei vari punti di crisi da cui sono costretti a fuggire i profughi”.

Proprio in questi giorni il ministro degli esteri Paolo Gentiloni ha presentato ai paesi europei del Consiglio di sicurezza dell’Onu (oltre a Gran Bretagna e Francia, membri permanenti, in questo momento anche Spagna e Lituania) una proposta di risoluzione “sull’emergenza emigrazione” nel Mediterraneo. La risposta dovrebbe arrivare entro il 18 maggio. Nel frattempo la Farnesina non ha detto granché sulle linee guida: il ministro ha precisato solo che l’obiettivo è ottenere “un quadro legale che consenta di colpire i trafficanti”. Tutto lascia credere che si sia scelta l’opzione militare: l’ormai famosa “distruzione dei barconi”. L’uso della forza, insomma, anziché il principio del soccorso-accoglienza. Nonostante le indicazioni del segretario generale dell’Onu, Ban Ki Moon. Contro le aspettative degli stessi profughi. E, in definitiva, ribadendo la vecchia “politica delle barriere”, dettata dalle assurde paure della Fortezza Europa.

giovedì 14 maggio 2015

L’Europa deve mettere in agenda prima di tutto la persona umana

Missionari di San Carlo – Scalabriniani
 
Comunicato stampa
 
L’Europa deve mettere in agenda prima di tutto la persona umana 

 Mentre la Commissione Ue approva un insieme di misure che i Paesi europei del Mediterraneo potranno utilizzare per gestire le emergenze dei flussi migratori, i missionari scalabriniani, pur notando un primo segno positivo, non riescono a condividere appieno l’annuncio della vice presidente dell’esecutivo Ue e rappresentante per gli Affari esteri, Federica Mogherini, che ha sottolineato come «di fronte a un’emergenza drammatica» l’Europa abbia «finalmente capito l’urgenza» e negli ultimi tempi abbia «compiuto passi da gigante» verso una «risposta globale» alle sfide in atto nel Mediterraneo.
 "Uomini e donne come noi” che cercano la felicità ha ricordato papa Francesco meno di un mese fa, dopo la più grave tragedia nella storia dell'immigrazione nel Mediterraneo, con la scomparsa tra le acque libiche di un peschereccio con circa 800 persone. “Chi parte per disperazione è disposto a rischiare anche la vita, pur di vedere riconosciuto il diritto ad una vita degna di questo nome, dal momento che troppo spesso la patria non da più nulla”. Così si esprime P. Alessandro Gazzola, superiore generale della Congregazione dei Missionari di San Carlo – Scalabriniani, dopo aver appreso dell’approvazione da parte della Commissione Ue dell’agenda per una nuova politica dell’immigrazione che dovrebbe arrivare sul tavolo del Vertice europeo del 25 e 26 giugno.
 Se dobbiamo parlare in questi termini, allora è urgente che tutti i paesi dell’unione, e non solo alcuni come si profila all’orizzonte, mettano in agenda prima di tutto la persona umana con il bagaglio di riconoscimento pieno e duraturo dei diritti più basilari”. Ed aggiunge: “Il defilarsi di nazioni come Regno Unito, Danimarca e Irlanda, o la continuativa esportazione di armi finalizzata ad intrattenere relazioni di buon vicinato con alcuni Governi, non fa che “garantire” altre strutture mortifere, all’insegna dell’oppressione di popoli, obbligando alla fuga come unica speranza di sopravvivenza”.
 Gli fa eco P. Gianni Borin, superiore della regione europea ed africana, evidenziando che “accanto ad un timido plauso perché qualcosa si è finalmente messo in moto, l’attenzione deve focalizzarsi anche su le tante persone che già si trovano in diversi paesi dell’Unione, evidenziando le diverse buone pratiche in atto”.
 La lezione di umanità che associazioni, movimenti e comunità religiose stanno dando nel gestire l’emergenza dei numerosi richiedenti asilo, mostra sempre più lo sforzo di compiere un secondo passo, necessario, al di fuori delle strutture di prima accoglienza, al fine di condurre i richiedenti asilo e i rifugiati alla piena autonomia. “Si tratta di agire concordemente per costruire una comunità locale capace di accogliere, includere e integrare le diversità attraverso l’interiorizzazione responsabile e partecipativa di quella che chiamerei la cultura dell’incontro” ha concluso P. Borin.
 
 
Ufficio Stampa Scalabriniani
p. Gabriele Beltrami: 3280948221 – beltramigabriele@scalabrini.net

mercoledì 13 maggio 2015

AGENDA EUROPEA IMMIGRAZIONE, INIZIO PER UN’ASSUNZIONE DI RESPONSABILITÀ COMUNE


COMUNICATO STAMPA
CIR: AGENDA EUROPEA IMMIGRAZIONE,  INIZIO PER UN’ASSUNZIONE DI RESPONSABILITÀ COMUNE

Il Consiglio Italiano per i Rifugiati – CIR vede finalmente nell’Agenda Europea sulle migrazioni e sul diritto d’asilo decisa oggi dalla Commissione Europea delle importanti aperture, per le quali le organizzazioni della società civile italiane ed europee si sono battute da tanti anni.

“È un’agenda complessa di politiche per i rifugiati” dichiara Christopher Hein Direttore del CIR “Si parla di solidarietà tra Stati Europei, di messa in discussione del Sistema Dublino e di uno status europeo per i rifugiati. Si aumentano le possibilità per entrare in modo protetto in Europa e si rafforza il salvataggio in mare con l’ampliamento della missione Frontex. Sono risultati importanti. Se tutto questo verrà realizzato così come è scritto, il numero dei morti nel Mediterraneo potrebbe, a medio termine, effettivamete diminuire”.

Tra gli aspetti più rilevanti, sicuramente i programmi per garantire l’accesso regolare e protetto ai rifugiati nel territorio dell’Unione: 20.000 nuovi postio di reinsediamento per rifugiati da Paesi terzi, anche se ancora insufficienti, segnano un passo nella direzione giusta. Inoltre i richiedenti asilo, cominciando con quelli in Niger, avranno dei punti di contatto per presentare la loro richiesta di protezione.

“Ci battiamo da anni affinchè sia possibile chiedere protezione da Paesi terzi. Perché questa misura sia di reale sostegno ai rifugiati è però importante che, da una parte, le persone a cui verrà riconosciuta la protezione potranno effettivamente accedere al territorio europeo, dall’altra che in nessun modo venga impedito l’accesso spontaneo dei richiedenti asilo e rifugiati. Non dobbiamo creare enormi campi profughi alle porte dell’Unione, ma permettere l’ingresso sicuro a queste persone” continua Hein.

Il CIR accoglie con estrema soddisfazione un aspetto fortemente innovativo, la cui attuazione purtroppo dovrebbe avvenire solo in un secondo momento: la creazione di uno status uniforme di asilo valido in tutta l’Unione Europea. Un passaggio che segna la possibilità di lavorare e risiedere in uno stato membro diverso da quello che ha riconosciuto la necessità di protezione. “Un tale status potrebbe effettivamente superare i grossi limiti del sistema Dublino, ovvero la forte riduzione della libertà di movimento in Europa per richiedenti asilo e rifugiati. Un sistema che ha un impatto drammatico sulla vita delle persone. Questo va di pari passo con il riconoscimento da parte della Commissione, per la prima volta in modo aperto, che questo Sistema non funziona e che dovrà esserci, a partire dal prossimo anno, una revisione importante” dichiara Hein.

Naturalmente il CIR ritiene positivo che i Paesi in prima linea con le frontiere marittime, prima di tutto l’Italia, potranno contare su un fondo supplementare, anche se poco più che simbolico di 50 milioni di euro, per affrontare l’impatto di un numero crescente di rifugiati e migranti. È anche la prima volta che Frontex non viene considerata più solo agenzia di supporto per la vigilanza delle frontiere, ma anche per il salvataggio in mare e si prevede di incrementare il budget di 27 milioni di euro nel periodo giuno-dicembre 2015.

“Con questa Agenda l’Unione Europea dimostra l’inizio di un’assunzione di responsabilità per l’insostenibile situazione nel Mediterraneo e comincia ad attuare il principio di solidarietà tra gli Stati membri così come previsto dal Trattato di Lisbona”.

Ulteriori informazioni
UFFICIO STAMPA CIR  
Valeria Carlini
tel. + 39 06 69200114 int. 216 
+39 335 17 58 435
E-mail: carlini@cir-onlus.org  
Sito www.cir-onlus.org   

Un passo avanti verso la direzione giusta, Ora attendiamo fatti, azione.

UNHCR

Comunicato stampa

Roma, 13 maggio 2015



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L’UNHCR ACCOGLIE CON FAVORE LA DECISA SVOLTA NELL’AGENDA SULLE MIGRAZIONI PROPOSTA OGGI DALL’UNIONE EUROPEA E NE SOLLECITA UNA RAPIDA ADOZIONE

L'UNHCR elogia le proposte della Commissione europea, annunciate oggi, per la gestione delle migliaia di rifugiati e migranti che arrivano in Europa attraverso il Mediterraneo.
Le proposte includono il rafforzamento degli interventi per il salvataggio di vite umane in mare, meccanismi efficaci per consentire vie legali di ingresso nell'UE a persone in fuga dalle guerre, e la necessità di prevedere un'equa ridistribuzione dei rifugiati. Le proposte contengono anche dei provvedimenti per far fronte ad alcuni fattori che spingono le persone nelle mani dei contrabbandieri, comprese le disperate condizioni che molti rifugiati affrontano nei paesi di primo asilo e di transito.
"Le proposte avanzate dall'Unione Europea rappresentano un grande passo in avanti in termini di gestione dei flussi di rifugiati e migranti" ha dichiarato Volker Türk, Assistente Alto Commissario dell'UNHCR per la Protezione. "Ora è estremamente importante, e vitale per il salvataggio di vite umane, che queste proposte siano adottate in tempi rapidi e pienamente attuate".
Negli ultimi anni i livelli record di migrazioni globali causate da guerre e conflitti in Siria, in Iraq, nei paesi del Corno d'Africa e in altre regioni dell'Africa sub-sahariana, combinati all'insicurezza in Libia e al blocco di vie terrestri in altre regioni, hanno alimentato il forte aumento del numero di rifugiati che tentano di entrare in Europa attraverso una delle poche vie rimaste accessibili: le traversate in mare.
Nel 2014, circa 219.000 persone hanno attraversato il Mediterraneo a bordo di imbarcazioni gestitedai trafficanti, oltre 3,500 tra loro hanno perso la vita. Il 50% di queste persone erano rifugiati, in fuga da guerre e persecuzioni. Finora, nel 2015, circa 62,500 persone hanno intrapreso questa pericolosa traversata e almeno 1,800 tra loro hanno perso la vita.
“La solidarietà nell’approccio tra Stati Membri dell’Unione Europea è l’unica maniera in cui può essere affrontato un problema di questa natura e l’UNHCR esprime profondo apprezzamento nel vedere che questo principio è stato riconosciuto nelle proposte presentate oggi.” ha affermato Volker Türk. ”L’UNHCR è pronto a fornire tutto il supporto necessario agli Stati Membri per trasformare in realtà questi obiettivi.


Qui di seguito maggiori dettagli sulla risposta dell’UNHCR sulla proposta dell’Unione Europea:

UNHCR position on the European Commission’s Migration Agenda
13 May 2015
UNHCR welcomes the European Commission’s ‘A European Agenda on Migration’ presented today, and especially its focus on saving lives in the Mediterranean and ensuring the protection of those in need. UNHCR supports the holistic approach adopted, which recognises the need for coordinated action in a range of policy areas and cooperation with relevant EU stakeholders. UNHCR looks forward to working closely with the EU and its Member States and with relevant third countries in supporting and further developing the measures included in the Agenda.
UNHCR will continue to support collective action with the overall objectives of consolidating the Common European Asylum System; ensuring people in need of international protection have access to quality asylum and reception systems throughout the Union; building on proposals that will provide refugees with legal avenues to reach safety in Europe; and enhancing protection capacity, asylum space, and solutions in third countries.

Immediate action
Saving Lives at sea
UNHCR has earlier welcomed the commitment of additional resources to Frontex joint-operations Triton and Poseidon, and is encouraged by both the strengthened commitment to expand the capacity and geographical scope of these operations, and the clear reference to their role in helping to save the lives of refugees and migrants at sea.
Responding to high-volumes of arrivals within the EU
UNHCR applauds the establishment of an effective emergency response mechanism for Member States facing pressures as a result of an influx of refugees and migrants.
UNHCR is encouraged by the Agenda’s commitment to establishing an EU mechanism for relocating people in need of international protection and to using a distribution key, while recognising that modalities for implementation will need to be developed. UNHCR stands ready to support implementation of the mechanism together with other partners such as EASO. UNHCR has long advocated for an EU-wide pilot relocation project for Syrian refugees arriving in Italy and Greece as one way to address the current imbalance of asylum-seekers and refugees among Member States.
A common approach to granting protection to displaced persons in need of protection: Resettlement
UNHCR will support the proposed EU-wide pilot project for the resettlement of refugees. Resettlement is an important manifestation of solidarity and responsibility-sharing and also provides a durable solution. In this regard, the proposal to offer 20,000 resettlement places in the EU, using distribution criteria that take account of the efforts already made on a voluntary basis, is a welcome step forward. We urge Member States to support this initiative, as it would both provide additional places for Syrian and other refugees in need of resettlement and send a positive signal of support to refugee-hosting countries in the Middle East and elsewhere.
UNHCR is pleased to see that the Agenda calls on Member States to use other legal avenues for people in need of international protection to reach Europe, including private sponsorship programmes, humanitarian visas, and family reunification. UNHCR urges Member States to explore the possibility of establishing or expanding schemes to grant student or work permits to people in need of international protection. UNHCR hopes these initiatives will create the much needed and credible legal avenues for refugees to reach safety in Europe. Without such avenues, refugees will continue to be left with few options, and the increase in international efforts to crack down on smugglers and traffickers is unlikely to be effective.
Working with third countries to tackle migration upstream
It is positive that the Agenda proposes measures to maximise the impact of development assistance plans in countries of transit and first-asylum in order to address long-term root causes. UNHCR would like to underline the need to include expanding livelihood and education opportunities for people in need of international protection in these countries, as well.
The inclusion of multi-purpose centres in third countries, specifically Niger, could play an important role for the provision of information.
Using the EU’s tools to help frontline Member States
The Agenda proposes the establishment of a new “Hotspots System”. UNHCR is encouraged by this initiative, which builds upon the work already done by EASO in the area of early warning and preparedness. This system could also help address long-standing gaps in reception and processing of arrivals in many Member States. UNHCR recommends that the response clearly articulate gender-sensitivity and effective mechanisms for the identification of people with specific needs, such as unaccompanied and separated children, survivors of sexual and gender-based violence, and survivors of torture, and for their onward referral to services.

Reducing the incentives for irregular migration 
Addressing the root causes in third countries
UNHCR welcomes the commitment in the Agenda to addressing the root causes of forced displacement and irregular movement, including through the Strategic Review initiated by the High Representative/Vice President. 
UNHCR traditionally works in countries outside the EU to build asylum capacity and enable them to ensure the protection of refugees, to help meet refugees’ basic needs, and to work towards solutions, together with national governments, especially in protracted refugee situations. UNHCR is encouraged by the European Commission’s continued commitment to stepping up humanitarian aid as well as development cooperation with these countries. Through more targeted development initiatives in third countries, the resilience and self-reliance of refugees and internally displaced populations could be strengthened, allowing them to live their lives with hope and dignity. 
Return
UNHCR has long recognised the importance of return programmes for people not in need of international protection to preserve the integrity of asylum systems and, in this regard, is also pleased to note the reference in the Agenda to return in line with fundamental rights and the principle of non-refoulement, including to countries of origin.

Border management – saving lives and securing external borders
UNHCR supports the establishment of common standards for border management and stands ready to contribute to the development and implementation of standards that are protection-sensitive and contribute to the promotion of fundamental rights in the management of the EU’s external borders.

Europe’s duty to protect – a strong common asylum policy
A coherent implementation of the Common European Asylum Policy
UNHCR appreciates the focus in the Agenda on the reception of asylum-seekers in the EU and the reference to the further development of standards on reception conditions and asylum procedures, especially for persons with specific needs. UNHCR believes the development of quality indicators that could help to ensure common standards among Member States is a positive step. 
With regard to people in need of international protection, key indicators could be developed with regard to the economic and social rights granted to them through the provisions of the Qualification Directive, to support their integration. 
UNHCR acknowledges the need to fight abuse in order to maintain efficient asylum systems, and the necessity for accelerated procedures, with appropriate safeguards, particularly for manifestly-unfounded applications. UNHCR would also support such accelerated procedures for manifestly-founded claims, for example, those lodged by Syrian nationals.
Dublin system – greater responsibility-sharing across Member States
UNHCR welcomes the approach included in the Agenda around the implementation of the Dublin Regulation, especially the call to apply proactively the clauses relating to family reunification and making broader use of the discretionary clauses. The evaluation of Dublin by mid-2016 is considered a positive step, and UNHCR is ready to assist in the evaluation process, and will undertake its own study on this issue in order to support that process.

A new policy on legal migration 
As the Agenda also sets plans for a new policy on legal migration, it is important to include people proactively in need of international protection.  It would be important for refugees to have access to programmes developed and supported as part of this approach, with built-in protection safeguards. This includes efforts to enhance family reunification and integration in many Member States. Further discussion and the development of tools on the implementation of these rights, as well as on integration policies, are therefore encouraged.
Effective integration
UNHCR appreciates the references in the Agenda to the importance of effective integration with a particular focus on those in need of international protection, and hopes that this would also include those granted subsidiary forms of protection. UNHCR would like to emphasise that research confirms family reunification is key to integration. Likewise, with regard to access to the labour market, recognition of qualifications is crucial. 

Moving beyond
UNHCR welcomes the proposed debate on a common Asylum Code underpinning mutual recognition of asylum decisions. UNHCR subscribes to the vision that mutual recognition should be the ultimate goal of a Common European Asylum System. UNHCR hopes that the European Commission and Member States will seize the opportunity to extend the protection system broadly delineated in the Agenda to cater to the situation of stateless persons within the Union.



Per ulteriori informazioni:
Carlotta Sami - Cell +39 335 6794746; Fax +39 06 80212325
Ufficio stampa - 06 80212318/33

domenica 3 maggio 2015

Profughi prigionieri in Libia: Condizioni di vita da Bestie! Tutto ciò è inaccettabile


Voglio citare, a questo proposito, l’ultima, terribile richiesta di aiuto che è arrivata all’agenzia Habeshia. Riguarda circa 400 eritrei ed etiopi rinchiusi in una ex scuola vicino a Misurata. Mercoledì uno di loro ha telefonato, raccontando che sono stati catturati da miliziani fedeli al governo di Tripoli. Per catturarli hanno ingaggiato un conflitto a fuoco che un altro gruppo che li teneva prigionieri. Nella sparatoria tre eritrei sono morti. Altri cinque feriti e ora non si sa che fine abbiano fatto. 





Martedì, circa 50 donne sono state prelevate da uomini armati e portate via: non si sa dove, né tanto meno perché siano state separate dagli altri prigionieri. Non solo: ogni tanto arriva nella prigione una donna libica, preleva un certo numero di profughi e li porta in una specie di luogo di compravendita, pretendendo dai 2.000 ai 2.500 dollari a persona per il rilascio. Tutto lascia credere che questa donna sia in collegamento con gli intermediari eritrei, etiopi, sudanesi e somali che organizzano la traversata verso l’Italia in collaborazione con i libici. E la vita in carcere è durissima: i migranti vengono costretti ad osservare gli orari delle preghiere islamiche e chi non prega viene pestato dai miliziani di guardia. 

Ecco cosa accade in quelli che in Italia sono stati definiti ipocritamente centri di accoglienza. Ma nei ‘dieci punti’ non c’è praticamente nulla per fronteggiare situazioni del genere. E quanto accade oggi in Libia potrebbe accadere domani in Niger, in Chad, Tunisia, Algeria… La verità è che non c’è alcuna garanzia in campi come questi, a prescindere dalle ‘sigle’ sotto cui sono aperti. Perché sono le stesse forze di polizia e di sicurezza, spesso, a sfruttare e perseguitare i prigionieri. In quel carcere di Misurata ogni tanto arrivano operatori dell’Oim. Ma non è un’ispezione. Si limitano a portare qualche coperta o saponetta. Senza poter fare nulla per la protezione e la liberazione di centinaia di persone detenute in condizioni degradanti per la dignità umana”.

Fr. Mussie Zerai

UNHCR al lavoro per alleviare le pessime condizioni nei centri di detenzione per migranti in Libia.
L'UNHCR in collaborazione con i suoi partner sta prestando assistenza in Libia ad alcune delle 1.242 persone soccorse in mare negli ultimi 10 giorni. Alcuni di loro si trovavano a bordo di imbarcazioni insicure, altri erano a bordo di barche intercettate dalla Guardia Costiera libica nelle acque vicino a Tripoli e sono per lo più state inviati in centri di detenzione per immigrati.
Tra di essi, anche un gruppo di oltre 200 persone provenienti dal Corno d'Africa e intercettate a Tajura (16 km a est di Tripoli). Quattro di essi presentavano gravi ustioni causate da un'esplosione di gas avvenuta due settimane fa in una località sconosciuta dove erano trattenuti dai trafficanti prima di imbarcarsi per l'Europa. Il gruppo è stato portato in un centro di detenzione per immigrati a Tripoli dove il personale medico di un partner dell'UNHCR ha curato le ustioni e organizzato il trasferimento in ospedale delle quattro persone più gravi. Tra di essi vi erano anche una madre di 20 anni che riportava ustioni estese alle braccia e alle gambe, e suo figlio di 2 anni con gravi ustioni al volto.
L'Agenzia è a conoscenza di almeno 2.663 migranti e richiedenti asilo (tra cui donne e bambini) distribuiti tra otto strutture di detenzione per immigrati in tutta la Libia, gestiti dal Dipartimento per il contrasto all’immigrazione illegale (DCIM) - un aumento significativo rispetto alle 1.455 persone che si trovavano in stato di detenzione un mese fa. Le principali nazionalità presenti nei centri sono quella somala, eritrea, etiope e sudanese. Vi sono anche persone provenienti da diversi paesi dell'Africa occidentale. Secondo le informazioni raccolte dall'UNHCR ci sarebbero 15 centri per l’immigrazione attualmente operativi in tutto il paese. Gli stranieri in Libia possono essere arrestati per mancanza di uno status di immigrazione legale e possono passare da una settimana a 12 mesi in stato di detenzione. Generalmente l’UNHCR organizza in pochi giorni il rilascio dei rifugiati e richiedenti asilo registrati presso il proprio ufficio, anche se la capacità dell’Agenzia di registrare i nuovi arrivati in Libia è limitata a causa delle condizioni di insicurezza del paese. L’UNHCR richiede anche il rilascio delle persone più vulnerabili, come le donne in stato di gravidanza, e l’individuazione, laddove possibile, di alternative alla detenzione.
Il personale locale dell’Agenzia e i partner che hanno visitato i centri di detenzione per migranti affermano che le condizioni sono pessime e le persone hanno un urgente bisogno di assistenza medica, di migliori condizioni di ventilazione e di adeguati servizi igienico-sanitari, nonché di beni di prima necessità. Con l’aumento del tasso di detenzione, il sovraffollamento aggrava le già difficili condizioni. In alcuni centri più di 50 persone sono ammassate in camere progettate per 25. Le temperature sono in aumento così come la presenza di zanzare che - combinata alla scarsa ventilazione – può favorire il diffondersi di malattie. Su richiesta delle autorità locali, l'UNHCR sta dando il suo contributo per cercare di alleviare tali condizioni. L’Agenzia sta distribuendo sapone, biancheria intima, vestiti e altri beni di prima necessità alle persone detenute negli otto centri a cui ha attualmente accesso.
L’aumento della violenza e il diffondersi dell’illegalità nel paese si ripercuotono sui circa 36.000 richiedenti asilo e rifugiati registrati presso l'UNHCR in Libia (anche se alcuni di essi potrebbe essersi trasferiti altrove). Tra di essi, il gruppo più numeroso (18.000) è composto da siriani, ma anche palestinesi, eritrei, iracheni, somali e sudanesi costituiscono gruppi significativi. Nonostante l'instabilità della situazione in Libia, l'Agenzia ha continuato ad aiutare i rifugiati e i richiedenti asilo attraverso il proprio personale e le ONG partner. L’UNHCR gestisce due centri per lo sviluppo della comunità a Tripoli e a Bengasi e, durante l’anno in corso, ha potenziato la propria presenza attraverso un team mobile per assistenza medica e sociale a Tripoli. L’Agenzia ha inoltre diffuso dei numeri telefonici dedicati alle persone che ancora devono registrarsi, ricevere assistenza economica o rinnovare i documenti, e per sostenere le persone che sono in stato di detenzione. L’Agenzia sta anche stabilendo un contatto dedicato con la Guardia Costiera libica per ricevere aggiornamenti sulle operazioni di ricerca e soccorso.
Nel frattempo, l'UNHCR continua a distribuire aiuti di emergenza - tra cui materassi, coperte, abiti e utensili da cucina - a migliaia di cittadini libici sfollati, e supporta le autorità locali per monitorare il fenomeno migratorio e per valutare i bisogni. Secondo i dati forniti dalle Nazioni Unite sono circa 400.000 i libici sfollati a causa delle ondate di violenza.