martedì 16 maggio 2017

Eritrea. Gli atleti che antepongono la denuncia contro il regime al successo



di Emilio Drudi



E’ tra i protagonisti del centesimo Giro d’Italia. Si chiama Daniel Teklehaimanot, viene dall’Eritrea e corre per la squadra sudafricana di Dimension Data. Anzi, ne è il leader. E’ esploso fin dalle primissime tappe, conquistando subito la maglia azzurra della classifica per gli scalatori. Non è stato un exploit occasionale. Tutte le tappe disputate ne hanno confermato la forza atletica e le capacità tecniche: è ancora tra i primissimi, al terzo posto, per la maglia azzurra e al sesto per la maglia ciclamino della speciale classifica a punti che esalta i ciclisti con il migliore spirito agonistico. I cronisti specializzati, elencando i successi che ha collezionato in passato al Tour de France o in varie corse nel continente nero, come il Tour del Rwanda o quello del Gabon, ne descrivono il carattere combattivo con immagini fantasiose ma efficaci, come “professione fuggitivo” o “il diamante grezzo di una nuova frontiera del ciclismo”. In sintesi, “il miglior esponente del ciclismo africano”. Non per niente ha fatto parte della nazionale eritrea nel 2011, nel 2013 e nel 2016.

Sulla scia di quanto sta facendo al Giro, è probabile che venga convocato per la nazionale anche quest’anno: è una “perla” che difficilmente il regime di Asmara si lascerà sfuggire, impegnato com’è da tempo a presentare un volto rassicurante e vincente del Paese. Non ci sarebbe da stupirsene: la storia è piena di dittatori che hanno sfruttato lo sport per costruirsi un’immagine vincente e accattivante. Ci sono però campioni dello sport che raccontano una vicenda diversa dell’Eritrea. Una vicenda dolorosa, fatta di sofferenza, persecuzione, galera, esilio. E’ il caso di sette tra i migliori quattordici ciclisti eritrei, tutti potenziali candidati alla maglia nazionale, fuggiti in Etiopia il 19 ottobre del 2015. Non sono una novità le fughe in Etiopia o in Sudan dall’Eritrea. Anche di personaggi in vista, insieme a migliaia di giovani, donne e uomini, che ogni anno cercano di sottrarsi alla dittatura. Ma quella dei sette ciclisti dell’ottobre 2015 ha destato uno scalpore e un interesse particolari, sia per la popolarità dei protagonisti, sia per il modo rocambolesco con cui è stata portata a termine. Stando alle informazioni diffuse dalla diaspora e riprese da diversi giornali africani, infatti, i sette sono scappati proprio in bicicletta, tutti insieme: hanno finto un lungo giro di allenamento nella zona vicina al confine con la regione etiopica del Tigrai e, sfidando le fucilate della polizia, hanno passato la frontiera pedalando in gruppo, come in una corsa. Asmara ne ha subito preteso il rimpatrio, ma Addis Abeba ha rispettato la loro volontà, accogliendoli come richiedenti asilo, in considerazione del fatto che, una volta costretti a “rientrare”, avrebbero rischiato di sparire in qualche carcere militare, come è accaduto a centinaia di oppositori al regime. Ora vivono da esuli in Etiopia.

C’era un motivo in più perché la dittatura di Asmara ce l’avesse in maniera particolare con quei sette ciclisti in quell’ottobre del 2015. Appena quattro giorni prima della loro fuga, il 15, anche la squadra nazionale di calcio si era quasi interamente dileguata. A offrire l’occasione per quest’altra defezione in massa era stata la partita di qualificazione per il campionati mondiali disputata in Botswana. Ben dieci giocatori, al termine dell’incontro, si sono rifiutati di rientrare in Eritrea, eludendo la sorveglianza degli accompagnatori, abbandonando l’albergo dove erano alloggiati e chiedendo asilo politico alle autorità locali. Immediate le pressioni di Asmara, ma anche stavolta gli atleti hanno tenuto duro, insistendo con forza sulla loro domanda d’asilo e il Governo di Goborone ha dovuto prenderne atto. In questo caso, però, la questione non si è ancora risolta. L’Eritrea torna a sollecitare periodicamente l’espulsione di quei ragazzi e le istituzioni del Botswana non hanno preso una decisione definitiva sulla loro posizione. Finora si è andati avanti con dei permessi provvisori e il timore è che prima o poi, anziché ottenere l’asilo politico o comunque una forma di protezione internazionale, siano riconsegnati ad Asmara. L’ultimo appello lanciato concordemente da tutti e dieci risale a qualche mese fa: chiedono la certezza di poter restare in Botswana come rifugiati oppure la possibilità di raggiungere un altro Stato disposto ad accoglierli.

E’ una “battaglia” che conta diversi precedenti. Più volte, a partire dai primi anni duemila, team sportivi o singoli atleti si sono rifiutati di tornare in Eritrea dopo aver partecipato a competizioni all’estero. L’episodio forse più clamoroso risale al 2013, quando ben 15 giocatori e il medico ufficiale della nazionale di football sono rimasti in Uganda, ottenendo l’asilo politico. Allora vanno benissimo i complimenti e magari le iperboli sulle imprese sportive di Daniel Teklehaimanot. Forse però, parlando di questo grande ciclista, varrebbe la pena che i giornali ricordassero anche altri campioni dello sport eritreo, che hanno scelto una strada diversa. Molto più in salita. Per non assecondare, magari con i lustrini delle vittorie sportive, un regime che opprime il Paese da più di vent’anni e denunciarne invece il vero volto di violenza e di oppressione.


Tratto da: Buongiornolatina

lunedì 8 maggio 2017

Quanto vale la vita di un profugo ? che è una Persona!


Morire a vent’anni per un berrettino: sempre più violenza in Libia contro i profughi in partenza





di Emilio Drudi



Veniva dalla Sierra Leone. Si stava imbarcando da una spiaggia tra Sabratha e Zuwara quando un trafficante ha preteso di prendergli il berretto da baseball. Lui ci teneva a quel berretto: era “suo” e voleva arrivarci fino in Italia. Così si è rifiutato. Quello, allora, non ha esitato a tirare fuori una pistola e a sparare quasi a bruciapelo. E’ crollato a terra. Il fratello e altri profughi lo hanno portato a bordo del gommone in partenza. Poco dopo è morto. Aveva appena 20 anni.

I migranti possono morire anche così in Libia: per un cappellino colorato. Lo hanno raccontato i compagni di quel ragazzo ai soccorritori della Phoenix, la nave di Moas, la Ong maltese, che hanno intercettato il battello a qualche decina di miglia dalla costa africana e ovviamente hanno chiesto conto di quel corpo privo di vita, con una evidente ferita da arma da fuoco, trovato al momento del trasbordo. Il cadavere è stato sbarcato la mattina di sabato 6 maggio a Catania.

Questo omicidio assurdo è solo l’ultimo caso della escalation di violenza contro i migranti in partenza che negli ultimi mesi, grossomodo dall’inizio di marzo, si sta aggiungendo in Libia alle condizioni già terribili vissute nei centri di detenzione o durante il lungo percorso dal confine meridionale, in pieno Sahara, fino alla costa. C’è da chiedersi quali ne siano le ragioni. Diversi episodi sembrano indicare che sta cambiando qualcosa negli “equilibri” con cui negli ultimi anni è stato gestito il traffico di esseri umani. Forse si sta profilando una guerra tra clan e magari anche con quella parte della Guardia Costiera o dell’apparto di polizia che varie inchieste giornalistiche e gli stessi rapporti dell’Onu hanno indicato come collusa con le organizzazioni criminali. O, magari, questo crescendo di ferocia potrebbe essere legato alla necessità di “fare in fretta”, prima che si avvertano gli effetti del giro di vite che il governo di Fayez Serraj a Tripoli si è impegnato a imprimere al controllo dell’immigrazione, sulla scia degli accordi stipulati con l’Unione Europea e, in particolare, del memorandum firmato con l’Italia il 2 febbraio. E’ sintomatica, in ogni caso, la sequenza dei fatti



Sabratha, 5 marzo 2017. I cadaveri di 15 migranti uccisi a colpi di arma da fuoco vengono trovati sepolti a fior di terra in una fossa comune, in fondo a un terrapieno, nella macchia litoranea di Fanar, vicino alla spiaggia, alle porte di Sabratha. A giudicare dallo stato di conservazione dei corpi, la strage deve essere avvenuta almeno un paio di giorni prima, verso il 2 o il 3 di marzo. Forse si tratta di una esecuzione per rappresaglia o forse quei migranti sono rimasti uccisi nel corso di uno scontro tra bande rivali. La notizia viene confermata da un rapporto della direzione locale dei Servizi di Sicurezza, precisando che le salme sono state dissepolte e trasferite per l’inumazione nel cimitero a sud della città, dove vengono seppelliti generalmente i corpi dei migranti recuperati in mare o gettati dalla corrente sulla spiaggia e rimasti senza  un nome. Nessun elemento per risalire all’identità e al paese d’origine delle vittime: si sa solo che dovevano essere profughi subsahariani.



Sabratha, 7/8 marzo 2017. Sulle dune costiere alle porte della città sono scoperti i corpi di 22 migranti uccisi a raffiche di mitra. Secondo quanto riferiscono i media libici e le agenzie di stampa internazionali si tratta di una strage “per punizione” o rappresaglia. Quei 22 migranti facevano parte di un grosso gruppo che i trafficanti volevano costringere a imbarcarsi, probabilmente la notte tra il 4 e il 5 marzo, nonostante il mare fosse molto mosso e, di conseguenza, più che evidente la quasi certezza di affondare dopo poche miglia di navigazione. Di fronte al rifiuto di obbedire all’ordine di salire a bordo, i trafficanti avrebbero aperto il fuoco contro i più riottosi, uccidendone 22 e probabilmente ferendone parecchi altri. Si ignora la sorte dei superstiti: è probabile che siano rimasti in balia dei miliziani del clan.



Bani Walid, 9/10 marzo 2017. Dopo la scoperta delle due stragi di Sabratha, la sede Oim in Libia pubblica un rapporto nel quale si afferma che dalla fine di dicembre sono stati trovati, in diverse circostanze, almeno 100 cadaveri di profughi nella zona di Bani Walid snodo delle piste e delle strade che arrivano da Sabha e che da qui si diramano verso la costa, puntando su Misurata, distante circa 130 chilometri in direzione nord-est o su Tripoli, 150 chilometri in direzione nord-ovest. Molti dei corpi erano ai margini delle piste o delle strade in pieno deserto: l’ipotesi più accreditata è che siano i resti di migranti abbandonati a morire dopo essere caduti accidentalmente dai camion o dai pick-up che li portavano verso la costa. Altri presentano ferite mortali da arma da fuoco o segni di torture e maltrattamenti.



Zuwara, 19/20 marzo 2017. Due gommoni carichi di migranti vengono assaltati durante la navigazione da un gruppo di uomini armati giunti su un motoscafo veloce. Sotto la minaccia dei mitra spianati i due natanti sono costretti a fermarsi: alcuni degli assalitori li abbordano e si impadroniscono dei motori fuoribordo. I due battelli, ormai ingovernabili, vengono abbandonati alla deriva e restano in balia del mare per oltre un giorno. Quando una motovedetta della Guardia Costiera li intercetta, tre donne sono ormai morte e tre giovani che avevano tentato di raggiungere la riva a nuoto risultano dispersi.



Al largo tra Sabratha e Zuwara, fine marzo. Alcuni migranti soccorsi dalla nave Aquarius a una ventina di miglia dalla costa libica, fuori delle acque territoriali, raccontano a personale di Medici Senza Frontiere che il loro gommone, partito la notte prima, era stato scortato per alcune miglia da un battello dei trafficanti che avevano poi invertito la corsa prima di uscire dalle acque territoriali ma dopo aver indicato la rotta da seguire o comunque la direzione di massima da prendere. Non risulta che la scorta fosse armata o comunque i profughi che ne hanno parlato dicono di non aver visto armi di nessun tipo.



Zuwara, 6 aprile 2017. Una motovedetta della Guardia Costiera libica sorprende un battello veloce con diversi uomini armati che sta scortando un gommone carico di oltre 120 migranti. Essendo stato ignorato l’ordine di fermarsi, il guardacoste apre il fuoco. Si accende un breve ma cruento scontro nel quale quattro trafficanti restano uccisi. Altri due sono catturati e tratti in arresto. Nessun ferito tra il personale della Guardia Costiera né tra i profughi a bordo del gommone, che vengono fermati e riportati in Libia.



Zuwara, 7/15 aprile 2017. Al conflitto a fuoco in mare tra la motovedetta libica e il battello dei trafficanti fanno seguito 7/8 giorni di scontri armati: prima tra la Guardia Costiera e una o più bande di trafficanti (con almeno un  morto tra gli “scafisti”) e poi, a quanto pare, tra due bande rivali. La notizie viene riferita da un rappresentante di Medici Senza Frontiere sulla base di fonti locali e di informazioni riportate dalla stampa libica in arabo.



Italia, 24 aprile 2017. Un servizio giornalistico pubblicato da La Stampa riferisce la testimonianza di alcuni migranti che raccontano come il loro gommone, dopo la partenza dalla costa libica, sia stato scortato per un certo tratto, entro il limite delle acque territoriali, da alcuni trafficanti su moto d’acqua. Anche in questo caso – come nell’episodio riferito a Medici Senza frontiere a fine marzo – prima di tornare indietro i trafficanti hanno indicato al profugo che aveva accettato di mettersi al timone quale direzione seguire in linea di massima. A bordo del gommone, dunque, non ci sarebbero stati scafisti collegati al clan dei trafficanti. Il racconto è confermato dalle immagini di un breve filmato fatto con un cellulare nelle quali si vede chiaramente almeno una moto d’acqua che naviga in coppia con il gommone dal quale venivano fatte le riprese. Non si capisce se i trafficanti di scorta fossero armati.



Da tutto questo emergono due evidenze. La prima è che i trafficanti non tollerano ormai nemmeno il minimo cenno di resistenza, pronti a fare fuoco per uccidere anche per un niente. Perfino per un berrettino: figurarsi per un rifiuto di imbarcarsi o per una qualsiasi protesta. Secondo punto: i trafficanti o quanto meno alcune bande hanno deciso di scortare sino al limite delle acque territoriali i gommoni che fanno partire: con altri battelli più veloci o con moto d’acqua, che si muovono ancora più agilmente e rapidamente e sono più difficili da individuare. Sui motivi si possono avanzare due ipotesi: la necessità di proteggere le proprie “spedizioni” da eventuali assalti di altre bande o dai controlli della Guardia Costiera, che rimanda in Libia tutti i battelli intercettati; la necessità o la volontà di “risparmiare” scafisti alle dirette dipendenze dei clan, destinati ad essere quasi certamente individuati ed arrestati al momento dell’arrivo in Italia e dunque sempre più difficili da trovare. Ovviamente le due ipotesi non si escludono: anzi, potrebbero integrarsi come aspetti dello stesso problema. Certo è che in questi giorni, secondo gli ultimi rapporti dell’Oim, ci sono in Libia oltre 300 mila profughi: a tanti è stata prospettata la possibilità di essere rimpatriati nel proprio paese ma la maggioranza, tutti quelli che sono fuggiti da situazioni di crisi estreme, sono in attesa di imbarcarsi. Molti altri, intanto, premono alla frontiera meridionale, bloccati dalla polizia in Sudan e in Niger.

E’ una fuga per la vita che non si può fermare con i “muri” e che è diventata un business da miliardi di euro su cui in tanti hanno messo le mani ed ora non vogliono mollarlo. L’unica via per uscirne è istituire canali di immigrazione legali: solo così si potranno avere “flussi gestiti” e si potranno sconfiggere i clan di trafficanti. L’Unhcr, la Caritas, tutte le Ong lo dicono da anni. La Chiesa Valdese e la Comunità di Sant’Egidio hanno anche organizzato canali umanitari, portando in Italia alcune centinaia di profughi dal Libano. Per dimostrare che è una strada percorribile e sicura. Ma l’Unione Europea a Bruxelles, Roma e tutte le altre cancellerie europee, barricate dietro la loro “politica dei muri”, si ostinano o non voler sentire. E a non voler capire.









Tratto da Tempi Moderni