domenica 13 agosto 2017

Meno profughi in Italia, più nell’inferno libico: è davvero una “vittoria” di cui vantarsi?




di Emilio Drudi



Nei primi sette mesi di quest’anno sono arrivati in Italia meno migranti di quanti ne siano sbarcati nello stesso periodo del 2016. Al 2 agosto, secondo i dati del Viminale, ne risultano 95.215 contro i 97.892 di un anno fa, con una flessione del 2,7 per cento. Il Governo lo ha comunicato con toni da “vittoria”, sottolineando in sostanza che comincia a funzionare la barriera eretta nel Mediterraneo, delegando alla Guardia Costiera libica il compito di bloccare in mare i barconi e riportare i profughi in Africa. Non a caso, pochi giorni dopo, è stata riportata con enfasi da numerosi giornali la notizia che nell’arco di sole 24 ore i guardacoste di Tripoli hanno intercettato e ricondotto in Libia, prima che varcassero la linea delle acque territoriali, oltre 800 migranti. Ottocento disperati, poi arrestati appena hanno messo piede a terra e trasferiti nei centri di detenzione.

E’ davvero una vittoria? Certamente sì, se il punto è fermare i richiedenti asilo ad ogni costo, contro la loro volontà, calpestandone la libertà e stracciando la Convenzione di Ginevra del 1951 sui diritti dei rifugiati, che l’Italia e tutti gli Stati europei hanno firmato come principio guida fondamentale della nostra democrazia. Tutt’altro che una vittoria è, invece, se si riflette sul destino al quale questi respingimenti di massa, effettuati in contrasto con il diritto internazionale e la legge del mare, stanno consegnando migliaia di esseri umani, costretti al rientro forzato nel caos della Libia, la quale, oltre tutto, la Convenzione di Ginevra non ha mai voluto firmarla e non si sente dunque minimamente vincolata a rispettarla. Sono eloquenti le denunce e i numerosi rapporti presentati, negli ultimi anni, sia da istituzioni internazionali che da organizzazioni umanitarie. Basterà citare i più recenti.

30 luglio 2017. Human Rights Solidarity sollecita le autorità libiche “ad assumersi le proprie responsabilità” per la tutela dei migranti ridotti in schiavitù, sottoposti a lavoro forzato e, specialmente le giovani donne, consegnati al “mercato del sesso”. “Sono crimini a cui bisogna porre fine”, afferma l’organizzazione, aggiungendo che soprusi avvengono anche nei centri di detenzione: cibo scarso, mancanza totale di assistenza medica, maltrattamenti. 

1 luglio 2017. La Guardia Costiera libica – alla quale l’Italia, per sostenerne il ruolo di gendarme del Mediterraneo, ha fornito navi, logistica, strumenti tecnici, addestramento e finanziamenti – è indagata dalla Corte Penale Internazionale “per gravi crimini contro i diritti umani”, inclusi “crimini contro l’umanità”. E’ una branca dell’inchiesta aperta due mesi prima sui soprusi e la sorte subita dai migranti in Libia annunciata dalla procuratrice Fatou Bensouda al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Trovano così conferma i reportage di numerosi giornali che da almeno un paio d’anni denunciano le violenze e i legami diretti di almeno parte della Guardia Costiera di Tripoli con i clan di trafficanti di uomini. Su quest’ultimo aspetto, i collegamenti dei guardacoste con il mercato di esseri umani, sta indagando dalla fine di luglio anche la Procura di Trapani.

21 maggio 2017. Il capo dell’Agenzia dell’Onu per i Rifugiati, Filippo Grandi, chiede al Governo libico di liberare tutti i richiedenti asilo e i rifugiati rinchiusi nei centri di detenzione, mettendone sotto accusa la gestione e il trattamento riservato agli ospiti. La sollecitazione all’esecutivo guidato da Fayez Serraj arriva dopo una ispezione condotta dallo stesso Grandi in uno dei campi. “Sono rimasto scioccato – ha dichiarato dopo la visita – dalle dure condizioni in cui sono costretti migranti e rifugiati. Bambini, donne e uomini che hanno già patito tantissimo non possono essere sottoposti ad ulteriori pesanti privazioni e sofferenze”.

14 maggio 2017. L’Organizzazione Mondiale per l’Immigrazione (Oim) denuncia che a Sabha, la capitale del Fezzan, snodo cruciale delle piste che arrivano dal Sahara e si diramano verso Tripoli e la costa mediterranea, è organizzato alla luce del sole, direttamente in piazza, un autentico mercato degli schiavi: uomini e donne catturati dai trafficanti vengono ceduti all’asta al miglior offerente. Una denuncia analoga era stata fatta, sempre dall’Oim, esattamente un mese prima, il 14 aprile, ma nessuno è intervenuto. Anzi, il Consiglio Municipale di Sabha ha cercato di negare o comunque di sminuire. A supporto delle sue accuse l’Oim presenta una serie di testimonianze-choc, rese da vittime del traffico, giovani profughi provenienti da Niger, Gambia, Senegal e Ghana, catturati e “messi sul mercato” dai “passatori” ai quali si erano affidati per attraversare il Sahara e il confine con la Libia, partendo da Agadez. Conferma il dossier dell’Oim anche la scoperta del “ghetto di Alì”, una fortezza nel deserto, nel circondario di Sabha, cinta da alte mura e da siepi di filo spinato, sorvegliata da miliziani armati di mitragliatori. All’interno, in due gironi infernali distinti, sono rinchiusi uomini, donne e bambini. Almeno un migliaio di prigionieri – scrive Alessandra Ziniti su Repubblica – sottoposti a violenze di ogni genere, spesso torturati in diretta telefonica con le famiglie per indurle a pagare il riscatto. Anzi, perché siano ancora più convincenti, talvolta questi orrori vengono filmati, come ha rilevato anche l’Oim, per essere diffusi su you-tube. Non risulta che le autorità libiche e la polizia abbiano mai mosso un dito contro questo lager privato dei trafficanti.

9 maggio 2017. La Corte Penale Internazionale apre un’inchiesta sui crimini commessi in Libia contro i migranti. Nel mirino il traffico di uomini ma anche i centri di detenzione. “Stiamo indagando perché si presume che in questi centri, dove sono detenute migliaia di persone, tra cui donne e bambini, siano commessi, come pratica comune, gravi crimini, tra cui uccisioni e atti di tortura”, ha dichiarato la procuratrice Fatou Bensouda, aggiungendo: “Sono costernata per le informazioni credibili secondo cui la Libia è diventata un mercato per il traffico di esseri umani, mentre la situazione della sicurezza si è deteriorata in modo significativo rispetto all’anno scorso”.

Fine gennaio 2017. Alla vigilia del memorandum firmato a Roma dal premier Gentiloni e dal presidente Fayez Serraj, che delega a Tripoli il ruolo di “gendarme” per il controllo dell’immigrazione nel Mediterraneo, con il mandato di bloccare e riportare in Africa i profughi, l’ambasciatore tedesco in Nigeria, dopo una visita in Libia, sconsiglia vivamente di concentrare nel Paese i migranti a causa delle condizioni di assoluta precarietà e insicurezza a cui sono abbandonati e per la mancanza di strutture adeguate ad accoglierli, anche solo temporaneamente, con un minimo di dignità e rispetto. Un quadro analogo viene descritto dal Governo nigeriano per mettere sull’avviso i tanti che dalla Nigeria scelgono la via libica per tentare di arrivare in Europa.  

13 dicembre 2016. Un rapporto dell’Onu rileva che i migranti presenti in Libia sono sottoposti a soprusi, torture, stupri, riduzione in schiavitù ed altre forme di violenza. Abituale e sistematica la violazione dei diritti più elementari della persona. “Siamo di fronte a una crisi umanitaria – si legge nel dossier – Il crollo del sistema di giustizia consente una totale impunità ai gruppi armati, ai clan criminali, ai trafficanti che controllano il flusso dei migranti attraverso il paese”. Il tutto con la complicità di funzionari governativi e dell’apparato dello Stato: “La missione delle Nazioni Unite – sottolinea la relazione finale – ha ricevuto informazioni credibili secondo cui esponenti delle istituzioni statali e funzionari locali collaborano con le organizzazioni del traffico di uomini”.

13 dicembre 2016. Un capitolo specifico del rapporto presentato dalle Nazioni Unite il 13 dicembre riguarda le donne. Ne emerge che sono loro, specie le più giovani, le vittime più esposte alla tragedia del traffico di esseri umani, ribadendo la denuncia di numerosi dossier pubblicati nei mesi precedenti da diverse Ong. In particolare, a conferma di una indagine avviata in Italia su iniziativa di alcuni medici della Croce Rossa, risulta che tantissime, la maggioranza, a partire da almeno tre mesi prima di entrare in Libia, assumono dosi massicce di anticoncezionali, con conseguenze spesso irreversibili per la loro salute. Il motivo è evidente: temono di essere violentate e dunque cercano almeno di evitare una gravidanza non desiderata. Un timore fondato, come testimoniano molte ragazze giunte in Europa, che raccontano di stupri sistematici: nei centri di detenzione governativi, nei lager dei trafficanti o lungo il viaggio stesso ad opera dei “passatori”. Una ragazza eritrea, ad esempio, ha riferito come ogni sera, per oltre un mese, sia stata puntualmente prelevata dallo stanzone in cui era rinchiusa con le compagne e violentata da uno dei militari in servizio nel centro di detenzione, fino al mattino. Non a caso, sulla scorta di racconti come questo, l’Ordine di Malta ha proposto di istituire una “rete di sostegno” mirata per le donne migranti in tutta Europa, con un’attenzione particolare per quelle che hanno subito violenza.

16 settembre 2016. Un’inchiesta giornalistica di Lorenzo Cremonesi, pubblicata dal settimanale Sette, denuncia l’inferno delle carceri di Misurata, Tripoli, Garabouli, Al Khums e Zawiyah, dove sono rinchiusi numerosi migranti. La violenza da parte delle guardie è pratica quotidiana. “I detenuti – si legge in un passo – vengono picchiati con i calci dei fucili dai secondini, che spesso li sbattono in isolamento in buchi oscuri”. Ma anche la “normalità” è orrenda: sovraffollamento, materassi luridi gettati sul pavimento come giacigli, cibo scarso e pessimo, interrogatori violenti e condotti a furia di percosse. E colpisce l’ammissione del presidente del Consiglio di Stato: “Non si può negarlo: spesso coloro che controllano i migranti collaborano con gli scafisti: è un business enorme”.

Fine agosto 2016. All’ospedale San Carlo di Milano, i medici scoprono che a un profugo sudanese di 35/40 anni, ricoverato per un malore, manca il rene sinistro. Sulla schiena ha cicatrici corrispondenti a una nefrectomia: l’organo gli è stato asportato di recente con un intervento chirurgico. Interrogato, l’uomo racconta confusamente che quando era in Libia, in attesa di un imbarco, era stato narcotizzato, risvegliandosi poi in quelle condizioni. L’ospedale ha subito avvertito la polizia, ma il profugo ha fatto perdere le proprie tracce prima di un interrogatorio formale. Il suo racconto fa presumere che abbia messo radici anche in Libia il mercato di organi per i trapianti clandestini denunciato nel dicembre del 2009 nel Sinai e successivamente nel Sudan. Una conferma arriva alcune settimane dopo dal procuratore aggiunto di Palermo, Maurizio Scalia, che sta conducendo un’inchiesta sul traffico di esseri umani e che, riferendo la confessione di un pentito considerato affidabile, ha dichiarato: “Alcuni migranti che non sono in grado di pagarsi il conto del viaggio dal Nord Africa all’Europa subirebbero espianti di organi poi destinati al mercato nero, dove vengono pagati circa 15 mila dollari. La base di questi traffici sarebbe in Egitto”. In Egitto come era emerso per gli espianti forzati segnalati nel Sinai, quasi a indicare che potrebbe trattarsi della stessa rete di organizzazioni criminali.

1 luglio 2016. Un rapporto di Amnesty, basato su decine di terribili testimonianze, fa emergere per l’ennesima volta la drammatica serie di violenze subite dai migranti in Libia: minacce, maltrattamenti, uccisioni e persecuzioni religiose, abusi sessuali e di ogni altro genere. Ne risultano responsabili in particolare i trafficanti di esseri umani, ma anche gruppi di miliziani armati e la stessa polizia. Tutti sembrano in grado di agire pressoché indisturbati, nell’indifferenza o comunque nell’impotenza delle istituzioni. “I migranti e i rifugiati – si afferma – sono presi dai trafficanti appena entrati in Libia e vengono venduti alle bande criminali. Parecchi di loro hanno riferito di pestaggi, stupri, torture, sfruttamento. Alcuni hanno assistito a uccisioni da parte dei trasportatori; altri hanno visto compagni di viaggio morire a causa delle malattie o dei trattamenti subiti”. Secondo le relazioni pubblicate in precedenza da altre Ong o da associazioni umanitarie, come Human Rights Watch, Habeshia, Inmigrazione, nei centri di detenzione “ufficiali” non va granché meglio. Da qui la conclusione di Amnesty: “L’Unione Europea dovrebbe occuparsi meno di tenere migranti e rifugiati fuori dalle sue frontiere e concentrarsi maggiormente sulla messa a disposizione di percorsi legali e sicuri per coloro che sono intrappolati in Libia. La priorità deve essere quella di salvare vite umane”.

Agosto 2014 – marzo 2015. In quasi tutti i centri di detenzione i miliziani hanno campo libero. In molti casi hanno fatto irruzione e requisito decine di prigionieri, obbligandoli a portare armi e munizioni fin sulla linea del fuoco durante gli scontri tra le diverse fazioni che si contendono il potere. E’ accaduto in particolare nelle battaglie di Bengasi nella primavera del 2015, in quelle per la conquista e il controllo dell’aeroporto di Tripoli nell’agosto del 2014 e, ancora prima, nei conflitti tribali a Kufra. Ne hanno riferito il rapporto di un cooperante del Cesvi, una organizzazione umanitaria italiana, e le denunce dell’agenzia Habeshia. Di parecchi dei giovani sequestrati si sono perse le tracce. Alcuni di quelli che, magari feriti, sono riusciti a fare ritorno nei campi di accoglienza, hanno raccontato che diversi compagni erano morti, presi in mezzo al fuoco incrociato dei combattenti dei due fronti. Nessuna reazione da parte del Governo libico.

Ecco, oggi la Libia è per i migranti l’inferno descritto in questi rapporti. Ed è a questo infermo che i muri innalzati nel Mediterraneo dall’Italia, d’intesa con Tripoli, condannano i richiedenti asilo intercettati in mare e costretti a tornare indietro. Roma non può non saperlo. C’è da chiedersi, allora, se davvero sia il caso di “vantare” l’efficacia del nuovo blocco, come fa il Viminale. A meno che quello che conta non sia semplicemente “fare muro”. Ad ogni costo. Ma “fare muro”, oltre a violare le norme internazionali che vietano i respingimenti indiscriminati di massa, significa rendersi complici degli orrori raccontati dall’Onu, dall’Unchr, dall’Oim, da tutte le principali Ong, da giornalisti, diplomatici, associazioni umanitarie, volontari. Con pesanti responsabilità morali, politiche e, probabilmente, anche giuridiche.





Tratto da: Tempi Moderni

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